Estasi nell’antimito drammaturgico di Koroibos
La profondità intellettuale e la forza pedagogica del teatro, inteso come
creazione e successiva rappresentazione, risulta spesso riservata alla
sensibilità intellettuale di pochi. Del pari, i Mysteria
narrati nell’antica Grecia, e rievocati nell’opera
rappresentata al Piccolo Teatro di Caserta il 25 febbraio c.a., sono
segreti la cui profondità e natura risulta inaccessibile alla maggioranza
degli uomini, e suggeriscono il richiamo all’esoterismo inteso quale
iniziazione a nuova vita interiore.
Apoxiomenos (L’atleta di
Lussino) di Gennaro Francione ci porta al mito narrato nei Misteri di
Eleusi, ad una vicenda metastorica avvenuta in un tempo fuori dal tempo.
Koroibos, l’atleta di Lussino, ritrova nuova vita con l’aiuto del
poeta Pittaco, suo amante e
maestro spirituale, depositario dei segreti connessi al mito di Demetra e
preparatore dell’ergon, sostanza magica e misteriosa che favorisce la
vittoria del campione nei giochi olimpici.
Il legame tra Koroibos e il
mito emerge dai numerosi richiami alla sua precedente vita spirituale, una
vita semplice, a stretto contatto con la natura incontaminata dell’isola
di Lussino, in cui il pubere viveva
in compagnia della madre Callipatera.
L’ambizione ed il desiderio di rivalsa sociale dell’atleta, unitamente
alla spinta emotiva del poeta suo amante, portano inevitabilmente Koroibos
alla dipendenza dall’ergon, la sostanza dopante assunta per vincere i
giochi, capovolgendo vieppiù completamente il senso del mito e della
iniziazione stessa.
Emerge con estrema chiarezza la volontà di autore e regista di creare un
profondo contrasto tra la classicità accademica del protagonista Koroibos
e l’alea squisitamente grottesca degli altri due personaggi in scena,
Pittaco il poeta e Callipatera, la madre dell’atleta.
La sofferenza e la follia borderline di Koroibos, reso elegantemente
dall’interprete Giuseppe Alagna, ci riportano nell’antica città di
Eleusi ed al risveglio dalla vita campestre diretto al totale godimento di
fama e successo di pubblico. Lo sguardo spento e agghiacciante
dell’atleta ne ripercorre le tappe del cammino interiore verso la gloria
data dalla vittoria nei giochi olimpici, ma svela altresì il dolore e il
delirio di onnipotenza che lo rendono un uomo misero, servo del pubblico,
soggiogato dall’influenza intimidatoria esercitata dall’amante Pittaco.
Questa figura, impersonata da Sandro Scarpelli, va a smussare l’aria
bucolica sprigionata da Koroibos mediante il ricorso all’ingegno scenico
della regia di Filippo Bubbico che conferisce notevole modernità al
personaggio: un essere lascivo, un satiro che rappresenta la fertilità e
la forza della natura connesse al culto Dionisiaco, che scende in scena
munito di occhiali da vista(rompendo così la Quinta Parete, il Tempo),
quasi a voler nascondere lo sguardo spento e indifferente verso la
sofferenza emotiva di Koroibos, la cui vita ha contribuito a distruggere.
Il distacco amorevole, l’aiuto demolitore, l’amore interessato sono
elementi caratterizzanti la figura del poeta che sottilmente si fa scherno
dell’amante Koroibos inculcando paradossalmente in lui la necessità e
l’urgenza della vittoria, l’agonismo come
rimedio contro la corruzione. Figura ironica, ma mostruosa per
l’assurda contraddizione che crea il suo essere
intellettivamente superiore, rispetto all’armonia tra anima,
corpo e mente che il mito stesso richiede, ma che egli contribuisce ad
annichilire.
Decisamente interessante il ruolo di
Callipatera, madre di Koroibos, donna fiera e coraggiosa, moderna nello slancio emotivo diretto a salvare il figlio
dalla smania di successo, e legata alla raffigurazione del teatro
tradizionale mediante l’utilizzazione di un interprete maschile. Simbolo
di razionalità e giustizia, Callipatera è impersonata alla maniera
antica eppur così attaule, dal maschio regista Bubbico. Questa figura
sanguigna fornisce il contrasto deliziosamente
caricaturale in cui l’amore materno lotta armato della lealtà e
della correttezza etica e sociale per salvare l’anima del figlio dalla
devastazione cui va incontro, a costo di annientarne il corpo.
La salute del corpo e dell’anima, strettamente connesse, nella mentalità
degli antichi, al tutto unitario degli elementi costitutivi dell’essere
umano, è il tema principale dell’opera, classicheggiante
nei toni espressi nel testo, strepitosamente adattata al mondo di
oggi ed
ai limiti dell’egoismo terreno nella sua rappresentazione scenica.
I Misteri greci nei loro voli purificatori verso l’aldilà contrastano,
in chiave squisitamente grottesca, con la visione dell’Uomo odierno,
incessantemente proteso verso l’accumulo di denaro e ricchezza ed alla
soddisfazione di bisogni artificiali.
La dimensione della morte e la sua rimozione ingannano Koroibos circa il
significato della vita e la sua prosecuzione, opponendosi alla
realizzazione dei suoi sogni e guidandone la volontà verso falsi
obiettivi. Intesa la dannosità fisica e interiore della strada imboccata,
Koroibos si appella all’amante Pittaco affinché, perduto il corpo,
almeno l’anima sia redenta.
La potenza pedagogica del teatro assume in quest’opera solidità
e vitalità trasmettendo il senso distruttivo connesso all’assunzione di
sostanze stupefacenti ed illustrandone numerose sfaccettature,
dall’annientamento della persona fisica alla dissacrazione degli affetti
e dei sogni, dal soggiogamento dei sensi alla spersonalizzazione totale,
dall’angoscia mentale al vizio dell’anima.
L’opera suggerisce la redenzione, intesa quale liberazione,
come massima aspirazione per chi è intrappolato nell’illusorio
piacere della droga e del successo esteriore, rievocando la consapevolezza
della nostra impermanenza nel mondo attraverso il richiamo ai Misteri di
Eleusi ed alla creatività quale mezzo per fondare un mondo più limpido e
intellettivamente degno.
La
Dama Rossa
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