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Abolizione del carcere
(Reindirizzamento da abolizione del carcere)
Lo scopo del movimento per l’abolizione del carcere è di eliminare tutte
le istituzioni liberticide come le prigioni, i centri di ritenzione
amministrativa o anche i campi di prigionieri di guerra, proponendo
alternative più efficaci e soprattutto più rispettose della dignità
individuale. Gli abolizionisti sono molto critici nei confronti della
giustizia, soprattutto quella occidentale, poiché la ritengono razzista,
discriminatoria e totalmente inefficace, sia per il reintegro nella
società dei “criminali” e sia per la prevenzione del crimine. Molti di
coloro che appartengono al movimento abolizionista sono attivi anche
nelle lotte contro le altre forme di controllo sociale e di oppressione,
come la psichiatria o la liberazione animale. Per questo motivo, buona
parte degli abolizionisti sono attivisti anche del movimento anarchico.
Indice
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1 Storia
2 Gli anarchici e l’abolizione del carcere
3 Metodi
4 Argomenti contro l’abolizione del carcere
5 Argomenti per l’abolizione della carcere
6 Bibliografia
7 Voci correlate
8 Collegamenti esterni
[modifica] Storia
Isola di Alcatraz e relativa prigione (in disuso)
L’azione di diverse organizzazioni o comunità sono all’origine del
movimento abolizionista attuale. Tra queste si possono citare:
I quaccheri (Società degli Amici di Gesù). Essi furono uno dei primi
movimenti a proporre delle alternative al carcere in nome
dell’egualitarismo, che è alla base della loro credenza religiosa .
Fondata all’inizio del XX secolo a Londra, la Croce Nera Anarchica è una
delle principali associazioni sostenenti l’abolizione del carcere.
Chiamata inizialmente Croce Rossa Anarchica, l’associazione di sostegno
politico ai prigionieri, anarchici e non, ha cambiato successivamente il
suo nome dopo gli eventi della rivoluzione russa del 1917, per evitare
confusioni con la Croce Rossa Internazionale, e d’altra parte per non
utilizzare il colore rosso come simbolo, poiché notoriamente associato
ai bolscevichi, i quali furono responsabili di diverse incarcerazioni o
esecuzioni arbitrarie di anarchici.
Raze The Walls!, situato a Seattle, Washington, ha continuato la sua
attività per circa dieci anni, prima che le lotte intestine e le
differenze politiche con gli altri movimenti anarchici ne favorisse lo
scioglimento. Durante la sua esistenza, Raze The Walls! ha inviato
libri, fanzine e giornali ai prigionieri, nonché ha sostenuto
finanziariamente i loro familiari. Molti dei loro mezzi d’azione e delle
loro idee sono ancora oggi ritenute valide.
[modifica] Gli anarchici e l’abolizione del carcere
Simbolo della Croce Nera Anarchica
Storicamente, fino ad oggi, gli anarchici hanno sempre avuto un ruolo
significativo all’interno del movimento abolizionista. La principale
ragione di questo loro attivismo è la volontà di sopprimere tutte le
forme di controllo, di cui il carcere è un esempio classico (controllo
dello Stato), inoltre il carcere è intimamente legato al capitalismo,
soprattutto da quando si è sviluppata l’idea della sua privatizzazione.
L'anarchismo è contro la “galera” perché molti prigionieri non hanno
commesso crimini violenti, ma molto spesso sono persone povere e\o
emarginate e perché le carceri non permettono che molto raramente la
reintegrazione dei detenuti, quanto piuttosto tendono a far aumentare il
numero e la gravità dei crimini commessi dai prigionieri ritornati in
libertà. Al posto delle carceri, molti anarchici propongono dei
tribunali, consigli o assemblee, posti sotto il controllo della
comunità, con lo scopo di dare soluzioni ai problemi della criminalità.
Essi sostengono ugualmente che con la distruzione del capitalismo e
l’instaurazione di una società anarchica una buona parte degli atti
delinquenziali sparirebbero poiché in genere dipendenti dalla cattiva
organizzazione sociale, ovvero dalla proprietà privata e dall’autorità.
[modifica] Metodi
Talvolta le metodologie abolizioniste sono volte anche all’ottenimento
di conquiste parziali (miglioramento condizioni di vita dei carcerati,
migliori cure mediche ecc.), tuttavia i metodi utilizzati dagli
attivisti differiscono a causa delle variegate posizioni interne al
movimento.
Riforme del sistema penale
Riforme delle condizioni di vita delle prigioni
Prevenzione piuttosto che punizione
Tentare di evitare i programmi governativi che fomentano l’incremento
della popolazione carceraria
L'educazione
Far conoscere la natura del problema alle persone che non hanno
conosciuto il carcere
[modifica] Argomenti contro l’abolizione del carcere
Le carceri sono necessarie per la preservazione dell’ “ordine e della
sicurezza” della società.
Le carceri danno una punizione appropriata ai crimini compiuti.
[modifica] Argomenti per l’abolizione della carcere
Michel Foucault (1955), filosofo francese, ha descritto l'origine e
l'evoluzione del sistema carcerario
Negli USA, il terzo emendamento della costituzione non ha abolito ancora
la schiavitù, ma l’ha limitata ad alcuni casi in cui si fornisce «una
punizione per un crimine». In certi paesi quindi la prigione non è altro
che una moderna schiavitù istituzionale.
Lo Stato può utilizzare le carceri per liberarsi degli « emarginati » e
degli « indesiderabili » (nemici politici).
L'accusato può difendersi meglio se appartiene ad una classe
privilegiata.
La legge è basata sul vantaggio di una classe sociale sulle altre. Per
esempio nella maggior parte dei paesi il tabacco è legale, mentre la
marijuana non lo è solo perché grosse società, private e nazionali, sono
in grado di controllare economicamente solo il tabacco.
La polizia e le carceri allontanano e separano le persone dalle loro
comunità.
Il sistema giudiziario occidentale molte volte punisce in misura
maggiore le persone di colore, gli immigrati, i poveri e gli emarginati.
Ci sono stati, e ci sono, esempi di comunità, alcune delle quali
anarchiche, senza alcun tipo di carcere.
Nulla prova che il sistema carcerario renda la gente meno violenta, al
contrario pare che accentui la carica aggressiva.
Il carcere incrementa molti comportamenti malsani dei prigionieri
piuttosto che aiutarli a combatterli. La giustizia è in fondo una sorta
di vendetta legalizzata che non ha molte differenze con la vendetta
gratuita, contro la quale le persone favorevoli al carcere molto spesso
si battono veementemente.
[modifica] Bibliografia
Giovanni Forbicini, Abolite le carceri, Roma 1905.
Michel Foucault, Nascita della clinica (1963), Einaudi, Torino 1969.
Michel Foucault, Sorvegliare e punire (1975), Einaudi, Torino 1976.
Gennaro Francione, Utopia del sistema penale entropico, Herald editore,
Roma 2008
[modifica] Voci correlate
Croce Nera Anarchica
L'anarchismo e il crimine
[modifica] Collegamenti esterni
Biblioteca abolizionista
Ristretti
Informacarcere
http://ita.anarchopedia.org/abolizione_del_carcere
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Nell'aprile del 1995, al termine del suo mandato come consigliere
regionale, Giorgio Inzani organizzò a Milano un
convegno dal titolo "Abolire il carcere, un'utopia concreta", con la
partecipazione di detenuti, professionisti del settore penale e
studiosi della materia. Scopo del convegno era, nelle parole dello
stesso Inzani, dare una prospettiva veramente giuridica di
ripristino dello stato di diritto, che è molto lontano dalla
situazione carceraria odierna, ma anche mettere in discussione
l'organizzazione culturale e sociale alla base del sistema penale.
Due anni dopo, nel 1997, l'allora
Associazione per
l'Iniziativa Radicale e Democratica "Enzo Tortora" - Milano, che
già aveva contribuito all'organizzazione dell'evento, diede alle
stampe gli atti di quel convegno, in una edizione oggi quasi
introvabile. A distanza rispettivamente di quindici anni dal
convegno e di tredici anni dalla pubblicazione degli atti, l' Associazione
Radicali Senza Fissa Dimora ha perciò deciso di digitalizzare
questo importante documento per renderlo nuovamente accessibile a
chiunque sia interessato ai problemi del carcere e, più in generale,
della giustizia penale.
Grazie al lavoro dei militanti Diego Mazzola e
Marco del Ciello, il testo integrale è ora
disponibile in formato .pdf, e liberamente scaricabile, a questo
link:
Abolire il carcere, un'utopia concreta.
www.radicalisenzafissadimora.org
http://www.radicalisenzafissadimora.org/2010/12/on-line-gli-atti-del-convegno-abolire.html
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Movimento abolizionista (Francia)
L'ABOLIZIONE DEL CARCERE SIGNIFICA L'ABOLIZIONE DELLA GIUSTIZIA, DEL
DIRITTO E DI OGNI SOCIETA'?
Documento presentato al CONGRESSO ABOLIZIONISTA di Amsterdam, giugno
1985
CONTRO LE CARCERI
Oggi si dice chiaro e tondo che le segrete sono delle segrete,
le gabbie delle gabbie e che nulla si può fare per quelli che vi sono
rinchiusi, poiché l'essenziale non è di far loro del bene quanto
piuttosto di bandire dal proprio territorio i delinquenti. Li si
sopprime, puramente e semplicemente. Ecco perché le pene brevi sembrano
inadeguate, del tutto prive di senso.
All'inverso, le pene lunghe corrispondono perfettamente alla
volontà collettiva omicidiaria. Se la pena di morte è scomparsa in
alcuni paesi, ciò è stato perché era troppo eccezionale. Non era la
morte a sembrare indecente, ma tutte le smancerie che vi si facevano
attorno. A tal punto che coloro che, pubblicamente, si dicono e vengono
detti rivoluzionari si propongono sempre serenamente la morte per i
nemici della loro libertà; dal generale dell'esercito al terrorista,
passando per il rapinatore e il poliziotto, tutti sono d'accordo sul
vecchio adagio per cui non si possono fare delle frittate senza rompere
le uova.
La morte di quelli che ti impediscono di vivere non ha mai
spaventato nessuno, a patto che non si faccia d'ogni erba un fascio (se
gli abitanti di Filadelfia, nel maggio del 1985, hanno espresso la loro
scontentezza, non è stato perché la polizia aveva buttato una bomba
incendiaria sulla casa di persone che gli stessi vicini avevano
denunciato come sporche e sporcaccione, bensì perché in una simile
operazione aveva distrutto una parte del quartiere).
Così la prigione è la morte ideale poiché elimina in massa coloro
che la società potrebbe eliminare solo in minima parte con la morte
fisica. Si risparmiano emozioni.
Solo che c'è un enorme problema, di importanza capitale, che rende
inadeguato alla nostra società moderna questo sistema di eliminazione.
Il fatto è che, tranne coloro che si suicidano (che dunque si fanno
"giustizia" da soli), gli altri, nella maggioranza dei paesi, un giorno
o l'altro escono.
Non è questo il luogo adatto per analizzare come si sia giunti ad
una tale aberrazione, ma sta di fatto che il carcere fallisce per un
pelo nella sua vocazione: la morte che dispensa non dura che alcuni anni
o alcuni decenni. L'imprigionamento di rado giunge sino al punto finale
della sua logica, se non altro perché la società deve pur riconoscere
una scala di pene che corrisponda alla sua scala di valori. Il crimine
possiede effettivamente un valore monetario: tradire la moglie non è
punibile per legge mentre ingannare il socio è materia da tribunale, la
"legittima difesa" funziona quando si tratta del poliziotto che agisce
contro il ladro ma non certo all'inverso, ammazzare per rubare è più
grave che ammazzare per rabbia, quando si rubano venti milioni si è
condannati più pesantemente di quando se ne ruba uno. Questi sono alcuni
esempi del valore mercantile attribuito dai giudici al delitto.
Dunque i detenuti escono. La carcerazione li avrà, per lo meno,
"innervositi". Nessuna persona sensata può sopportare l'idea di vivere
con gente che è stata deliberatamente resa angosciata, violenta,
rabbiosa. Sicché la prigione non solo non protegge la "gente perbene"
dai malviventi, ma riversa quotidianamente nella società non incarcerata
dei delinquenti etichettati come tali e provocati come tali. E'
assolutamente falso che il carcere rassicuri chicchessia. Il benessere
che la sua esistenza talvolta procura allo spirito di alcuni non
corrisponde affatto ad un desiderio di sicurezza, bensì di vendetta.
Quello che vogliono costoro non è il carcere, ma una punizione ed è per
questo che non si oppongono affatto all'abolizione delle carceri, a
patto però che esse vengano sostituite con qualcosa di "meglio".
L'opinione pubblica non esiste, non è che il rivestimento dei
gruppi di pressione di cui i media si pongono come eco. Ora, a poco a
poco, l'idea di taluni amministratori viene ripresa dai suddetti media,
e cioè che il carcere non serve a niente e soprattutto che pecca di
arcaismo: non è redditizio.
Quando, nel maggio 1985, scoppiarono le rivolte nelle carceri
francesi, i giornali considerati più reazionari si ponevano lo stesso
quesito che è l'oggetto del presente congresso e il "Parisien Libére",
per esempio, titolava in prima pagina a caratteri cubitali: <<E' vero
che la prigione non serve a niente, ma con cosa sostituirla?>>.
Pertanto l'abolizione delle carceri va nel senso della storia. Di
per certo nell'ultimo decennio gli interrogativi sulla fondatezza del
carcere si sono largamente diffusi sia tra gli "specialisti"
(criminologi, sociologi, educatori, psicologi) sia tra i loro portavoce
abituali (giornalisti e politici).
Bisogna essere coscienti del fatto che questo Congresso è moderno.
Sembra che ci si stia avviando verso una soluzione di questo tipo: si
sopprimerà il carcere nell'80% dei casi per i quali si cercheranno delle
forme differenti. Per il restante 20% di individui considerati
pericolosi, si rafforzerà l'aspetto eliminatorio sia inventando pene di
morte "non traumatiche" (l'iniezione), sia rinchiudendo davvero a vita
alcuni delinquenti, sia considerandoli come dei malati mentali che si
può, o meno, "rendere" alla società guariti, calmati. L'accordo che si
sta formando sulla necessità di iniziare l'abolizione del carcere a
partire da chi è condannato a pene brevi tiene poco conto dell'immediato
corollario di una tale affermazione, e cioè che gli altri, quelli
etichettati come "pericolosi", saranno ben rinchiusi, si tratti di un
20% o un 30% o un 3%: queste cifre saranno l'oggetto dei
mercanteggiamenti che si possono immaginare. Costoro, capri espiatori,
simboli, sarebbero le vittime di una sinistra messinscena, ancora più
odiosa di quella odierna. Non ci si può ripromettere di "liberare i
piccoli delinquenti" senza voler anche dire che non bisogna liberare i
delinquenti considerati seri.
Quando si parla di ridurre il tempo di carcerazione, si vuole
ancora una volta "addolcire la punizione", rendere la pena più
"sopportabile". Ma ci si dovrebbe interrogate sull'assurdità
rappresentata dal voler ridurre la sofferenza inflitta giustamente dalla
Giustizia.
I riformisti, che siano mossi da un semplice calcolo di redditività
o da ragioni cosiddette umanitarie, hanno in comune il fatto di essere
moderni. Il riformismo è quello che permette al carcere di persistere.
Rendere il carcere più vivibile oggi, significa renderlo più adeguato.
Non più adeguato alle persone, si badi bene, ma più adeguato ad
un'epoca. La modernizzazione della punizione si può realizzare solo
perché delle anime caritatevoli e degli spiriti illuminati si prendono
la briga di riflettere su un modo moderno di punire.
Da cui discende l'idea che bisogna trovare una soluzione
alternativa all'incarceramento.
CONTRO IL GIUDIZIO
Altri faranno, per lo meno lo speriamo, la critica del sistema
delle multe o del lavoro forzato "liberamente accettato". In quanto a
noi, ci limitiamo a notare che si tratta di punizioni vecchie come il
mondo e che il loro unico aspetto moderno è quello che gli viene dato
dal loro cinismo.
Ci sembrano più interessanti le soluzioni sostitutive non della
punizione ma del giudizio.
Si è detto dei "patteggiamenti" tra vittime ed autori di atti
delittuosi che essi stanno al carcere come la diplomazia sta alla
guerra. Come abolizionisti, siamo sensibili a questa volontà - se si
vuole sopprimere il carcere - di evitare qualsiasi apparato giudiziario
e qualsiasi sanzione. Riconosciamo anche l'interesse di cercare la
conciliazione sia dal punto di vista della vittima che da quello
dell'autore dell'infrazione. Tuttavia non siamo sicuri che il
delinquente così come la vittima avranno voglia di un accomodamento
amichevole. Certo, il non delinquente, a priori, non attende di lasciar
passare più di un giorno in questo giudizio di "conciliazione" per
realizzare l'accomodamento che gli consente di ammettere le regole
sociali. Ma il delinquente, quello che non accetta il gioco, avrà la
volontà di patteggiare, collaborare o fraternizzare con il nemico (non
parliamo qui, evidentemente, della vittima, bensì di tutto l'apparato
sociale di appoggio alla vittima)?
Ci poniamo dunque la questione di questo sistema, della
sistematizzazione della suddetta conciliazione. Chi sarebbero i
conciliatori? Dei professionisti della riconciliazione? Degli psicologi?
Dei volontari? Che interessi difendono?
Noi rifiutiamo ogni ingabbiamento. La vita iperpoliziesca che ci
viene proposta, nella quale alcune persone si arrogherebbero il diritto
di capire ciò che ci ha fatto agire, somiglia troppo all'ingabbiamento
del controllo sociale come già esiste in alcuni paesi mostruosamente
sviluppati. Gli operatori sociali, psicologi, medici, che considerano
loro dovere rammendare i buchi del tessuto comunitario, non lo fanno con
lo scopo di preservare la loro propria felicità, bensì la sopravvivenza
dei sistemi di cui non vogliono essere altro che gli addetti alla
manutenzione.
All'opposto, noi possiamo benissimo ammettere e sperare che ognuno
possa contare su persone che si associno a lui per aiutarlo a risolvere
una situazione conflittuale con l'unica condizione che questo aiuto sia
puntuale, singolare, individualizzato ed è per questo che diffidiamo
delle istanze di conciliazione che non sarebbero altre che una nuova
istituzionalizzazione dei rapporti. Giacché soffriamo tutti, sopra ogni
cosa, di non poter creare delle relazioni che non vengano immediatamente
ridotte ad ingranaggi sociali.
I conflitti non sono paventati da coloro che li vivono ma da quelle
istanze cosiddette "oggettive" che, in realtà, fanno di noi tutti degli
oggetti. Non dobbiamo scaricare sulla società le nostre indignazioni e i
nostri giudizi. E' indubbio che degli atti o dei comportamenti ci
commuovono e ci scandalizzano, ma non ci sentiamo "ripagati delle nostre
pene" mettendo in moto una macchina che non si interessa di ciò che vi è
di particolare nel mio giudizio, come di ciò che vi è di particolare nel
giudizio del suo atto da parte di chi l'ha compiuto. La giustizia si fa
a nome nostro, cioè al nostro posto. Ma se qualcuno può prendere il mio
posto, io non esisto più. Mai si potrà evocare il problema della
Giustizia senza guardare in faccia l'unicità di ciascun essere:
assassino, vittima, giudice, nessuno può mettersi al posto dell'altro.
La domanda "cosa fare dei criminali?" è esattamente quel tipo di
domanda che trasforma i "criminali" in esseri astratti. Astratti dal
loro essere, i supposti criminali non sono che un piccolissimo elemento
di se stessi, non sono degli individui, vale a dire "gli esseri che non
possono venir divisi senza venir distrutti".
Questo problema, che sembra appassionare tanto la gente, deve
dunque essere ripensato radicalmente. Non si tratta di sapere ciò che
un'entità sociale astratta può fare di un'altra entità sociale astratta,
ma si tratta di vedere ciò che ciascuno (io, voi) deve fare nei
confronti di qualcuno che lo attacca (me, voi). La sola buona domanda da
porsi è di chiedersi, e sapere, come io possa non essere criminale e
neppure vittima. Di sicuro, il più grave pericolo che ci minaccia è la
perdita totale della nostra singolarità. Noi, abolizionisti, vogliamo
ripetere che siamo contro la carcerazione, contro ogni sistema penale
perché lì vi si annida un inganno mostruoso: in nome di tutti e di
ciascuno, veniamo giudicati innocenti o colpevoli, i nostri atti sono
digeriti nel sociale e tutto ciò che siamo viene considerato solo dopo
questa digestione, laddove non siamo più noi stessi ma un elemento
indefinito di un unico tutto, il "corpo sociale", e ciascuno viene
rispedito nel suo posto, quello assegnatogli, di membro funzionale:
assassino, giornalista, donna, bandito, bambino ecc.
<<Che fare dei criminali?>> è una domanda criminale, una domanda
che perpetua la trappola in cui non vogliamo cadere, la trappola che
consiste nel negare l'individuo secolo dopo secolo.
Se si scoprisse qui, in questo momento, un terrorista che ha appena
posato una bomba in una sala, potremmo, ognuno, porci la domanda: <<Che
faremo, lui e io?>>, ma già apparirebbe scioccante la domanda: <<Che
faremo l'uno dell'altro?>>.
Come agire, quindi, quando vi è un'urgenza, per sfuggire alla
morte? Quella morte a cui mi avrebbe destinato chi ha messo la bomba, ma
anche quella a cui mi condanna ogni visione delle cose che fa di me una
particella intercambiabile che mi uccide in quanto individuo?
Noi non diciamo che questa società è fatta male e che dopo la
rivoluzione le cose andranno meglio. I rivoluzionari che si interrogano
su come affrontare il problema della delinquenza nella società futura
continuano così a porre come un dato irrefutabile la necessità di un
sistema di regolazione dei rapporti che permetta alla loro macchina
sociale di girare. Questo sistema giudiziario esiste già oggi e mettere
dei giudici rossi, verdi o neri al posto di quelli bianchi non può
interessare gli abolizionisti.
L'idea secondo la quale, all'interno di un'economia intelligente, i
progressi tecnici potrebbero determinare una soddisfazione tale che
nessuno più avrebbe voglia di opporsi ad una simile età dell'oro,
ebbene, questa idea non ha più corso. D'altra parte, si sa che gli
anarchici non possono più preconizzare, senza un'assurda ipocrisia,
l'ostracismo, l'allontanamento, perché nessuna società può concepire di
conservare in sé degli asociali senza volerli socializzare, in una
maniera o in un'altra.
Alla domanda: <<Che fare di coloro che la società non potrà
recuperare e che considera quindi come l'ultimo grado della feccia?>>
pensiamo che non ci sia che una soluzione: smettere di voler
socializzare. Con che sostituire la tortura? Con che il carcere? Con che
il giudizio? Con niente.
Queste tre domande restano intercambiabili perché tutte
presuppongono che si debba spezzare ciò che non si piega. Noi ci
rifiutiamo in modo assoluto di chiederci: <<Come spezzare?>>. Il
rovesciamento che facciamo nostro sta nel chiederci: <<Come non
piegare?>>. In questo senso la delinquenza ci riguarda. Ci interessa per
quello che esprime di irrecuperabile, non nelle sue forme segnate quasi
sempre dall'impronta dei rapporti sociali normali più spaventosi
(sessismo, violenza, valorizzazione del capo, del denaro ecc.).
Noi abolizionisti abbiamo ben altre ambizioni che non la
conservazione dei sistemi sociali quali che siano. Non ci auguriamo
l'isolamento, va da sé, altrimenti cosa ci staremmo a fare qui? Vogliamo
riflettere in parecchi sui modi di vivere in molti al di fuori dei
sistemi preesistenti. E' la comunità che secerne l'isolamento. In ogni
idea di comunità - dobbiamo ripeterlo - si dà che ciascuno non è che
l'infima parte di un solo essere completo che è la comunità: l'uomo
dunque vive sempre nella mancanza degli altri e non liberamente, nella
sua unicità, nel desiderio degli altri. Noi pensiamo che ogni individuo
costituisca un tutto. Il suo desiderio di incontrare degli altri "tutto"
esprime solo la sua libertà e non una specie di determinismo gregario.
Il movimento abolizionista non è un movimento militante, non
abbiamo nessuna causa da difendere, quella dei detenuti piuttosto che
un'altra. Non lottiamo per loro e neppure con loro, ma per noi stessi.
Non siamo degli umanisti né gente di sinistra, non desideriamo darci da
fare per una prigione più umana. Il carcere è affare nostro (e ancora!
Solo per una parte) quando siamo in galera. Alcuni di noi,
abolizionisti, oggi sono detenuti ma ciascuno, laddove si trova, lotta
contro il suo imprigionamento e contro una organizzazione sociale che
logicamente non può condurre che alla punizione, all'eliminazione. Da
ciò ne discende che non siamo del "ripetitori esterni" che, per esempio,
si mettono al servizio dei detenuti per far circolare l'informazione.
Attualmente, detenuti o no, non vogliamo altro che la nostra libertà
individuale. Se fossi al posto dei detenuti, forse mi batterei per un
miglioramento delle condizioni di vita in galera, ma sono fuori ed è da
fuori che parlo. (Quando parlo di noi, so che in questo noi si
riconoscono solo i detenuti e i non-detenuti abolizionisti, cioè un
piccolissimo numero di persone).
Non sopportiamo di essere rinchiusi né in prigione né altrove. Non
sopportiamo che ci si privi della libertà. Il carcere, per noi che siamo
fuori, non è una qualsivoglia minaccia: ci fa male non soltanto perché è
il simbolo di tutti i nostri ingabbiamenti, ma perché è il risultato
reale di un'insopportabile logica di normalizzazione.
Gli individui vengono giudicati non conformi (colpevoli) o conformi
(innocenti), ma in ogni modo giudicati. Noi diciamo che se accettiamo di
passare sotto lo statimetro, che ci misuri ben bene, ci spossessiamo del
nostro giudizio, del nostro pensiero, del nostro essere. La tragica
divisione tra innocenti e colpevoli, conformi al sistema o disconformi,
distrugge ciascuno di noi. Tutto ciò che rafforza questa spezzatura ci è
antagonista ed è per questo che non ci sentiremmo coinvolti da lotte
riformiste che mirassero a creare delle galere meno penose. Per noi,
abolizionisti in carcere e fuori, è proprio l'idea di carcere e di
giudizio che ci impedisce di respirare. Sappiamo che ci sono dei
prigionieri che cercano di regolare la società in maniera tale che le
sue sanzioni siano "accettabili": costoro sono nostri nemici come tutti
coloro che vogliono costringerci a forza ad una vita che non possiamo
fare nostra.
Il carcere è un punto d'attacco ideale contro il nostro stesso
ingabbiamento individuale. Ci riconosciamo nel rifiuto dei detenuti
quando si ribellano proprio contro l'ingabbiamento. Giacché, fuori,
sappiamo di essere incarcerati tra mura di costrizione. Ma non possiamo
assumere ogni rivolta che tenda a ricondurre nel carcere i rapporti
sociali che ancora vi mancherebbero, perché, contrariamente ad un'idea
assai diffusa, il carcere socializza i detenuti per quanto può (rispetto
delle gerarchie, tipo di divertimenti autorizzati, ricatto del lavoro,
privazione e privatizzazione dei rapporti interindividuali ecc.).
Il carcere non è affatto una malattia della nostra società, non ha
nulla di mostruoso; è il punto massimo della società, di ogni società,
di ogni organizzazione comunitaria dei rapporti sociali.
I mass media, la polizia, la giustizia, ma anche l'educazione, la
morale, la cultura, tutto mira a mantenere a forza la coesione
dell'insieme. La sanzione penale è necessaria all'ordine, l'ordine alla
società. Non si potrà mai concepire una società senza ordine e l'ordine
senza sanzione penale. Abbiamo interiorizzato tanto tutto ciò,
rafforzando le sbarre e le ghigliottine del nostro cervello, fino a
diventarne dementi d'angoscia, così che lo Stato esercita la sua tutela
su di noi del tutto "naturalmente" dato che, in realtà, siamo
"irresponsabili". Ma lo Stato non è che una macchina al servizio di
qualcosa di più terrificante: dietro lo Stato c'è una volontà, una
volontà umana. Li sta l'Uomo con le sue leggi. Abbasso l'Uomo.
Noi siamo uomini che si levano contro l'Uomo. Questo animale vive
in società. Ne siamo felici?
CONTRO IL DIRITTO
Noi vogliamo l'abolizione della Giustizia. Questo significa
quindi l'abolizione del Diritto in ogni società? Perché sicuramente le
leggi sono indispensabili alla vita in società. Nessuno ne può dubitare,
neppure noi.
Il diritto garantisce i diritti di ciascuno. Vieta o autorizza, ma
in ogni modo viene imposto dall'esterno. Parlare di un Diritto interno
non avrebbe alcun senso.
I membri di una società, qualunque essa sia, borghese, socialista,
comunista, anarchica o altro, hanno degli interessi comuni da difendere,
devono tendere ad una risposta comune a tutto ciò che può minacciarla,
debbono considerare insieme il problema dei nemici esterni e della
guerra o dei nemici interni e della delinquenza. Da un punto di vista
societario o comunitario la logica esige una difesa organizzata, un
giudizio condiviso generalmente, una sanzione. Alcuni reputano che la
Giustizia non sarà una buona Giustizia fintanto che resterà separata dal
popolo, vogliono una Giustizia che sia l'emanazione della comunità. Dal
canto nostro, noi riteniamo che il nostro giudizio non possa che
rimanere individuale; quand'anche il giudizio di diversi individui su un
particolare avvenimento fosse unanime, non sarebbe comunitario e non
potrebbe essere generalizzato. Per contro, un giudizio che si impone
come quello dell'insieme della comunità ha come sua particolarità di non
appartenere più a nessuno.
Con il dire "abbiamo tutti i diritti", gli abolizionisti aboliscono
il Diritto, dato che ciascuno è l'unico riferimento per se stesso. Se ci
sono degli atti che non facciamo, è perché non vogliamo farli. Tutto
qui. Vietare lo stupro non offre alcun interesse per nessuno. In cambio,
ognuno troverà senza dubbio interessante riflettere intorno ai mezzi per
non essere né violentatore né violentato. Riconoscere che chiunque ha il
diritto di violentarmi o di farmi a pezzi esprime la mia coscienza di
non poter essere in alcun modo protetto dal Diritto. E' altrettanto
aberrante dire <<se fosse permesso uccidere, tutti ucciderebbero>>
quanto dire <<dato che l'omicidio è proibito, non sarò ucciso>>. Ci
sentiamo sicuri con coloro di cui abbiamo fiducia e nessuna legge al
mondo può cambiare questo dato di fatto. Non possiamo provare interesse
gli uni per gli altri se non abbiamo un minimo di discernimento. Abbiamo
bisogno di ripensare le cose a partire da noi stessi.
La definizione della legge è: <<regola imperativa imposta all'uomo
dall'esterno>>. E proprio perché ci è esterna che rifiutiamo qualsiasi
legge, compresa ovviamente la legge del più forte: ci opponiamo alla
forza in quanto questa forza ci vuole sottomettere. E' dunque inutile
ritornare sul fatto che la delinquenza in quanto tale non è portatrice
di nessuna delle nostre speranze: concorrenza, maschilismo, racket sono
leggi che combattiamo, mentre la società le considera come sue proprie,
condannando soltanto il criminale, come lo ha mostrato assai bene
Thierry Levy nel suo libro Le Crime en toute humanité, proprio
perché non è all'altezza del crimine di cui essa si nutre. E' vero che
per la sua sopravvivenza la società deve integrare ogni velleità
individuale di passare attraverso le sue maglie: definire la
delinquenza, rinchiudere i delinquenti, far credere attraverso i media
che ciò che è pericoloso per la società è pericoloso per ciascuno di
noi; tutto ciò consente ai sistemi che conosciamo di stravolgere ai suoi
fini ciò che molto spesso all'inizio non è che disgusto, rabbia o
stanchezza. Chiude le brecce di fronte ad ogni comportamento che le si
oppone e che può pertanto apparire deviante o rivoluzionario. Così, la
sua vittoria le ridà un nuovo dinamismo e le permette di allargare
ulteriormente il suo raggio di azione. Il nostro ottimismo consiste
nell'affermare che viene recuperato ciò che è recuperabile.
L'irrecuperabile è possibile.
Infatti gli individui non possono identificarsi totalmente con la
società, sanno che è fuori dal sociale che realizzano il meglio di se
stessi - con l'amicizia, l'amore, l'arte, il pensiero geniale ecc. - ed
ogni individuo realizza ciò che fa di lui un essere unico.
La società cerca dunque di socializzare il crimine attraverso il
processo e, in seguito, il criminale con il carcere. Accaparra gli atti
di ciascuno, dato che esiste effettivamente una rivalità tra
proprietari: io e la comunità, alla quale tragicamente si dice che
"appartengo".
Appena compiuti, i nostri atti ci sfuggono: se sono giudicati
asociali vengono puniti e questo indipendentemente - è ovvio - dall'idea
che ci si potrebbe fare del bene e del male; vengono rinchiusi i folli,
gli obiettori, i cosiddetti criminali. L'ingabbiamento in galera, in
campi di concentramento, negli ospedali non è che il risultato finale di
questo ingabbiamento fuori dal sé di cui soffriamo tutti.
Noi, abolizionisti, vogliamo che gli individui in questione si
riapproprino dei loro propri atti, che siano o meno chiamati crimini. In
sé, il crimine non esiste. Se esistono, come esistono, delle circostanze
dolorose, degli atti orribili che ci vengono inflitti non chiediamo di
meglio che di cercare di evitarli riflettendo da soli o con alcuni altri
sui mezzi per preservarci da ogni aggressione alla nostra integrità
mentale o fisica. Constatiamo che il progresso è una nozione
assolutamente vuota di senso e pensiamo dunque che ci si debba liberare
da un modo di pensare che ci ha condotto soltanto a dei vicoli ciechi.
Non è il Diritto, ma la libertà che può consentire agli individui di
vivere in armonia, stabilendo rapporti a partire da se stessi e non dai
rapporti sociali a cui si è oggi obbligati.
Siamo spossessati di tutto e resi stranieri alla nostra stessa
vita. Non lo sopportiamo. La parola "rivoluzione" è stata confiscata dai
politici e dunque ce la risparmieremo, il che non ci dispiace, ma
speriamo che le nostre idee vengano prese per quello che sono: un
cambiamento concreto.
Così, quando affermiamo di non riconoscere a nessuno il potere di
giudicarci o di giudicare i nostri atti, aboliamo realmente questo
troppo famoso consenso sociale che è fondato soltanto sulla dimissione
di sé rispetto alla comunità. Gli uomini non hanno mai rotto con l'idea
secondo cui dovevano rinunciare alla loro singolarità a vantaggio della
specie umana.
Al contrario, non solo vogliamo considerarci come degli esseri
particolari, ma desideriamo considerare ogni essere che si voglia tale.
In quanto abolizionisti, facciamo in modo che i criminali e gli altri si
riapproprino dei loro atti dato che vogliamo vivere in mezzo a gente che
pensa alla sua vita e non la delega alle istanze sociali. L'idea di
società non è così inevitabile. Il movimento abolizionista ne è un
segnale, tra gli altri.
Movimento abolizionista (Francia)
TITOLO ORIGINALE:
Mouvement Abolitionniste - France
L'abolition de la prison signifie-t-elle l'abolition de la justice,
du droit et de toute société?
Traduzione di Isabella De Caria e Riccardo d'Este
Documento presentato al CONGRESSO ABOLIZIONISTA di Amsterdam, giugno
1985
Lo scritto è pubblicato in:
Abolire il carcere, ovvero come sprigionarsi
Nautilus
Torino
1990
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Catherine Baker
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Aboliamo le prigioni?
Contro il carcere, la discriminazione,
la violenza del capitale
Angela Davis è il punto di riferimento per ogni donna o nero o
detenuto che urli la sua rabbia
Dario Olivero - la Repubblica
Angela Davis, la mitica militante degli anni Settanta, è oggi
un’intellettuale di fama internazionale che ha focalizzato il suo
impegno politico in una delle battaglie per i diritti civili più
difficili: abolire il carcere. Un mondo senza prigioni è forse
impensabile, anche per chi proclama il suo progressismo. Ma con lucidità
scientifica, un’enorme mole di materiale documentario e un instancabile
passione ideale, la Davis analizza il sistema «carcerario-industriale»
americano – quello per cui due milioni e mezzo di persone sono detenute
negli Stati Uniti – e mostra come questa democrazia modello regga le sue
basi economiche su una forma di schiavismo morbido: donne abusate e
farmacologizzate, manodopera a costo zero per le grandi corporation,
neri e ispanici a cui vengono negate istruzione e assistenza sanitaria
di base. Aboliamo le prigioni? è una piccola guida di
resistenza, che a partire dalla battaglia contro il carcere tuona la sua
voce contro tutte le forme di oppressione. E alla fine ci chiama
direttamente in causa, per farci diventare consapevoli di come le nostre
idee cambieranno veramente soltanto quando saranno cambiati i nostri
comportamenti.
http://insorgenze.files.wordpress.com/2009/03/copertina_davisprigioni.jpg?w=600
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