UN GIUDICE ARTISTA CONTRO IL COPYRIGHT
INTERVISTA A GENNARO FRANCIONE di Maria "DaMe`"
Molinari
Il 9 aprile, nella chiesa di San Severo al Pendino a
Napoli, è stato presentato, nell’ambito di “Sintesi” (il Festival
delle Arti Elettroniche), “Creative Commons Italia Show Case". Tra
gli invitati c’era il giudice drammaturgo Gennaro Francione, fondatore
del “Movimento Utopista Antiarte”,
contrario al copyright ma anche abbastanza critico nei confronti delle
Creative Commons. Un uomo gentilissimo e disponibilissimo al confronto che
in passato ha fatto molto parlare di sè per una sentenza anti-copyright e
che di recente ha pubblicato “Hacker. I Robin Hood
del Cyberspazio”, un libro che sta riscuotendo un certo successo
negli ambienti hacktivisti. Un giudice anti-artista, anti-copyright e
pro-hacker non poteva non attrarre la nostra attenzione. Gli abbiamo
scritto, ponendogli un’infinità di domande sull’antiarte, la sentenza
anti-copyright e gli hacker.
A Napoli hai parlato a lungo
di anti-copyright e molto velocemente del movimento Antiarte di cui sei
fondatore. Si è percepito, ma non capito del tutto, secondo me, che le
due cose sono strettamente correlate. Ora che il tempo non è troppo
tiranno, mi spiegheresti meglio che c’entra l’antiarte con la tua
posizione anti-copyright?
Un decennio fa fondai il Movimento
Antiarte (www.antiarte.it)
nel cui manifesto (www.antiarte.it/newpage3.htm),
al punto 7, affermavo che l'Autore, in quanto portavoce di cronache
artistiche narrategli dal Mondo, aveva non più la proprietà dell'opera,
ma il mero possesso (detentio) delle forme artistiche da lui create, delle
quali, invece, era proprietaria l'Umanità. Detentio, termine latino, nel
linguaggio giuridico significa che la proprietà della cosa è di Tizio,
ma la cosa stessa è goduta da Caio, il quale ovviamente ha un diritto
meno forte di Tizio anche se, in qualche modo, gode di una cosa non sua.
Questo principio fu ripreso dalla DUDDA (DICHIARAZIONE
UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL'ARTE - www.antiarte.it/dudda1.htm
da me ideata e firmata, l'11 novembre 2002, al Museo del Cinema di Roma da
una serie di artisti, intellettuali, giuristi etc. nell'ambito di un
sit-in per salvare quel museo dall'azione di aggressivi gruppi
commerciali. All'art. 6 la DUDDA recita:
"All'autore dell'opera è riconosciuto il diritto morale d'autore e
il mero possesso a nome altrui (detentio) delle forme artistiche, con un
ridotto diritto di sfruttamento commerciale, senza che chicchessia possa
vantare alcuna proprietà assoluta sul prodotto artistico". Oggi, a
fronte della cyberagonia del diritto d'autore, più che mai viene in luce
quel progetto antiartistico di riduzione della proprietà intellettuale a
mera detentio in nome dell'Umanità, con mantenimento limitato del diritto
morale d'autore ma suo drastico ridimensionamento a livello di
sfruttamento commerciale.
Da quali considerazioni nasce
il progetto Antiarte e cosa propone come alternativa per tutelare le
opere?
Le origine storiche del diritto d'autore permettono di
identificare sociologicamente lo sfruttamento degli artisti i quali, col
pretesto di tutelarli, vengono controllati, censurati, sfruttati,
dominati, dimenticati. Il concetto integrale di proprietà artistica si
originò con la censura e nacque propriamente nel Seicento, in
Inghilterra, attraverso la London Company of Stationers (Corporazione dei
Librai di Londra). La funzione censoria fu presto surclassata dallo
sfruttamento commerciale dell'opera artistica, così che la testimonianza
storica globale è chiara: il copyright fu progettato dagli editori e dai
distributori per sovvenzionare se stessi, non i creativi. E' la struttura
di schiacciamento ancora vigente, a Piramide. In testa vi sono le lobby
sfruttatrici degli autori, le quali consentono solo a pochi di affermarsi.
Il sistema si giustifica asserendo che quelli venuti alla luce sono gli
artisti più bravi ma non è così. Ce ne sono sicuramente di più bravi,
solo che vengono tarpate loro le ali. Le star che vediamo ogni giorno sui
giornali, nelle televisioni, a cinema etc. sono gli artisti più fortunati
venuti alla ribalta perché scelti dalla dea bendata (leggasi culo) o per
l'aggancio sociale giusto o la tessera politica azzeccata.
Questa situazione è ben descritta nella Home page di ANTIARTE
che si assume, per ribaltare il sistema, il compito gandhiano di
rivoluzionare tutti gli artisti rimasti giù nella trincea, per gettarli
in massa contro la piramide e farla crollare. Grazie anche alla
comunicazione internettiana, il nostro progetto è di creare una Sfera in
cui tutti gli artisti, senza distinzione di forti e deboli, godano della
pubblicazione, comunicazione e diffusione delle loro opere, diventando i
gestori della res politica (meglio antipolitica) in fatto di arte. Per
fare questo è ancora necessario prima di tutto liberarsi, in paradosso,
della forza economica delle proprie opere. Eliminato, riducendolo pressoché
al grado zero, il valore economico dell'opera dell'artista, si assesta il
primo colpo mortale al sistema copyright che proprio su quel valore si
fonda per affermare e consolidare il logos del dominio.
Nella logica copyright, se non paghi non ottieni il prodotto. E se lo
copi, sei un criminale. Questo è possibile perché è l'autore stesso a
consentire un valore commerciale alla sua opera. Nella nuova logica
anticopyright, non c'è nulla da pagare. Ergo criminale è chi fa pagare
molto, tradendo l'economia umanistica del prodotto culturale-artistico
pressoché al costo zero. In questa nuova prospettazione hanno da perdere
- forse - gli artisti affermati e quelli che fanno dell'arte il proprio
lavoro, ma noi chiediamo loro di sacrificarsi per la causa comune. Il
nuovo vangelo è che, se essi sfondano o lucrano con l'arte, lo fanno a
scapito della massa degli artisti che, con la rivoluzione da noi
predicata, non hanno nulla da perdere ma tutto da guadagnare. Essi, gli
artisti-massa - attualmente sono non esistenti, massmedialmente e
commercialmente. Per non annullarsi completamente si devono trasformare in
antiartisti, mettersi in trincea e combattere partendo dal depotenziamento
del loro stesso inutile copyright.
Tutto questo come lo
concretizzate voi di Antiarte?
Nel preambolo della DUDDA
si afferma che "il primato dell'arte e della cultura sull'economia
rende la tutela del diritto all'arte e al sapere dell'uomo prioritaria di
fronte ad ogni altro interesse materiale ed economico". Nella Nuova
Economia, dove il Sapere prevale sul momento economico come diritto
primario e ineliminabile dell'Umanità, distinguiamo l'arte come contenuto
dall'arte come confezione. Il contenuto d'arte e cultura dev'essere
diffuso liberamente e gratuitamente. Si paga l'eventuale confezionamento
ma sempre a prezzo bassissimo affinché l'arte sia realmente alla portata
di tutti e soprattutto dei giovani (art. 5 DUDDA).
A Napoli mi è parso di capire
che sei anche abbastanza critico nei confronti delle Creative Commons…
Meglio le creative commons che il copyright. Per questo
le seguo con interesse, ma non credo che possano da sole risolvere il
problema perché esse, pur operando in una funzione di sgretolamento del
copyright, non azzardano il passo estremo: distruggere il copyright. Le
creative commons, tutto sommato, presuppongono la proprietà intellettuale
e con tutte le loro ramificazioni cavillose non affrontano il cuore della
faccenda. Io, da uomo di legge, diffido dei rizomi normativi, spesso
creati ad arte per fregare la gente. In Italia ci sono 300.000 leggi e
vedete come (non) funzioniamo. Le alchimie codicillari delle creative
commons sono sicuramente in buona fede ma non risolvono il problema a
monte: quello dello sfruttamento degli artisti. Là dove le creative
commons riperpetuano il sistema di avvocati, giudici, sceriffi per
tutelare i diritti degli autori che comunque pretendono garanzie, sia pur
nelle forme attenuate, con le creative commons non si fa che perpetuare il
logos del dominio. Ecco, nel laboratorio dell'arte, l'alchimia creative
commons tra la dozzina di ampolle luccicanti crea fumi che abbagliano
l'artista, il quale pensa di aver trovato la pietra filosofale in ognuno
di quei vetri. Ciò non è, per cui, sicuramente in buona fede, le
creative commons creano un nuovo inganno. Ripetendo una metafora che ho
fatto a Napoli il 9 aprile, se il copyright è la destra del diritto
d'autore, le creative commons rappresentano il centro moderatamente
riformista.
Molti autori temono che la
propria opera possa essere alterata, stavolta, deturpata. Mi pare che
questa non sia affatto una tua preoccupazione. Insomma, qual è la tua
posizione da artista nei confronti del plagio, ad esempio?
Il plagio è un'azione inverosimile. La cosa che più
teme un autore è che altri si appropri della sua opera integralmente. Al
riguardo la migliore difesa è divulgarla. Internet è un ottimo sistema.
Messa fuori l'arte è difficile che taluno s'impossessi della totalità
dell'opera. Quanto alle modifiche esse, buone o cattive che siano, saranno
opera del rimodellatore, ma come possono intaccare l'originario artista
produttore? E' un fatto psicologico: l'artista si deve abituare a essere
manipolato, rimodellato, riassemblato perché egli, consciamente o
inconsciamente, ha fatto lo stesso con materiali offertigli dall'Uomo in
Grande o da altro artista specifico. Una buona pratica al riguardo sarebbe
scrivere per il teatro, dove l'artista deve accettare il gioco di altro
artista, il regista, che in nuce ed eticamente è chiamato ad adattare il
testo originario alla sua Weltanschauung, al suo stile, al suo ritmo, al
suo gusto estetico etc. Concludendo, mi chiedo quale gusto abbia un vero
artista a plagiarne un altro.
Sei l’autore di una sentenza
anti-copyright che ti ha creato non pochi problemi e di cui si è molto
discusso fuori e dentro la rete. Ci racconteresti un po’ come sono
andate le cose?
Il 15 febbraio 2001, in veste di giudice del Tribunale
Penale di Roma, assolsi quattro extracomunitari rei di avere violato il
copyright vendendo per strada compact disk contraffatti, motivando
l'assoluzione non soltanto per essere gli imputati in stato
di necessità, cioè senza mezzi di sussistenza, ma anche per
l'inattualità del copyright che ormai sarebbe stato abolito dalla
consuetudine di vendere e acquistare per strada compact disk, oltre che di
scaricare musica da Internet (erano i tempi di Napster). La sentenza, dopo
qualche giorno, creò un'interrogazione parlamentare ad opera del senatore
di Alleanza Nazionale Ettore Bucciero, il quale chiedeva un'azione
disciplinare contro di me non solo per la decisione in sé, ma
indirettamente per la mia attività di artista e di uomo che fa libera
cultura in rete. Il vecchio governo non dava adito all'azione che veniva
ripresa sotto il nuovo governo da Castelli, il quale chiedeva affermarsi
l'abnormità dell'atto. S'imbatteva, invece, nel muro del CSM che mi
proscioglieva riaffermando la piena libertà e indipendenza dei
giudici, sottoposti per Costituzione solo alla legge e non ai
ministri. Le sentenze possono essere riformate solo dai giudici
dell'appello non dai governi, i quali non amino i contenuti politici
sottesi a certe decisioni.
Nella sostanza si trattava di un verdetto che aveva messo fuori quattro
poveri diavoli, i quali per campare erano costretti a compiere un'attività
ai limiti del lecito, compiuta da chi non aveva altri mezzi di sussistenza
alimentare, condizione che, nel vistoso fenomeno dell'immigrazione,
è fatto notorio. Mi richiamavo allo stato di
necessità (art. 54 c.p.p) che è legge, alla pari delle norme
create per reprimere penalmente le violazioni del diritto d'autore. Più
in generale la sentenza avanzava l'ipotesi che la Legge del
copyright sui compact disk era ed è inattuale e addirittura
incostituzionale, richiamandosi ad esempio "il principio dell'arte e
la scienza libere (art. 33 della Cost.) e, quindi, usufruibili da tutti,
cosa non assicurata dalle attuali oligarchie produttive d'arte che
impongono prezzi alti, contrari a un'economia umanistica, con
economia anzi diseducativa per i giovani spesso privi del denaro
necessario per acquistare i loro prodotti preferiti e spinti, quindi, a
ricorrere in rete e fuori a forme diffuse di "pirateria"
riequilibratrice".
Insomma la sentenza, pur criticata dai rappresentanti delle classe
economiche dominanti in quanto scardinava il sistema di dominio fondato
sul copyright, da più parti nella rete e fuori fu accolta con
grande entusiasmo. L'acclamazione venne da chi veramente conta, il popolo
in nome del quale viene esercitata la giustizia. Recentemente anche altri
miei colleghi, soprattutto giovani, forse perché più sensibili al
cyberspazio e ai suoi problemi, si stanno muovendo con assoluzioni per stato
di necessità.
Ad un certo punto, in rete,
hai scoperto gli hacker e la loro cultura. Precisamente quando è
accaduto? E chi ne è rimasto più colpito il giudice o l'artista? E perché?
Tutti e due per versanti diversi, anche se il giudice
meno di quanto ci si possa aspettare. Mi spiego meglio.
Il pericolo del giudice è di diventare un burocrate. Pericolo tanto più
forte in quanto si rivolga al passato, a ciò che decisero per quel caso
un tempo altri giudici, soprattutto anziani. Per i giovani magistrati,
alle prese con le nuove tecnologie internettiane ma soprattutto
maggiormente a contatto col mondo come è, maggiore è la speranza che
diventino dei Robin Hood, rivolti irrefragabilmente al futuro. Ho usato
appositamente per questi ultimi lo stesso appellativo usato per gli hacker,
proprio a dire che, quando gli hacker portano avanti la filosofia del
futuro per una democratizzazione reale del mondo essi svolgono lo stesso
ruolo dei giudici avanguardisti, i quali non si limitano ad applicare la
legge ma a interpretarla evolutivamente.
Fanno bene, fanno male questi magistrati della res publica futura? Per me
fanno bene perché il mondo si muove e la legge nel momento in cui nasce,
per così dire, è cosa morta. Anche Gesù Cristo aveva detto che la legge
doveva essere abbattuta se non più rispondente all'Uomo. Sì, questo
perché la legge è fatta per l'Uomo e non l'Uomo per la legge. Quindi, la
prima chiave per fare giustizia è tenere sempre presente l'Uomo come è e
come si trasforma. Il passato è cosa morta.
Ora il mondo è quello che è, internet e diffusione di massa di sapere,
cultura, arte.
La scoperta degli hacker è successiva alla mia sentenza anticopyright, i
cui principi sotterranei trovavano fondamento in background nel manifesto
dell'ANTIARTE risalente ai primi anni '90.
Ergo l'artista Francione ha influenzato il giudice Francione. Entrambi nel
fenomeno hacker trovavano solo esplicitati dei principi di innovazione già
precedentemente espressi.
Di recente hai pubblicato un
libro sugli hacker dal titolo Hackers. I Robin Hood del Cyberspazio che va
ad aggiungersi ad altri libri dedicati allo stesso argomento scritti da
italiani. Mi vengono in mente Spaghetti Hacker di Stefano Chiccarelli e
Andrea Monti, Italian Crackdown di Carlo Gubitosa dell'Associazione
PeaceLink, Hackers. I ribelli digitali di Paolo Mastrolilli e Haktivism.
Libertà nelle maglie della rete di Tommaso Tozzi e Arturo di Corinto.
Cosa ne pensi di questi libri e perché hai sentito il bisogno di
scriverne un altro? In cosa differisce - se differisce - la tua opera e la
tua visione del fenomeno hacker da quella degli altri autori?
Nella condivisione del sapere non potevo non attingere
da quei testi che tu hai citato, tutti davvero ben scritti ed esaustivi
della materia. Sono debitore a quei testi di materiali di fondo per così
dire ma anche dell'humus ideativo nell'ambito del quale ho enucleato i
diritti telematici: il diritto alla cooperazione, il diritto all'accesso,
il diritto all'espressione, il diritto all'informazione, il diritto alla
libertà di copia, il diritto alla privacy e all'anonimato. Ecco questa è
la parte creativa del mio libro sugli hacker, diversificante rispetto agli
altri testi: il giudice-artista è intervenuto per individuare una serie
di diritti e istanze che portati avanti dalle avanguardie hacker, sono poi
l'espressione delle esigenze della rete e che fonderanno le Costituzioni
mondiali dell'immediato futuro, quando ad esempio la cybertecnologia
espansa al massimo grado porterà al tracollo del copyright.
A proposito della sentenza
anti-copyright hai parlato di “pirateria riequilibratrice” e nel tuo
libro sugli hacker di "legittima difesa economica". A noi sembra
che i due concetti si equivalgono. Potresti spiegarceli meglio?
L'economia umana deve sempre essere a misura d'uomo.
Quando travalica diventa disumana e, allora, l'individuo pone in essere
condotte per difendersi e sopravvivere. La legittima
difesa è anch'essa codificata dal nostro ordinamento giuridico
(art. 52 cod. pen.), come diritto naturale di difendersi e contrattaccare,
quando un diritto proprio o altrui si trovi sottoposto al pericolo attuale
di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.
Per lo più la legittima difesa viene intesa
in senso fisico. Tu mi stai per dare un pugno e io reagisco parando e
rompendoti il naso. Sono scriminato perché ho reagito adeguatamente a un
tuo attacco ingiusto. Ma vi sono anche diritti immateriali che possono
essere attaccati, come il diritto che io ritengo primario all'arte e alla
cultura, che servono all'elevazione spirituale della società e, quindi,
vanno garantiti al massimo grado, dovendo essere venduti i beni relativi a
bassissimo prezzo se non dati gratuitamente al popolo.
Cito la sentenza anticopyright: "L'azione degli oligopoli produttivi
appare in contrasto con l'art. 41 della Cost. secondo cui l'iniziativa
economica privata libera "non può svolgersi in contrasto con
l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà,
alla dignità umana". Solo un'arte a portata di tasca di tutti i
cittadini e soprattutto dei giovani può essere a livello produttivo
umanitaria e sociale come richiesto dalla Costituzione, per far sì che
davvero tutti possano godere dei prodotti artistici".
Insomma un cd non può costare 50 euro. Un autentico uppercut a un giovane
che non sente certo solo la musica di quel cd ma vuole ascoltare quintali
di musica al giorno. Chi lo vende a quel prezzo deve aspettarsi azioni di "legittima"
difesa di chi ha una sola paghetta di 50 euro forse per una
settimana. E insisto sul "legittima".
Parli anche di “uno spirito
cyberfrancescano dell'agire comune” all'insegna del quale sarebbe nata
la rete. Che intendi dire?
Il francescanesimo è una delle forme più umili del
monachesimo. S. Francesco, ammalatosi, fece voto di povertà dedicandosi
completamente all'amore per gli umili e per gl'infermi, rinunciando alle
ricchezze paterne, raccogliendo attorno a sé i fraticelli per portare
insieme nel mondo la loro azione di aiuto ai diseredati. Sono azioni che
allegoricamente si adattano agli hacker, i quali si dedicano ai cyberumili,
hanno in spregio le ricchezze che si possono ottenere con i loro
sofisticati software, e soprattutto creano comunità di cybernauti nelle
quali praticano una via santa: la condivisione del sentire e del sapere.
Se gli hacker sono dei cyberfrancescani, ex converso possiamo dire che san
Francesco era un Robin Hood nostrano precybernetico.
Per la prima volta ho letto il
termine “ulespazio” che, da quel che so, hai coniato tu stesso e ho
interpretato – correggimi se sbaglio – come lo “spazio fuori dalla
rete”. Ma cos’è effettivamente questo “ulespazio”, in che
relazione è con il cyberspazio e che c’entrano gli hacker?
L'ulespazio, dal greco ulè,
cioè materia, è effettivamente lo spazio fuori dalla rete. Quando
scrivevo di cyberspazio notavo che mancava un termine corrispondente e
correlato per il mondo esterno al web. Mi sono ricordato degli ilozoisti,
filosofi greci che credevano nella materia animata, e ho coniato il nuovo
termine sull'ulè, un genus cui ricorro spesso quando parlo di
cyberfilosofia.
L'ulespazio si pone con il cyberspazio in
perenne tensione dialettica, per dirla con Hegel. Il primo ostacola il
secondo intervenendo con leggi, istituzioni, polizie, echelon etc. a
frenare la libertà della rete. Questa, per affermarsi, ha bisogno di
campioni, tipo hacker, i quali da un lato difendono l'anarchia gioiosa,
goliardica e creativa del web, dall'altra gettano i semi di azioni a
favore dell'Uomo da sviluppare non solo nella rete ma anche nel mondo
esterno. Ecco, quindi, che l'ulespazio si
pone come terreno di conquista pacifica e invasione da parte del
cyberspazio.
Come in guerra il generale deve avere una chiara visione dei territori da
difendere e da occupare così deve fare il Cybernauta Umano, distinguendo
l'ulespazio e il cyberspazio. Tutto sempre
con metodi pacifici.
La rete ha contenuti per certi versi apocalittici che quando verranno
fuori rovesceranno il mondo. In un'intervista a Luther Blisset affermavo:
"Noi dell'ANTIARTE abbiamo gettato
omeomericamente il seme. Aspettiamo solo che il messaggio dilaghi. Dopo ci
sarà l'invasione nel mondo esterno. In Internet l'idea muoverà la
storia". Il pensiero corre ad Hegel. Ed è inevitabile. "Ciò
che è reale è webcyberazionale. Ciò che è webcyberazionale è
reale".
In appendice, tra i vari
manifesti storici degli hackers, appare per la prima volta in assoluto
quello della DUDDA. Lo ritieni, quindi, un manifesto hacker?
Quando elaborai la DUDDA
non conoscevo la filosofia hacker. Tanto meglio. Avendola scoperta e
trovando straordinarie similitudini, mi convincevo vieppiù della mia idea
base dell'ANTIARTE: e cioè che non c'è più
proprietà intellettuale di un'idea, di un'opera ma al più detentio
ovvero possesso in nome dell'Umanità. L'uomo in grande crea serbatoi di
idee, progetti, opere cui gli autori e filosofi del tempo attingono a
piene mani per cui attribuire in maniera radicale la paternità di una
creazione a chicchessia è impresa ardua. Questa considerazioni creano
ulteriore cemento alla costruzione dell'edificio anticopyright. Le idee,
le opere, le musiche etc. davvero galleggiano nell'aria e chi le acchiappa
per primo è solo il più fortunato, ma non ha nessun potere esclusivo su
quelle monadi.
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