EPITAFFIO EPISTOLARE PER IL FRATELLO PINO TURCO
Mondovì,
7 febbraio 2012.
Caro Gennaro Francione,
in questi giorni, mentre Pino Turco
combatteva e soccombeva alla sua malattia, alcune iniziative editoriali
e cinematografiche hanno ridestato l’attenzione sulle vicende del treno
8017 e sulle vittime della tragedia. È, questa, certamente opera
meritoria ma, mi pare, che rimanga abbastanza isolata da quella rete di
relazioni scientifiche, artistiche e soprattutto umane sviluppatesi tra
coloro che si sono occupati professionalmente di tale immane tragedia,
sempre in maniera rigorosa, da moltissimi anni, incontrandosi e trovando
un luogo di dialogo sul tuo sito web “Treni di luce”. Speriamo che
presto, gli autori di questi recentissimi lavori, trovino il tempo di
confrontarsi con tutti quegli studiosi e quegli artisti che prima di
loro, in tempi diversi ma sempre in relazione dialogica, critica e
riflessiva tra loro, hanno contribuito alla costruzione ed alla
rappresentazione del ricordo di questa vicenda nefasta. Così come, con
rigore scientifico, passione artistica ed amore per gli uomini fece
anche Pino il quale, come ricorderai, volle incontrarti personalmente
per discutere con te di quei fatti che ci riguardano e ci appartengono e
ci tormenteranno per sempre.
Ti prego, caro amico, di pubblicare
questo mio ricordo del maestro Turco. Che possa trovare lì dove è andato
qualcuna delle persone di cui si è così empaticamente occupato con i
suoi attori e che possa, con loro, riposare in pace.
Dunque, ieri sera, alle diciotto,
l’intenso e feroce male che lo affliggeva l’ha ucciso. È così che Pino
Turco è morto. Senza farne mistero, nemmeno a se stesso, in piena
consapevolezza. Aveva voluto vedermi qualche giorno prima per ricordarmi
i termini del nostro accordo intellettuale e umano.
Nei mesi scorsi, prima della diagnosi
infausta, avevamo parlato spesso della morte. Avevamo pensato anche ad
un progetto per uno spettacolo teatrale del quale lui sarebbe stato il
regista ed io il suo consulente-antropologo. Avevamo parlato di Ernesto
de Martino e del lamento funebre, della rivoluzione agricola del
Neolitico e della “paura del vuoto vegetale”, della nascita del
sentimento religioso e dei rituali della morte e della rinascita. Ne
avevamo parlato spesso con la serietà che merita il tema e con la
profonda leggerezza che Pino Turco adoperava per sottolineare le cose
importanti. E così, con profonda leggerezza avevamo parlato anche della
nostra personale natura mortale. Anche quando, qualche giorno fa, mi
convocò per condividere con me la consapevolezza della sua prossima
fine. Lucido ma non rassegnato. Tanto meno impaurito. Mi parve sereno.
Si stava congedando in pace dalla sua vita – lo intuivo mentre mi
parlava con faticosa lucidità. Dalla sua vita che si era incontrata,
negli anni precedenti, con altre morti. Morti dimenticate. Aveva
contribuito con il suo pensiero di uomo di cultura e di artista a
ricordare i morti della tragedia del treno 8017 di Balvano, i seicento
morti della Galleria delle Armi in provincia di Potenza. Pino aveva
lavorato, negli ultimi anni, per ricordare quelle seicento persone,
vittime del più grave incidente ferroviario italiano. Per ricordare la
relazione spesso dimenticata tra la vita e la morte, tra chi vive e chi
muore. Lo aveva fatto dapprima con i bambini della scuola elementare di
Campagna, il paese in provincia di Salerno in cui viveva, dove ci
eravamo incontrati per la prima volta. Io con l’incarico di antropologo
culturale, lui con quello di animatore teatrale e drammatizzatore. La
storia della mia ricerca sul treno 8017 colpì la fantasia dei bambini ed
il suo talento di artista. Fu allestita una recita nella quale la morte
per asfissia dei passeggeri intrappolati nelle carrozze, invase dal
monossido di carbonio, bloccate sotto la Galleria delle Armi, fu resa
drammaticamente visibile dalla poesia dei tanti lumini che si
spegnevano, ad uno ad uno, per mancanza d’aria, sotto i bicchieri di
vetro con i quali i bambini li ricoprivano. Magia della scena,
costruzione di un ricordo da condividere.
Poi, qualche tempo dopo, mi ritrovai
in sua compagnia, insieme ad alcuni “momentaneamente detenuti”
dell’Istituto a contenzione attenuata per il trattamento delle
tossicodipendenze (Icatt) di Eboli. Un carcere nel quale Pino si
occupava di “Arte per la salute” facendosi promotore, autore e regista
di un gruppo teatrale composto da detenuti per reati di droga. Un gruppo
del quale ero diventato consulente con il beneplacito della Direzione,
per ferma volontà di Pino Turco. L’argomento del laboratorio era quello
dei diseredati, di chi non aveva nulla, degli infimi, dei dimenticati.
Era ‘O cunto d’o quatto ’e coppe, il racconto di quella carta da gioco
del mazzo delle napoletane, il quattro di coppe, che non ha valore
alcuno; che non contribuisce al punteggio finale: non serve né per la
primiera né per le carte d’oro; una carta inutile per il risultato
finale senza la quale – ecco la verità – non è però possibile giocare. È
evidente che, con queste premesse, la storia drammatica del treno 8017
non poteva non suscitare interesse tra la gente dell’Icatt. Ognuno, a
suo modo, un “quattro di coppe” senza il quale non sarebbe stato
possibile andare avanti nel lavoro di presa di coscienza, di
auto-responsabilizzazione e di abitudine alla relazione ed al dialogo al
quale Pino voleva condurli. Il mio documentario di ricerca – basato sui
miei soggiorni etnografici “sul campo”, sulle memorie e sulle
testimonianze dell’incidente del treno debitamente registrati, sui saggi
storici di Mario Restaino e Gianluca Barneschi, sui romanzi di Gennaro
Francione e Alessandro Perissinoto, sulla ballata di Terry Allen, su
alcune sequenze del film Tutti a casa di Comencini, sulle pochissime
foto della tragedia pubblicate dall’Europeo – divenne argomento di
discussione quotidiana, di critica riflessiva, di occasione dialogica in
cui le nostre diversità si proiettavano nel tentativo di dare un senso a
ciò che un senso non lo poteva avere. “Seicento morti, nella mia testa
non riescono ad entrarci” recitava uno dei personaggi del dramma messo
in scena da Pino Turco e dai momentaneamente detenuti dell’Icatt. Quegli
uomini incarcerati che riuscivano a intravedere le somiglianze e le
differenze esistenti tra le loro vite e le vite perdute dei morti del
treno che viaggiava nella notte del 3 marzo del 1944. Turco ha diretto
una delle più intense performance teatrali e ha scritto una delle più
belle canzoni sul tema: ‘O treno contro ‘o bbando d’o rre. E i
momentaneamente detenuti dell’Icatt l’hanno eseguita magistralmente
durante la performance mentre le decine di lumini soffocati dai
bicchieri dei bambini erano diventati un’unica candela rappresentativa
delle vite dei seicento del treno 8017 che si spegnevano inesorabilmente
sotto un minaccioso vaso di trasparentissimo cristallo che l’andava a
ricoprire per rispondere alla domanda, al grido che si levava nel buio
nero del palcoscenico/Galleria delle Armi: “Ma comme so’ muorti?” “Accussì!”
Seicento vite diverse inesorabilmente legate tra loro e a quelle degli
attori e degli spettatori di una delle più emozionanti pagine di teatro
alla quale io abbia mai assistito.
La morte. E la vita. E come fare a
vivere quando si è morti materialmente ed anche socialmente. Ecco
l’impegno costante della riflessione di Pino Turco, dei suoi attori e di
tutti quegli studiosi e quegli artisti – seri, profondi, impegnati,
rigorosi, appassionati, metodici, in grado di coltivare il dubbio più
che le certezze – che l’autore teatrale e regista aveva voluto
conoscere, studiare, interpretare, mostrare alla sua troupe e convocare
sulla scena del suo lavoro teatrale. Ricordare trasformando la semplice
memoria fisiologica in qualcosa di ancora più profondamente umano: il
ricordo di ciò che è successo da consegnare agli altri, a quelli che
rimangono aldilà del nostro personale impegno.
È questo ciò che mi ha raccomandato
Pino Turco nel nostro ultimo incontro. Raccontare degli altri perché le
loro vita è indissolubilmente legata alla nostra. Perché la loro vita e
la loro morte costituiscano un ricordo comune che poi non è altro che il
legame tra il passato, il presente e il futuro. Ovvero il senso della
storia che si manifesta pienamente solo quando una rete di interesse, di
affetto, di dialogo, di reciprocità e di scambio lo sorregge.
Un abbraccio.
Vincenzo Esposito
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Carissimo Vincenzo
Una lettera bellissima, commovente, che attraverso Pino dà il
fondamento del messaggio offerto dai nostri morti del Treno 8017:
praticare una fratellanza per vivere di più nel rispetto reciproco
e operoso.
Un epitaffio per Pino, ma anche un richiamo a una moralità naturale
e alla gioia di ridestare quelle anime attraverso l’arte e la
cultura, esse stesse una forma di sopravvivenza alla morte e alla
vita stessa che ci rende spesso cinici, vanagloriosi ed egoisti.
Possa Pino incontrarsi con quelle anime in morte come s’incontrò in
vita.
Possa egli essere di esempio in questo mondo a chi voglia
ricordare quella tragedia, affinché lo faccia all’insegna di
un’etica e solidarietà umanistica perenni.
Ricambio l’abbraccio
Gennaro