PER L'ABOLIZIONE DEI DIRITTI D'AUTORE
La proprietà intellettuale è un furto!


È  legittimo che gli artisti ricevano una giusta remunerazione dal loro lavoro. I diritti d'autore sembrano rappresentare una delle loro più importanti fonti di reddito. Purtroppo stanno diventando uno dei prodotti più commerciali del XXI secolo. Il sistema non sembra più capace di proteggere gli interessi della maggioranza di musicisti, compositori, attori, ballerini, scrittori, designer, pittori o registi... Una constatazione che spinge ad aprire un dibattito sulle strade da ricercare per assicurare agli artisti i mezzi per vivere del loro lavoro e garantire alle creazioni il meritato rispetto.

di JOOST SMIERS *
I grandi gruppi culturali e d'informazione coprono il mondo intero con satelliti e cavi. Ma possedere tutti i canali d'informazione del mondo ha senso solo se si possiede l'essenziale del contenuto, di cui il copyright costituisce la forma legale di proprietà. Attualmente nel settore della cultura assistiamo ad una vera giungla di fusioni, come quella di Aol e Time Warner. Tutto questo rischia di far sì che, in un prossimo futuro, sia solo un gruppetto di poche compagnie a disporre dei diritti di proprietà intellettuale su quasi tutta la creazione artistica, passata e presente. Il modello è Bill Gates e la sua società Corbis, proprietari dei diritti di 65 milioni di immagini in tutto il mondo, di cui 2,1 milioni disponibili in rete (1).
Il concetto, un tempo utile, di diritto d'autore diventa così uno strumento di controllo del bene comune intellettuale e creativo, nelle mani di un ristretto numero di imprese. Non si tratta solo di abuso che sarebbe facile individuare. L'antropologa canadese Rosemary Coombe, specialista in diritti d'autore, osserva che «nella cultura consumistica, la maggior parte di immagini, testi, etichette, marchi, logo, disegni, arie musicali e anche colori sono governati, se non controllati, dal regime di proprietà intellettuale (2).» Le conseguenze di questo controllo monopolistico sono spaventose.
I pochi gruppi dominanti dell'industria culturale trasmettono solo le opere artistiche o di intrattenimento di cui detengono i diritti.
Si concentrano sulla promozione di alcune star, sulle quali investono fortemente e guadagnano sui prodotti derivati. A causa dei rischi elevati e delle esigenze di ritorno sull'investimento, il marketing rivolto ad ogni singolo cittadino del mondo è così aggressivo che tutte le altre creazioni culturali sono eliminate dal panorama mentale di molti popoli. A scapito della diversità delle espressioni artistiche, di cui abbiamo disperatamente bisogno in una prospettiva democratica.
Si assiste anche ad una proliferazione di norme legali su tutto ciò che riguarda la creazione. Le società che comprano l'insieme dei diritti, li proteggono con regole molto dettagliate e fanno difendere i loro interessi da avvocati altamente qualificati. Improvvisamente, l'artista deve fare attenzione a che queste società non gli rubino il lavoro. Per difendersi è costretto ad assumere a sua volta degli avvocati, anche se i suoi mezzi economici sono molto più limitati.
Vivere decentemente del lavoro creativo Con il sistema dei diritti d'autore le grandi compagnie fanno fortuna.
Ma la pirateria che «democratizza» l'uso, in casa propria, della musica e di altri materiali artistici, le minaccia. Con un suo giro di affari pari a 200 miliardi di dollari l'anno, disturba l'accumulazione di capitale (3). Tuttavia la lotta contro la contraffazione sembra vanificata dall'invenzione di Mp3, Napster, Warapster, ecc. Questi ultimi rendono possibile in pochi minuti il telecaricamento di notevoli quantità di musiche, immagini, film o software dallo stock virtuale di dati disponibili in tutto il mondo. Un fenomeno che l'industria del disco e la sua associazione, la Riaa (Recording Industry Association of America), non apprezzano affatto.
Philip Kennicott, un ricercatore australiano, ritiene che Napster permetta di scavalcare completamente il circuito commerciale della produzione musicale. «Gli americani, scrive, commettono l'errore di paragonare un certo stile di cultura popolare - come le grandi macchine prodotte dall'industria americana - con la cultura americana, come se i film spettacolari e i dischi venduti a milioni di copie rappresentassero, da soli, la creatività degli Stati uniti. È affascinante pensare che i prodotti di divertimento formino il cemento culturale che unisce i popoli. Ma questo tipo di cultura popolare, di cui le industrie sono proprietarie, è molto diversa dalla cultura del popolo, che non appartiene a nessuno (4).» Per di più, computer e Internet forniscono agli artisti un'occasione unica di creare utilizzando materiali che provengono da correnti artistiche di tutto il mondo, del passato e del presente. E in questo senso non fanno nulla di diverso da ciò che hanno fatto i loro predecessori: Bach, Shakespeare e migliaia di altri. È sempre stato normale utilizzare idee e parte del lavoro dei precursori. Altra cosa è il plagio.
Su questo fenomeno, il filosofo Jacques Soulillou sviluppa un interessante commento teorico: «La ragione per la quale è difficile produrre la prova di plagio nel campo dell'arte e della letteratura sta nel fatto che non basta soltanto dimostrare che B si è inspirato ad A, senza citare eventualmente le sue fonti, ma bisogna anche provare che A non si è ispirato a nessuno. Il plagio suppone infatti che la regressione di B verso A si esaurisca lì, perché si arrivasse a dimostrare che A si è inspirato, e per così dire ha plagiato un X che cronologicamente lo precede, la denuncia di A ne risulterebbe indebolita (5).» La sua analisi ricorda non solo che il sistema dei diritti d'autore diventa sempre meno sostenibile, ma anche che questo sistema è fondato su un concetto meno evidente di quanto non sembri. Si può forse immaginare un poema creato senza poemi antecedenti ? Ecco perché Rosemary Coombe si chiede fino a che punto l'immagine di una star e il suo valore sia dovuto ai suoi sforzi personali. «Le immagini della diva devono essere costruite... Le immagini delle star sono il prodotto di studi cinematografici, media, agenzie di pubbliche relazioni, club di ammiratori, cronisti, fotografi, parrucchieri, insegnanti di ginnastica, professori, registi, addetti ai lavori, direttori, avvocati e medici (6).» Senza dimenticare il ruolo del pubblico, a proposito del quale la stessa Marylin Monroe dichiarava: «Se sono una star, è perché il pubblico ha fatto di me una star, né gli studios né altri, solo il pubblico (7).» Abbiamo bisogno di un sistema di proprietà intellettuale per promuovere creatività? Assolutamente no. Un numero sempre maggiore di economisti, dati alla mano, dimostra che l'espandersi dei diritti d'autore favorisce più chi investe che chi crea e interpreta. Di fatto il 90% del reddito ottenuto a questo titolo va al 10% degli artisti. L'economista britannico Martin Kretschmers conclude che «la retorica dei diritti d'autore è stata ingigantita essenzialmente da un terzo partner: Gli editori e le case discografiche, cioè da coloro che investono in creatività (più che dagli artisti), diventati i primi beneficiari di questa protezione estesa (8)».
Il sistema non favorisce neppure il terzo mondo. Come spiega il l'universitario James Boyle, per acquisire il diritto di proprietà intellettuale un artista deve essere affermato. «Questa esigenza favorisce in maniera sproporzionata i paesi sviluppati. Così curaro, batik, miti e il ballo lambada volano via dai paesi in via di sviluppo senza alcuna protezione, mentre il Prozac, i pantaloni Levi's, i romanzi di John Grisham e Lambada, il film, vi ritornano protetti da un insieme di leggi sulla proprietà intellettuale (9)».
Sarebbe giusto studiare un altro sistema che favorisse la diversità della creazione artistica. Rosemary Coombe individua la contraddizione che dovrebbe essere risolta: «La cultura non è fissata in concetti astratti che interiorizziamo, ma nella materialità delle esperienze e degli argomenti sui quali ci battiamo e nel segno che queste lotte lasciano nella nostra coscienza. Questa discussione e la battaglia attualmente in corso sui sentimenti sono al centro del dialogo. Molte interpretazioni delle leggi relative alla proprietà intellettuale, facendo appello al concetto astratto di proprietà, soffocano il dialogo sostenendo il potere della corporazione degli attori sul mondo dei sentimenti. Le leggi sulla proprietà intellettuale privilegiano il monologo al dialogo e creano grandi differenziali di potere tra attori sociali impegnati in una lotta egemonica (10)». Il concetto centrale è quindi il dialogo.
Secondo obiettivo del nuovo sistema: deve garantire ad un alto numero di artisti, appartenenti a paesi sia poveri sia ricchi, di vivere decentemente del loro lavoro creativo. Per tutte queste ragioni, il mantenimento dell'attuale sistema dei diritti d'autore non risulta né auspicabile, né realizzabile.
La relazione diretta con l'artista, come la concepiva inizialmente la filosofia del diritto d'autore, in pratica non esiste più. Perché non fare un ulteriore passo abolendo l'intero sistema? Perché non sostituirlo con un altro in grado di garantire una migliore remunerazione sia agli artisti del terzo mondo che a quelli dei paesi sviluppati, un maggior rispetto del loro lavoro e la capacità di riportare il pubblico al centro della nostra attenzione?
A prima vista, può sembrare contraddittorio che un artista, di un paese sviluppato o del terzo mondo, possa vivere meglio senza i diritti d'autore. Tuttavia, questa possibilità deve essere presa in seria considerazione. Senza dubbio l'aspetto più radicale della proposta sta nel fatto che diminuirà l'entusiasmo suscitato dalle industrie culturali per le loro star. Non avranno più interesse a investire in modo massiccio su «fenomeni» capaci di attirare il grande pubblico, se non possono poi sfruttarle in modo esclusivo; il che, dopotutto, è il principio di base dei diritti d'autore.
Se questi ultimi scomparissero, non esisterebbero più industrie monopolistiche della cultura capaci di determinare il gusto comune con la promozione dei loro protetti. Per l'artista medio, la situazione ritornerebbe «normale»: potrebbe di nuovo trovare mercati e pubblici diversi, nel suo ambiente e su scala mondiale, via Internet; potrebbe così guadagnare normalmente, e anche di più.
Le imprese e chiunque utilizzi materiali artistici sarebbero liberati dal pagamento dei diritti d'autore e dalle scartoffie burocratiche connesse. Ma questo non vuol dire che non si dovrà pagare per l'utilizzazione di un lavoro artistico. Chi usa a scopo commerciale creazioni artistiche e spettacoli fa ricorso a musiche, immagini, disegni, testi, film, coreografie, pittura, multimedia... per suscitare desideri e guadagnare di più. Contro l'industria culturale si potrebbe allora pensare ad una tassa prelevata sui profitti delle imprese che in un modo o nell'altro utilizzano materiale artistico.
Il che riguarda la quasi totalità delle aziende. Il denaro così prelevato potrebbe essere assegnato ad un fondo speciale, secondo procedure fissate per legge, con tre categorie di beneficiari: i gruppi di artisti, gli artisti individuali e quelli del terzo mondo. Verrebbe quindi eliminata la connessione diretta - misurata in quantità, minuti o altro - tra l'utilizzazione attuale del lavoro di un artista e la sua remunerazione.
Quanto ai diritti morali che dovrebbero proteggere l'integrità del lavoro artistico e scientifico dall'imitazione, è ora di riconoscere che frenano la creazione artistica. La conclusione logica dovrebbe essere di eliminare anche questi. Nella società occidentale abbiamo creato una strana situazione: corriamo in tribunale non appena riteniamo che un diritto d'autore sia stato violato... Ma se non c'è proprietà in senso assoluto, allora non c'è niente da violare e da citare in giudizio. Il problema centrale nei nostri dibattiti dovrebbe consistere nel verificare se l'uso (di una parte) delle opere di altri artisti è stato fatto con rispetto e apporto di nuova creatività. O al contrario, se è raffazzonato, noioso o obiettivamente mal fatto. Un artista che prenda in prestito troppo facilmente dai suoi predecessori o da uno dei suoi contemporanei non potrà che essere considerato un artista minore.
Immaginiamo comunque che una persona copi il lavoro di un altro artista, asserisca che è suo e lo firmi. Se non c'è né rielaborazione, né commento culturale, né aggiunta, né traccia di creatività, si tratta evidentemente di un vero e proprio furto che merita di essere sanzionato.
A questo punto, l'obiettivo dovrebbe essere la creazione di un nuovo sistema che garantisca agli artisti dei paesi occidentali e del terzo mondo redditi migliori, che si apra in modo ampio a un dibattito pubblico sul valore della creazione artistica, che si preoccupi del miglioramento del livello culturale del pubblico, che spezzi il monopolio delle industrie della cultura, le quali vivono sul sistema dei diritti d'autore.



note:

* Direttore del centro di ricerche e professore ordinario all'Università delle arti, Utrecht (Paesi Bassi). In particolare autore di Etat des lieux de la création en Europe. Le tissu culturel déchiré, L'Harmattan, Parigi, 1999.

(1) C. Alberdingk Thijm, Websurfen? Treck je creditcard, Het Parool, Amsterdam, 7 marzo 2000.

(2) Rosemary J. Coombe, The Culturel Life of Intellectual Properties, Authorship, Appropriation and the Law, Durhamand, Londra,1998.

(3) Christian De Brie «L'economia criminale», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 2000.

(4) Philip Kennicott, «Napster gives musicians a chance to be heard», International Herald Tribune, 1° agosto 2000.

(5) Jacques Soulillou, L'auteur, mode d'emploi, L'Harmattan, Parigi, 1999.

(6) Rosemary J. Coombe, op. cit.

(7) Rosemary J. Coombe, op. cit.

(8) Martin Kretschmers, Intellectual Property in Music. An Historical Analysis of Rethoric and Institutional Practices, Paper, City University Buisiness School, Londra, 1999.

(9) James Boyle, Shamans, Software and Spleens. Law and the Construction of Information Society, Harvard University Press, Cambridge MA, 1996.

(10) Rosemary J. Coombe, op. cit.
(Traduzione di G. P.)

http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Settembre-2001/0109lm28.01.html

 

 

 
14.05.02
NUOVI CONFINI PER LA PROPRIETÀ INTELLETTUALE

Presentata ufficialmente alla conferenza tecnologica di Santa Clara, è nata la Creative Commons, società no-profit creata da Lawrence Lessig, autorevole professore della Standford Law School ed esperto di cyberdiritto, e un gruppo di studiosi del suo ateneo. L'obiettivo è quello di ridisegnare i confini della proprietà intellettuale, cercando di evitare il pericolo che la creatività e l'innovazione vengano inibiti da regimi di protezione eccessivamente severi. In sostanza Lessig e i professori del Mit stanno lavorando alla creazione di un mercato legale e parallelo di licenze gratuite che, con il consenso e la collaborazione dei creatori delle opere, definiscano nuovi termini entro i quali sarà possibile l'utilizzo delle creazioni. E' la politica del compromesso e sancisce un nuovo atteggiamento, diverso da quello scelto dai libertari della Rete e ispirato al movimento del "free software". Sì alla protezione, ma sì anche a chi voglia condividere le proprie musiche, i propri scritti e i propri programmi, permettendo alla gente di copiare per usi non commerciali. Inoltre il Creative Commons si propone un'opera di sensibilizzazione dell'opinione pubblica verso gli "effetti collaterali" della legge del '98, declinando gli interessi della produzione a quelli della collettività e tentando di ridurre il periodo eccessivamente lungo del copyright.
(CORRIERE DELLA SERA)

http://www.sitodelgiorno.com/tamtam/tecno/tecno5.htm

 

Paradossi del copyright


di Raffaele Mastrolonardo



Non sono pochi quelli che pensano che il copyright sia un concetto che merita una nuova formulazione. Nato come strumento elastico per favorire la produzione culturale, si è progressivamente trasformato quasi ovunque in una legge sulla proprietà. Secondo molti, in questa evoluzione, il concetto si è infine rivoltato nel suo opposto, vale a dire, un ostacolo alla creatività che intendeva salvaguardare. 
La causa tra il Sudafrica e le multinazionali del farmaco sui medicinali anti-aids e analoghe vertenze in altri paesi del terzo mondo hanno mostrato in modo lampante alcune conseguenze paradossali della attuale legislazione sulla cosiddetta proprietà intellettuale. Mentre milioni di persone muoiono a causa dell’Hiv, i loro governi non possono produrre i farmaci che potrebbero salvarle senza incorrere nelle denuncie dei proprietari del brevetto, i quali però vendono le medicine a prezzi inaccessibili per quei governi.
Se quello dei farmaci anti-aids è un caso drammatico, altre iniziative più estemporanee hanno recentemente cercato di illuminare alcuni aspetti perversi del copyright versione inizio millennio. 
E’ di pochi giorni fa la notizia che due australiani, Nigel Helyer e Jon Drummond, hanno brevettato 100 miliardi di sequenze di toni telefonici, vale a dire le melodie composte ogni qualvolta premiamo i tasti di un telefono. Questo significa che quando chiamiamo un amico rischiamo di riprodurre una sequenza musicale soggetta a copyright e quindi rischiamo di violare le leggi internazionali in materia.
I due australiani hanno utilizzato un algoritmo in grado di generare tutte le combinazioni possibili da 16 coppie di toni iniziali. Lo scopo di Helyer e Drummond è evidentemente provocatorio: se si possono avanzare pretese di copyright sul Dna umano, vale a dire il nostro patrimonio più intimo, perché non farlo sulle sequenze di toni prodotte ogni giorno da miliardi di individui? E’ dunque possibile recarsi sul sito dei due immaginifici australiani (www.magnus-opus.com) e controllare se la melodia prodotta dal proprio numero di telefono è di loro proprietà. In questo caso, non resta che compilare un modulo già predisposto che ci fornirà l’autorizzazione all’utilizzo della sequenza numerica (e musicale) desiderata. 
Ma non si rischia di violare la legge sul copyright solo facendo una telefonata. Anche guidare una macchina o pedalare su una bicicletta comporta dei rischi. La storia è curiosa e coinvolge un’invenzione vecchia di millenni, un premio Nobel particolare e l’ufficio brevetti australiano (sempre lui). Scorriamola a ritroso. 
La settimana scorsa sono stati assegnati, come ogni anno, gli Ig Nobel Prize per le migliori invenzioni “impossibili”. Il premio della categoria “tecnologia” è stato assegnato non ad uno scienziato ma ad un giovane avvocato, John Keogh, anche lui, come Helyer e Drummond, australiano. L’invenzione che gli è valsa l’ambita onorificenza? La ruota, o meglio un “dispositivo circolare che facilita il trasporto”, registrato qualche mese fa all’Ufficio brevetti australiano con il numero #2001100012.
L’intento di Keogh è mostrare le falle del meccanismo che permette di ottenere la proprietà di un’idea o di un’invenzione. E’ molto facile infatti spingere questo sistema all’estremo con conseguenze gravi sulla creatività e lo sviluppo, privando così legittimi fruitori dei benefici di tecnologie condivise. Quello che, secondo i critici più radicali della proprietà intellettuale, fanno ogni giorno impunemente grandi gruppi industriali.
A questo punto l’Ufficio brevetti australiano può decidere di contestare la registrazione, accusando Keogh di frode e portandolo in tribunale. Proprio quello che l’avvocato si augura. Quella giudiziaria è infatti la sede adatta per dimostrare l’inefficienza del sistema di brevetto australiano, che ha recentemente introdotto la categoria delle “Innovation patent”, per ottenere le quali si deve solo mostrare che c'è dell'innovazione nella propria invenzione. Con il risultato, secondo Keogh, che quasi tutto può essere brevettato.

http://www.smau.it/smau/view_NO.php?IDcontent=9844

 


La mente umana, l'identità e l'intelligenza collettiva

L'intelligenza collettiva non è semplicemente un modo di lavoro collettivo. E' anche una modalità operativa di conoscenza del mondo. Di fatto non sarebbe possibile ritenere l'enorme quantità di informazioni significative che ogni giorno, fin dalla nascita, percepiamo attraverso l'esperienza. Per fronteggiare questo problema l'umanità ha creato nel suo procedere storico un'enormità di artefatti cognitivi, disseminati negli oggetti, nei testi, nei comportamenti e nella lingua in generale. Ovverosia gli oggetti si danno alla nostra percezione fornendoci attraverso forma e sostanza le tracce inerenti al loro senso ed uso. In pratica il processo del nostro pensiero non si avvale esclusivamente degli input che emergono dall'interno, ma si appoggia a una parte della mente disseminata negli artefatti cognitivi di cui il mondo abbonda. Il nostro pensiero, funziona grazie ad una parte della nostra mente collettiva che risiede nelle cose che ci circondano e che sono il prodotto delle molteplici culture che si sono susseguite, mescolate, sussunte e rielaborate.

Questo vuol dire che non possiamo fare a meno dell'intelligenza collettiva per elaborare pensieri sensati. Che, dunque, qualsiasi cosa prodotta da ognuno di noi è contemporaneamente anche il frutto dello sforzo del resto della collettività nello spazio e nel tempo.

E' difficile quindi pensare di poter assegnare ad alcuni il diritto di possedere una proprietà intellettuale esclusiva su qualcosa.

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Uno dei processi in base a cui funziona la mente umana è anche quello della ricombinazione delle idee sulla base di un processo analogo al funzionamento dei geni per le cellule, che R. Dawkins ha definito "memi". Le nostre idee, attraverso i memi, farebbero in qualche modo parte del nostro apparato riproduttivo influenzando, ed essendo influenzati nel nostro sviluppo evolutivo dallo sviluppo dell'umanità nel suo complesso.

(A. Di Corinto e T. Tozzi, Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete, Manifestolibri, Roma 2002 http://www.hackerart.org/storia/hacktivism.htm