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Sentenza 188/1980
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente AMADEI - Redattore
Udienza Pubblica del 10/12/1980 Decisione del 16/12/1980
Deposito del 22/12/1980 Pubblicazione in G. U. n. 0
Norme impugnate:
Massime: 11597 11598
Atti decisi:
N. 188
SENTENZA 16 DICEMBRE 1980
Deposito in cancelleria: 22 dicembre 1980.
Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 357 del 31 dicembre 1980.
Pres. AMADEI - Rel. MALAGUGINI
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Avv. LEONETTO AMADEI, Presidente - Dott. GIULIO
GIONFRIDA - Prof. EDOARDO VOLTERRA - Dott. MICHELE ROSSANO - Prof.
ANTONINO DE STEFANO - Prof. LEOPOLDO ELIA - Avv. ORONZO REALE - Dott.
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - Avv. ALBERTO MALAGUGINI - Prof. LIVIO
PALADIN - Dott. ARNALDO MACCARONE - Prof. ANTONIO LA PERGOLA - Prof.
VIRGILIO ANDRIOLI - Prof. GIUSEPPE FERRARI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 125 e 128
codice procedura penale promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 30 novembre 1978 dal pretore di Torino nel
procedimento penale a carico di Lintrami Analdo ed altri, iscritta al n.
251 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 154 del 6 giugno 1979;
2) ordinanza emessa il 14 marzo 1979 dal Giudice Istruttore del
Tribunale di Monza nel procedimento penale a carico di Melotti Lucio ed
altri, iscritta al n. 430 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 210 del 1 agosto 1979;
3) ordinanza emessa il 10 aprile 1979 dalla Corte di Assise di Cuneo nel
procedimento penale a carico di Bartoli Francesco ed altri, iscritta al
n. 447 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 217 dell'8 agosto 1979;
4) ordinanza emessa il 5 aprile 1979 dal Tribunale di Torino nel
procedimento penale a carico di Panizzari Giorgio ed altro, iscritta al
n. 454 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 210 del 1 agosto 1979.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 10 dicembre 1980 il Giudice relatore
Alberto Malagugini;
udito l'avvocato dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto:
1. - In un procedimento penale davanti al pretore di Torino, alla
udienza dibattimentale del 30 novembre 1978 l'imputato Lintrami Analdo
ha dichiarato: "Non intendo difendermi in quanto non ho nulla da cui
difendermi e perché non riconosco la giustizia italiana e il magistrato
quale persona che possa accusarmi e processarmi. Revoco qualsiasi nomina
di fiducia abbia potuto fare in precedenza - e invito l'avvocato che mi
verrà designato d'ufficio a non difendermi, in quanto non intendo essere
difeso".
Il pretore, richiamando una precedente ordinanza pronunciata il 23
novembre in altro procedimento penale, ha nuovamente sollevato questione
di legittimità costituzionale degli artt. 125 e 128 cod. proc. pen., in
relazione agli artt. 2 e 24 Cost., in quanto impongono il difensore
tecnico anche all'imputato che ne rifiuti l'assistenza. Ha osservato che
la prospettata questione parrebbe "importare un contrasto con il
concetto tradizionale di contraddittorio", ma ciò "sarebbe più apparente
che reale, in quanto anche la rinuncia alla difesa tecnica, effettuata a
seguito della rituale contestazione dell'accusa, appare una modalità di
esercizio del diritto di difesa, la qualcosa integra pienamente il
contraddittorio".
2. - Nel procedimento avanti la Corte costituzionale è intervenuta in
giudizio l'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione
così sollevata sia dichiarata infondata.
Il problema dell'autodifesa esclusiva dell'imputato, oggetto di ampi
dibattiti in dottrina, è stato discusso anche in sede di attuazione
della legge delega per il nuovo codice di procedura penale. In mancanza
di indicazioni del legislatore delegante per eventuali modifiche della
disciplina attuale, la soluzione è stata demandata agli organi
politicamente responsabili. Il che avrebbe valore sistematico, in quanto
presuppone la ritenuta non incostituzionalità della disciplina vigente.
Per l'Avvocatura dello Stato, il Costituente, nel garantire
l'inviolabilità del diritto di difesa si è dato carico della esigenza di
assicurare a tutti il diritto di difendersi nei modi ritenuti più
validi: è perciò che ha fatto ricorso alla difesa tecnica.
Non ha inteso, invece, darsi carico della non difesa come forma di una
valida difesa. Se anche si ritenga che si possa porre in essere una
propria difesa contestando il sistema attraverso la non difesa, nulla
vieta che tanto sia chiaramente conclamato, ma non impedendo, peraltro,
che altre esigenze della collettività, così come è giuridicamente
organizzata, siano, attraverso la difesa tecnica attiva, parimenti
soddisfatte.
3. - In un procedimento penale pendente davanti al Giudice istruttore
presso il Tribunale di Monza, l'imputato Melotti Umberto, in sede di
interrogatorio in data 14 marzo 1979, assente il difensore di fiducia,
ha dichiarato: "Revoco il difensore di fiducia già da me nominato.
Rifiuto il difensore d'ufficio che la S.V. vuole nominare. Voglio
autodifendermi".
A seguito di tale dichiarazione, il giudice istruttore ha sospeso
l'interrogatorio e il procedimento, sollevando questione di legittimità
costituzionale dell'art. 128 cod. proc. pen., in relazione agli artt. 2,
3, 10, 11, 21, 24 Cost.
Il giudice a quo prende le mosse dalla Convenzione Europea dei diritti
dell'uomo, approvata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955,
n. 848. L'art. 6 n. 3 lettera c) della Convenzione in esame detta in
modo testuale che l'imputato ha diritto "A se defendre lui- meme ou
avoir l'assistance d'un defenseur de son choix". Ad avviso del giudice a
quo si tratta "di previsione alternativa e disgiuntiva della difesa
personale e della difesa tecnica: l'imputato ha il diritto di scegliere
tra la piena autodifesa e la nomina di un difensore.
Trattasi indubbiamente di norma programmatica, ma non nel senso che si
garantirebbe una "regola minima" per un giusto processo, con conseguente
legittimità di sistemi garantistici come quello italiano che prevede
congiuntamente la difesa personale e la difesa tecnica.
La possibilità di scelta tra autodifesa e difesa tecnica è la "meta
finale" cui tutti gli ordinamenti che hanno recepito la Convenzione
devono tendere. Il "programma normativo internazionale", così disposto,
pertanto, attende l'adeguamento degli ordinamenti giuridici propulsori.
Non si può ritenere in definitiva che si tratti di "regola minima", ma
piuttosto di "regola massima" cui tendere nel pieno rispetto di una
visione libertaria ed egualitaria dell'uomo che è reputato "pienamente
capace di difendersi da solo".
Ad un esame di diritto comparato, il diritto di autodifendersi, risulta
ampiamente diffuso negli ordinamenti giuridici penali dei paesi
dell'Europa occidentale, firmatari della convenzione, sia pure con
margini più o meno ampi. (v. sistema inglese-tedesco-francese-svizzero).
Assolutamente insussistente risulta in Italia, ove si escludano ipotesi
marginali praticamente nulle (v. art. 125 c.p.p., che prevede il caso di
contravvenzioni punibili con ammenda di L.3.000 e con arresto non
superiore ad un mese, anche se comminati congiuntamente). Si nota, al
contrario del principio espresso nella Convenzione, una tendenza del
nostro legislatore ad accrescere i casi di nomina obbligatoria del
difensore.
Nella nostra prospettiva, riteniamo che il programma normativo
internazionale espresso dalla Convenzione debba necessariamente influire
sull'interpretazione delle norme della Costituzione, ai sensi degli
artt. 10 e 11 della stessa, con conseguente affermazione del diritto di
autodifesa nel nostro ordinamento giuridico.
L'art. 24 della Costituzione secondo comma nella sua formulazione
"neutra" si presta ad una interpretazione nel senso su indicato. In
verità, in detto articolo, si consacra "diritto inviolabile" il diritto
alla difesa ma non certo un diritto ad un difensore, né potrebbe essere
diversamente ove si interreli tale articolo con quell'"art. 3" della
Costituzione che predica l'uguaglianza di tutti i cittadini innanzi alla
legge senza distinzione alcuna relativamente alla cultura dei singoli.
L'interpretazione dell'art. 24 della Costituzione da noi data, trova
conforto anche ad una accurata lettura dei lavori preparatori, dove
l'attenzione risulta piuttosto rivolta all'affermazione del principio di
"difesa in sé" che non alla risoluzione dello specifico problema
dell'"indisponibilità" della difesa tecnica. La presunzione "iuris et de
iure" d'incapacità processuale alla difesa dell'imputato, operata dal
legislatore ordinario, è peraltro in netto contrasto con l'art. 2 della
Costituzione, cui, nel riconoscimento dei diritti inviolabili dell'uomo
"viene attribuita la funzione di tutela di tutti quei valori di libertà
che vanno emergendo al livello della costituzione materiale" (Barbera),
tra cui è da ricomprendere il diritto di autodifendersi come espressione
del diritto di libertà".
Ulteriore supporto alla tesi dell'incostituzionalità dell'obbligo di
difesa tecnica, è ravvisato nell'art. 3 Cost. che garantirebbe "la
piena, egualitaria e libertaria capacità culturale di ciascuno
all'autodifesa innanzi ai magistrati". Il diritto di autodifesa, infine,
sarebbe espresso dall'art. 21 Cost., includendosi nella generale libertà
di manifestazione del pensiero quella "di esprimere le idee necessarie a
respingere in maniera personale l'attacco portato alla propria libertà".
Nel campo della prassi giudiziaria, osserva il giudice a quo, "la
autodifesa già esiste, anche se mascherata. Nella ipotesi di nomina del
difensore d'ufficio, in molti casi assistiamo ad una "farsa
processuale": l'imputato rimane materialmente senza difensore. Nella
fase istruttoria che qui particolarmente interessa, il difensore
d'ufficio, in molti casi si disinteressa del processo; nella fase
dibattimentale, non conoscendo gli atti, e, quel che è peggio, non
avendo avuto contatti "vivi" con l'imputato, è in grado solo di
formulare generiche e timide richieste o rimettersi più semplicemente e
coerentemente, alla giustizia.
È lasciato allora alla sensibilità del giudice garantire l'imputato e
aiutarlo dal punto di vista formale".
Dai modi d'esercizio, spesso stereotipati, della difesa tecnica, con i
loro effetti "desensibilizzanti", finirebbe per essere appiattito il
"rapporto umano" fra magistrato e imputato. Da ciò "la necessità di
scoprire forme processuali che ridiano vitalità al processo. Affermare
l'autodifesa significa concedere la possibilità ad un libero cittadino
di scegliere il tipo di rapporto col giudice, che preferisce: formale
(con difensore) o sostanziale (personale).
Il problema della "menomazione" dell'imputato che si autodifende
pertanto non sussiste. Compito del giudice, infatti, in questo come in
altri casi, sarà quello di costituzionalizzare le norme attraverso un
impegno esistenziale e quotidiano, volto ad assicurare che i cittadini
siano nel "concreto" liberi ed uguali davanti alla legge. Né questo
impegno costituzionalizzante può essere normativizzato, essendo rimesso,
quindi, alla coscienza più intima del giudice il compito di riempire "i
vuoti costituzionali" che si verificano nel caso concreto.
Il giudice si impone così come "mediatore esistenziale" tra la
costituzione, la legge ordinaria e il caso specifico al suo esame" "In
tale quadro l'autodifesa si pone come ritorno a forme processuali
"fluide", sempre che lo voglia l'imputato, con l'instaurazione di una
reciproca "fides", l'autodifesa è fiducia nell'uomo e nel giudice con
superamento della visione agonistica del processo"......."Il recupero di
concetto di persona, in tal modo impostato, risulta particolarmente
importante in una società, che prevedendo concretamente le possibilità
di reinserimento sociale dei condannati e dovendo pur sempre fare i
conti con esigenze di carattere pubblico, richiede un continuo, vigile
contatto tra il magistrato ed il condannato allo scopo di verificarne
tutti gli elementi della personalità con particolare riferimento a
spiragli effettivi per la possibile rieducazione".
4. - L'Avvocatura generale dello Stato, intervenendo nel giudizio
davanti alla Corte costituzionale, ha ripetuto le già esposte
considerazioni a sostegno dell'infondatezza della questione. Sulle
questioni sollevate dal Giudice istruttore di Monza per la prima volta
ha osservato:
a) non vi è contrasto con l'art. 3, posto che dall'obbligo di difesa
tecnica "non risulta in alcun modo un diverso trattamento dei cittadini
avanti alla legge".
b) non vi è contrasto con gli artt. 10 e 11, perché, "mentre l'art. 11
non sembra in alcun modo interessato, non risulta, relativamente
all'art. 10, la sussistenza di una norma di diritto internazionale
comunemente riconosciuta nei sensi della affermazione del diritto
dell'uomo all'autodifesa";
c) non vi è contrasto con l'art. 21, posto che il sistema processuale
vigente "non vieta in alcun modo di manifestare, comunque, liberamente
il proprio pensiero".
5. - In un procedimento davanti alla Corte di assise di Cuneo, in cui
alcuni imputati, con comunicato scritto, hanno ricusato i difensori di
fiducia e diffidato i difensori d'ufficio, affermando di non volersi
difendere, la Corte d'assise, con ordinanza in data 10 aprile 1979, ha
sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 125 e 128
c.p.p., per ritenuto contrasto con gli artt. 2 e 24, secondo comma,
Cost.
Argomenta il giudice a quo che l'inviolabilità del diritto di difesa,
statuita dall'art. 24 Cost., costituisce "un diritto inviolabile di
libertà di scelta" fra le possibili modalità di esercizio, "tra le quali
può comprendersi sia l'autodifesa, che il non esercizio della difesa".
Da ciò il dubbio che la presenza e l'intervento del difensore, imposti a
pena di nullità, comprimano tale diritto di scelta: ed invero "in
discussione non è già il problema se il difensore tecnico accresca o
limiti le possibilità di difesa dell'imputato, bensi quello se
l'attività dello stesso interferisca nell'esercizio del diritto
dell'imputato così come sopra concepito, interferenza che non appare
contestabile".
D'altra parte, prosegue l'ordinanza, "la Convenzione Europea dei diritti
dell'uomo, prima, ed il Patto Internazionale sui diritti civili e
politici dell'uomo, approvato dalla Assemblea generale delle Nazioni
Unite il 16 dicembre 1966 e ratificato dalla Repubblica Italiana con
legge 25 ottobre 1977, n. 881, espressamente prevedono uno spazio per
l'autodifesa esclusiva".
6. - Intervenendo nel giudizio davanti alla Corte costituzionale,
l'Avvocatura generale dello Stato contesta che l'autodifesa
dell'imputato sia da contrapporre, quasi fosse sempre un'alternativa,
alla difesa dell'avvocato. Autodifesa e difesa tecnica, come insegnano
gli studiosi del processo penale, "si integrano a vicenda, e mai
l'esistenza della seconda è stata di ostacolo alla prima. La difesa
materiale (autodifesa) conserva anzi, quanto meno "de iure", assoluta
preminenza rispetto a quella formale, essendo riconosciuta all'imputato
ogni facoltà di nomina e di revoca del difensore (facoltà che
naturalmente garantisce all'imputato anche il potere di prescrivere al
difensore la linea di difesa che egli abbia prescelto e preferito) ed
essendo l'imputato ad avere per ultimo in ogni caso la parola (art. 468,
penultimo comma, c.p.p.), del quale diritto egli può giovarsi anche per
smentire o contraddire il proprio difensore.
Non si tratta quindi di far affermare un diritto all'autodifesa (che c'è
già), quanto di risolvere il problema se, in base alla costituzione,
debba essere sempre consentito all'imputato fare del tutto a meno del
difensore (diversamente da quanto invece prescrive l'art. 125, primo
comma, c.p.p.)".
Un tale diritto all'"esclusione del difensore", secondo l'Avvocatura non
è certamente ricavabile dall'art. 24 Cost. "Il vero è che la
Costituzione vuole che l'esplicazione della difesa sia garantita nel
modo più ampio; ma le forme, i modi, i soggetti abilitati sono materia
di competenza del legislatore ordinario. In particolare sarà la legge
ordinaria a determinare, a seconda dei tempi, dell'importanza dei
processi e delle loro conseguenze, nonché di altri elementi
politicamente apprezzabili, quale sia la misura in cui la difesa
materiale può sostituire quella formale o viceversa. Essenziale è che vi
sia sempre sufficiente spazio per l'una o per l'altra forma di difesa,
in modo che quel diritto inviolabile non sia mai sacrificato. Ma di un
diritto all'esclusione della difesa formale (che poi sarebbe in
paradossale contrasto proprio con la proclamazione della inviolabilità
del diritto alla difesa) nell'art. 24, nonostante ogni sforzo, non si
riesce a trovare la benché minima traccia"........"La Corte di Cuneo
richiama anche l'art. 2 Cost. Ma tra i diritti inviolabili ivi elencati
figura proprio il diritto di difesa giudiziaria specificamente indicato
nell'art. 24, per modo che il problema finisce per confluire nell'alveo
di tale articolo, del quale si è già detto.
E quanto alla dignità sociale del cittadino, non si vede come questa
possa essere offesa da un sistema che lascia all'imputato ogni facoltà
di estrinsecazione delle proprie vedute sul processo e sugli argomenti
difensivi, togliendogli soltanto la libertà di rifiutare che anche un
difensore, occorrendo di ufficio, abbia potere di intervento e di
parola.
Si tenga presente che l'istituto della difesa rispecchia anche una
pubblica necessità, vale a dire una di quelle esigenze d'ordine e di
socialità, cui anche i menzionati articoli della Costituzione fanno
esplicito o implicito riferimento.
D'altra parte l'assenza di contrasto tra le norme denunciate e l'art. 2
Cost. è evidenziata dal rilievo che, quanto meno dal difensore di
fiducia - che egli può sempre scegliersi, occorrendo col gratuito
patrocinio - l'imputato può sempre ottenere l'allineamento sulla propria
posizione, anche se del tutto negativa, e chiedergli di rinunciare ad
ogni intervento e alla parola. Quel diritto quindi a scegliere di non
difendersi, che sembra tanto preoccupare la Corte di Cuneo, in realtà è
perfettamente consentito dal nostro ordinamento processuale penale".
Quanto al preteso contrasto con il Patto Internazionale sui diritti
civili e politici, l'Avvocatura argomenta che tale questione "non sembra
avere rilevanza costituzionale". In ogni caso, "i lavori preparatori
della Convenzione dimostrano che la previsione alternativa, tra
autodifesa e assistenza di un difensore (cioè tra difesa materiale e
formale), è stata confermata (essendo stata introdotta con la
convenzione del 1950) proprio per garantire legittimità e sopravvivenza
a quelle disposizioni che in vari codici di procedura penale
stabiliscono si possa fare a meno in certi casi dell'assistenza formale:
vuoi perché la difesa tecnica non è addirittura ammessa, vuoi perché,
non essendo ritenuta necessaria, non si fa luogo a nomina di difensori
d'ufficio"......"Illimitata estensione del diritto di autodifesa ed
allargamento dei presupposti della difesa di ufficio sono espressioni
della medesima "filosofia", mirante ad una estensione della garanzia
della difesa in ogni suo aspetto. Ma la prospettiva è sempre quella di
un'autodifesa ravvisata come doverosa alternativa della difesa tecnica,
senza altre implicazioni, in particolare senza quella di un'esclusività
della difesa materiale rispetto alla difesa tecnico-formale".
Concludendo e riassumendo, l'Avvocatura dello Stato sottolinea che
l'autodifesa nel processo penale "non può non fare i conti con interessi
istituzionalizzati e soprattutto con l'esigenza pubblica di un corretto
funzionamento dell'attività giurisdizionale. Interessa cioè alla
collettività il rispetto della libertà del singolo, ma interessa non
meno il rispetto delle regole che quelle libertà tutelano. In tal modo
si collettivizza l'interesse del singolo al rispetto della propria
libertà, interesse che quindi non costituisce un polo meramente
individuale della vicenda processuale penale. Attraverso il rispetto
della libertà del singolo lo Stato dimostra di essere capace di tutelare
la libertà di tutti, e comunque di assicurare il controllo tecnico degli
strumenti atti a comprimerla.
Nasce così l'interesse pubblico al corretto uso dello strumento
processuale e quindi la necessità di garantire, anche al di là della
volontà dell'imputato, il rispetto delle regole del processo.
Inviolabilità del diritto di difesa e irrinunciabilità della difesa
formale si fondono nel convergente interesse alla tutela della libertà
dell'individuo e del rispetto della regolarità del processo; pur nella
loro differenziazione effettuale, sono concettualmente riconducibili
alla medesima matrice.
In definitiva gli artt. 2 e 24 Cost. non consentono di riferire
l'esercizio del diritto di difesa solo all'imputato ma impongono di
ravvisarlo come elemento coessenziale della giurisdizione, come tale di
interesse pubblico, con la conseguenza che l'individuo non può
ostacolarlo, ferma peraltro l'esigenza che la legge non abbia mai a
prevaricare sulla libertà del singolo. E le norme (a torto) denunciate
sono conformi a tali principi costituzionali perché, da un lato,
assicurano in ogni caso (salve le ipotesi dei processi "bagatellari", v.
art. 125, primo comma secondo inciso) la difesa tecnica, dall'altro
garantiscono in ogni caso la difesa diretta (materiale), tra le cui
facoltà è compresa quella di scegliere un difensore di fiducia,
imponendogli qualsiasi linea difensiva, compresa quella del più assoluto
silenzio".
7. - In un procedimento penale davanti al Tribunale di Torino,
all'udienza dibattimentale del 5 aprile 1979 l'imputato Panizzari
Giorgio ha reso la seguente dichiarazione in sede di interrogatorio:
"Intendo rispondere. Revoco la nomina a mio difensore dell'avv. Perla.
Non intendo nominare altro difensore. Non accetto difensore di fiducia.
(n.d.r.: apparentemente vi è qui nel verbale un errore materiale,
dovendosi intendere "difensore d'ufficio"). Non voglio difendermi perché
non ho nulla da cui difendermi". Il coimputato Sanna Giancarlo si è
associato alle richieste del Panizzari. Il Tribunale, con ordinanza in
pari data, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli
artt. 125, primo comma e 128, primo comma, cod. proc. pen., "nella parte
in cui non consentono all'imputato di difendersi personalmente, senza
l'assistenza del difensore, qualunque sia l'imputazione della quale egli
deve rispondere", per ritenuta violazione degli artt. 6, comma terzo,
lett. c) della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo; 14 n. 3 lett.
d) del Patto Internazionale sui diritti civili e politici, e 24, secondo
comma, Cost. (nonché, "incidentalmente", dell'art. 3 Cost.).
Nel motivare sulla rilevanza della questione - ritenuta determinante ai
fini del "regime difensivo da assegnare all'imputato" - il giudice a quo
disattende l'osservazione secondo cui l'autodifesa, intesa come difesa
personale, non sarebbe pregiudicata dalla compresenza di un difensore
tecnico. In linea di diritto si richiama la previsione di atti (art. 304
bis) cui ha diritto di assistere il difensore ma non l'imputato, essendo
la partecipazione di questo rimessa alla discrezionalità del giudice, e
di avvisi da effettuare al solo difensore (articoli 304 quater e 372).
"In linea di fatto, poi, la difesa tecnica non può non condizionare
l'autodifesa (nonostante talune sottolineature della difesa personale,
quali quelle sancite dagli artt. 193, comma primo e 468, comma terzo),
poiché non è praticamente ipotizzabile una efficace linea difensiva
autonoma dell'imputato nel corso del processo, in eventuale contrasto
con quella adottata dal difensore".
Nel merito il Tribunale si discosta dalla strada, altrove seguita, "di
un contrasto diretto degli artt. 125 e 128 c.p.p. con l'art. 24 Cost."
ritenendo il principio costituzionale (anche alla luce deile intenzioni
del legislatore costituente) del tutto "neutro" rispetto al problema
dell'indefettibilità o meno della difesa tecnica. Altre fonti normative
appaiono però incidere sulla legittimità delle norme citate: non tanto
l'art. 6,. comma terzo, lett. c) della Convenzione Europea dei diritti
dell'uomo, quanto l'art. 14 n. 3 lett. d) del Patto Internazionale sui
diritti civili e politici, ratificato dall'Italia con legge 25 ottobre
1977, n. 881.
Detta norma dispone che "ogni individuo accusato di un reato ha diritto
ad essere presente al processo ed a difendersi personalmente o mediante
un difensore di sua scelta; nel caso sia sprovvisto di un difensore, ad
essere informato del suo diritto ad averne, e, ogni qualvolta
l'interesse della giustizia lo esiga a vedersi assegnato un difensore
d'ufficio a titolo gratuito se egli non dispone di mezzi sufficienti per
compensarlo".
Secondo l'interpretazione del giudice a quo, il diritto dell'imputato ad
"essere presente nel processo" giova a "far comprendere che la garanzia
della difesa tecnica non può comunque annullare l'interesse della parte
ad aggiungere il suo contributo personale a quello del difensore e, per
quanto di ragione, a non vedersi privata di facoltà che competano
solamente al difensore, né pregiudicata - fosse pur su un piano diverso
da quello formale - dalla difesa tecnica.
Ma ancora più significativa è la norma del Patto là dove stabilisce che
l'accusato, ove sia sprovvisto di un difensore di sua scelta, deve
essere non già automaticamente munito di un difensore di ufficio, ma
"informato del suo diritto ad averne"; e là dove statuisce che il
diritto a vedersi assegnato un difensore di ufficio, eventualmente
gratuito, sorge non indiscriminatamente, ma "ogniqualvolta l'interesse
della giustizia lo esiga".
Questa architettura complessiva - simile a quella dettata dalla
Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, ma con essa non coincidente -
rafforza l'opinione che vede in questi Patti una direttiva mirante ad
ottenere che i vari legislatori lascino spazio all'autodifesa esclusiva,
almeno nei casi in cui non sia in gioco "l'interesse della giustizia";
vale a dire uno sforzo di contemperare la difesa come diritto del
singolo (e quindi i valori di libertà individuale) con l'altra accezione
della difesa, riguardata come garanzia del corretto svolgimento del
processo (e quindi gli interessi pubblici generali). Tale
contemperamento sarebbe realizzato scandendo fasce di reati gravi, nei
quali la presenza della difesa tecnica è inderogabile, e fasce di reati
meno gravi, nei quali prevale il diritto dell'imputato di gestire la
difesa nei modi da lui scelti".
Ciò premesso, "occorre constatare che il nostro ordinamento non dà
esecuzione al patto", posto che l'autodifesa, ai sensi dell'art. 125
c.p.p., è consentita soltanto agli imputati di contravvenzione "punibile
con l'ammenda non superiore a lire tremila, o con l'arresto non
superiore ad un mese, anche se comminati congiuntamente" (e il
valore-limite di tremila, secondo la costante giurisprudenza, non è
stato rivalutato dalle leggi di adeguamento delle sanzioni pecuniarie).
Entro un ambito così ristretto, la legislazione speciale non sembra
ormai prevedere alcuna contravvenzione. Nel codice penale vi
rientrerebbero formalmente solo le contravvenzioni punite dagli artt.
666, comma secondo, e 667, comma terzo: forme aggravate,
paradossalmente, di figure-base punite con pene pecuniarie che non
consentirebbero l'autodifesa. Non si vede, allora, "come possa
razionalmente giustificarsi il rifiuto dell'autodifesa, allorché
l'imputato deve difendersi da un reato non circostanziato, e la
concessione di tale facoltà quando egli deve difendersi dall'ipotesi
aggravata. Oltre che realizzare un'ingiustificata disparità di
trattamento - per il che si giustifica la richiesta incidentale di
declaratoria di illegittimità costituzionale in relazione all'art. 3
Cost. - tale normativa viola in ogni caso le direttive del Patto, il
quale impone agli Stati di dare attuazione all'autodifesa nei
procedimenti relativi a reati lievi a preferenza di quelli per reati più
gravi, e non viceversa".
Resta aperto, in ogni caso, il dubbio se il consentire l'autodifesa in
"uno spazio così infimo e trascurabile" possa ritenersi "sufficiente a
dare attuazione, in modo effettivo e non formale, alla direttiva del
Patto".
Quanto ai riflessi costituzionali dell'inosservanza del Patto, il
Tribunale non ignora l'orientamento della Corte costituzionale, secondo
cui l'art. 10 Cost. ("l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle
norme del diritto internazionale generalmente riconosciute") "si
riferisce appunto a tali norme di diritto internazionale, e non anche ai
singoli impegni assunti dallo Stato nel campo internazionale: di modo
che soltanto le prime e non anche i secondi debbono intendersi
direttamente costituzionalizzati.
Ciò non toglie che i Patti internazionali rappresentino pur sempre delle
norme che servono ad interpretare dinamicamente la portata ed il valore
delle disposizioni costituzionali, poiché riflettono l'evoluzione
storica della sensibilità internazionale di fronte ai diritti
dell'individuo, e l'assegnazione a questi ultimi di contenuti via via
più incisivi ed articolati".
Tale assunto, si dice, troverebbe conforto nella stessa giurisprudenza
della Corte costituzionale (l'ordinanza di rimessione cita le sentenze
nn. 127/77, 232/75, 14/64, 49/63, 120/69, 178/72), nonché nella delega
legislativa per l'emanazione di un nuovo codice di procedura penale (il
quale dovrà "attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle
norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative
ai diritti della persona e al processo penale").
Per finire il giudice a quo si preoccupa dell'obiezione avanzata da più
parti, "che l'asserita violazione del Patto sarebbe insignificante, dal
momento che il nostro ordinamento - garantendo all'imputato l'assistenza
di un difensore tecnico in qualsiasi procedimento - si porrebbe in
posizione più avanzata della norma pattizia, posto che assicura
all'imputato sia l'autodifesa sia la difesa tecnica, e perciò offre al
medesimo non un'alternativa, ma due facoltà congiunte ed articolate.
A questa tesi, che vede nella difesa essenzialmente il riflesso
dell'interesse pubblicistico al corretto svolgimento del processo, non
può non contrapporsi - sia pure in termini di accorto contemperamento -
un 'accezione individualistica del diritto di difesa, intesa, tra
l'altro, anche come consapevole rifiuto del patrocinio altrui e come
libera scelta del modo di gestire il processo. Man mano che la
legislazione evolve nel senso di circoscrivere l'area dei diritti
individuali indisponibili dal loro titolare, correlativamente sembra
farsi più sensibile l'esigenza di non sacrificare del tutto le scelte
dell'individuo nella materia in questione".
8. - L'Avvocatura generale dello Stato, intervenendo nel giudizio
davanti alla Corte costituzionale, ha riproposto considerazioni già
altrove svolte, sui dibattiti in atto, sullo stato dei lavori di
riforma, e sul significato dell'art. 24 Cost. Ha escluso che ci siano
violazioni del principio d'uguaglianza, e ha definito "del tutto
incoerente" il richiamo a norme internazionali "che non costituiscono
parametro di valutazione della costituzionalità di una legge".
I predetti procedimenti, discussi congiuntamente all'udienza del 16
gennaio 1980, venivano rinviati a nuovo ruolo con ordinanza n. 145 del
1980 e ridiscussi all'udienza del 10 dicembre 1980.
Considerato in diritto:
1. - Le questioni di costituzionalità proposte con le quattro ordinanze
in epignafe si riferiscono alle medesime disposizioni di legge (gli
artt. 125 e 128 cod. proc. pen.) e, perciò, le relative cause, trattate
congiuntamente, possono essere riunite e decise con unica sentenza.
2. - Con la sentenza n. 125 del 1979 questa Corte ha, dichiarato non
fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal
Pretore di Torino e dal Tribunale di Cuneo con riferimento agli artt. 2
e 24 Cost., degli artt. 125 e 128 cod. proc. pen. nella parte in cui
impongono la nomina di un difensore d'ufficio anche all'imputato che
rifiuti qualsiasi assistenza.
Premessa la portata generale della categorica affermazione - nell'art.
24 Cost. - del diritto "inviolabile" di difesa, la citata sentenza ha
osservato come manchi, nel testo costituzionale, una specificazione
cogente dei modi di esercizio di tale diritto; con la conseguenza che
spetta al legislatore, considerate le peculiarità strutturali e
funzionali ed i diversi interessi in gioco nei vari stadi e gradi del
procedimento, il dettare le concrete modalità per l'esercizio del
diritto di difesa, alla condizione, s'intende, che esso venga, nelle
diverse situazioni processuali, garantito a tutti su un piano
d'uguaglianza ed in forme idonee. Ora, la possibilità di una piena
difesa personale - appellandosi alla quale si contesta l'obbligatorietà
della difesa tecnica d'ufficio - è riconosciuta all'imputato in tutto il
corso del dibattimento ed a conclusione di esso (artt. 443 e 468, terzo
comma, cod. proc. pen.) incontrando soltanto il limite intrinseco della
pertinenza delle dichiarazioni rispetto al giudizio, oltre ai limiti
generali costituzionalmente posti alla libertà di manifestazione del
pensiero (estendendosi, peraltro, anche all'imputato l'esimente di cui
all'art. 598 cod. pen.). Quanto alla difesa tecnica, l'obbligatorietà
della nomina del difensore non significa affatto un vincolo a svolgere
determinate attività processuali; ma significa semplicemente, secondo la
sentenza n. 125, predisposizione astratta di uno strumento ritenuto
idoneo a consentire, in qualsiasi momento, l'esercizio del diritto
inviolabile - e come tale irrinunciabile - di difesa, senza pregiudizio
dell'elasticità dei rapporti fra imputato e difensore e soprattutto
senza pregiudizio della piena autonomia delle scelte difensive, positive
o negative, la cui inconciliabilità rappresenta, oltre che un dato di
fatto, l'immediato risvolto dell'inviolabilità del diritto in questione.
3. - Lo stesso Pretore di Torino ripropone ora le medesime questioni già
esaminate e respinte dalla sentenza n. 125/79, richiamandosi alla
propria precedente ordinanza di rimessione, senza aggiungere nuove
considerazioni. Ne consegue che la questione sollevata dal Pretore di
Torino con l'ordinanza 30 novembre 1978 (n. 251/79) va dichiarata
manifestamente infondata.
4. - Le restanti ordinanze del Giudice istruttore presso il Tribunale di
Monza (14 marzo 1979, n. 430/79), della Corte di Assise di Cuneo (10
aprile 1979, n. 447 del 1979) e del Tribunale di Torino (5 aprile 1979,
n. 454/79) - pongono anzitutto la questione di legittimità
costituzionale degli articoli 125 e 128 cod. proc. pen. (l'ordinanza
430/79 del solo art. 128 c.p.p.) con riferimento all'art. 24 Cost., da
interpretarsi però, ad avviso dei giudici a quibus, alla luce dell'art.
6 comma terzo lett. c) della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo,
recepita nell'ordinamento interno italiano a far tempo dal 26 ottobre
1955, data di deposito dello strumento di notifica, autorizzato con
legge 4 agosto 1955 n. 848.
Sotto questo stesso profilo viene anche invocato l'art. 14, n. 3 lett.
d) del Patto internazionale sui diritti civili e politici ratificato
dalla Repubblica Italiana con legge 25 ottobre 1977 n. 881 (ord. della
Corte di Assise di Cuneo, n. 447/79), mentre con distinta, ma collegata,
prospettazione viene denunziata la violazione degli artt. 10 e 11 Cost.
(ord. 14 marzo 1979 del G.I. del Tribunale di Monza - n. 430/79), sempre
con riferimento alle succitate disposizioni della Convenzione Europea e
del Patto internazionale che vengono assunte di per sé a parametri del
giudizio di costituzionalità nell'ordinanza 5 aprile 1979 del Tribunale
di Torino (n. 454/79).
5. - Le questioni così prospettate non sono fondate.
Fermo il carattere generale della norma di cui all'art. 24, secondo
comma Cost., intesa a garantire l'esercizio della difesa in ogni stato e
grado di qualunque procedimento giurisdizionale, e ferma la conseguente
legittimità di scelte legislative, anche differenziate, intese a
disciplinare le modalità di esercizio del diritto di difesa, nel senso
chiarito da ultimo nella sentenza 125 del 1979, le prospettazioni dei
giudici a quibus pongono in definitiva un duplice problema: di gerarchia
delle fonti normative, da un lato, e dell'ambito di operatività
dell'art. 10 Cost. dall'altro.
Sotto il primo profilo, la Corte condivide il prevalente orientamento
della dottrina e della giurisprudenza per il quale, in mancanza di
specifica previsione costituzionale, le norme pattizie, rese esecutive
nell'ordinamento interno della Repubblica, hanno valore di legge
ordinaria.
Resta così esclusa la stessa prospettabilità, per questo aspetto, di una
questione di legittimità costituzionale, tanto più quando (ord. 454/79)
le disposizioni convenzionali vengono poste, di per sé sole, quali
parametri di giudizio.
Né va trascurata la disposizione di cui all'art. 2 paragrafo 2 del
citato Patto internazionale, ai sensi del quale: "Les Etats parties au
present Pacte sengagent à prendre, en accord avec leurs procedures
constitutionnelles et avec les dispositions du present Pacte, les
arrangements devant permettre l'adoption de telles mesures d'ordre
legislatif ou autre, propres à donner effet aux droits reconnus dans le
present Pacte qui ne seraient pas déjà en vigueur".
Si può, ancora ed infine, ricordare che le disposizioni di cui all'art.
6 n. 3 lett. c) della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, a mente
delle quali "Tout accuse' a droit notamment a:...... c) se defendre
lui-meme ou avoir l'assistance d'un defenseur de son choix et, s'il n'a
pas les moyens de remunerer un defenseur, pouvoir etre assisté
gratuitement par un avocat d'office, lorsque les interets de la justice
l'exigent"; non sembra suscettibile della interpretazione presupposta
dalle ordinanze di rinvio.
Invero, la disposizione in parola vuole concorrere alla definizione di
un "giusto processo", di un "equo processo" fondato, tra l'altro, sulla
uguaglianza delle parti, sulla "egalité des armes", come si è espressa
la Commissione Europea dei diritti dell'uomo. E la Commissione stessa ha
avuto occasione di affermare che il diritto all'autodifesa non è
assoluto, ma limitato dal diritto dello Stato interessato ad emanare
disposizioni concernenti la presenza di avvocati davanti ai Tribunali
(ric. 722/60). La medesima Commissione, esaminando un ricorso contro uno
Stato il cui ordinamento interno impone la rappresentanza di un avvocato
di fronte al Tribunale superiore, ha ritenuto che la disposizione in
esame non obbliga gli Stati contraenti a garantire agli imputati una
assoluta libertà di accesso ai Tribunali di ultima istanza e che nulla
si oppone ad una diversa disciplina purché emanata allo scopo di
assicurare una buona amministrazione della giustizia (Ric. 727/60 e Ric.
722/60). Interpretazioni, queste, che sembrano perfettamente coerenti
con il principio di cui all'art. 24, secondo comma Cost. nella lettura
datane da questa Corte con la sent. n. 125 del 1979.
Sotto il secondo profilo questa Corte non può che ribadire la propria
costante giurisprudenza che esclude le norme internazionali pattizie,
ancorché generali, dall'ambito di operatività dell'art. 10 Cost. (sent.
48/79; 32/60; 104/69; 14/64) mentre l'art. 11 Cost. neppure può venire
in considerazione non essendo individuabile, con riferimento alle
specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità
nazionale.
6. - Infondata è pure la questione di legittimità costituzionale degli
artt. 125 e 128 cod. proc. pen. sollevata con riferimento all'art. 2
Cost.
Sul punto basta, infatti, richiamare motivazione e conclusioni della
sentenza n. 125/79, ribadendo che i diritti fondamentali inviolabili,
riconosciuti dall'art. 2 Cost., sono quelli ricollegati alle specifiche
norme costituzionali concernenti singoli diritti e garanzie. Nella
specie, non ravvisandosi alcuna lesione del diritto (quello di difesa
personale) direttamente implicato, ne consegue che nessuna lesione della
personalità dell'imputato, e nemmeno un'alterazione della sua immagine
ideale può derivare dall'obbligo in sé dell'assistenza del difensore nel
giudizio penale.
7. - Il G.I. del Tribunale di Monza dubita della legittimità
costituzionale dell'art. 128 c.p.p. anche in riferimento all'art. 3
Cost. assumendo che la disposizione processuale in esame escluderebbe
l'uguale capacità di autodifesa di ciascuno. L'assunto non è fondato,
posto che la disciplina processuale è certamente uguale per tutti i
soggetti che versano in identiche situazioni escludendo per tutti
(eccettuati gli imputati di pochissimi reati bagatellari) l'autodifesa
esclusiva.
8. - Lo stesso giudice denuncia infine una pretesa violazione dell'art.
21 Cost. poiché la norma dell'art. 128, primo comma cod. proc. pen.
negherebbe "la libertà assoluta di esprimere le idee necessarie a
respingere in maniera personale l'attacco portato alla propria libertà
attraverso l'esercizio dell'autodifesa".
La questione è infondata. All'interno del processo, le libertà
costituzionali si specificano (nel contenuto, nei fini, nei limiti) come
esplicazione del diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost. La
libertà di manifestazione del pensiero è quindi all'imputato
riconosciuta, in tutta l'estensione richiesta dalla inviolabilità della
difesa, e con il correlativo limite logico della pertinenza al processo
e dell'inserzione nelle forme processuali previste. Rispetto
all'esercizio di tale libertà, la presenza o assenza di un difensore
tecnico nulla toglie né aggiunge; e comunque anche i rapporti fra difesa
personale e tecnica, con le rispettive "manifestazioni di pensiero",
trovano il loro riferimento costituzionale nell'art. 24 Cost., come
problemi di assetto di diritti ed attività aventi un fine istituzionale
specifico.
Anche l'art. 21 Cost., definente l'ambito generale della libertà
d'espressione, non viene dunque in autonoma considerazione e nulla può
aggiungere agli spazi di libertà, anche di espressione personale
dell'imputato, concretanti l'inviolabile diritto di difesa ex art. 24
Cost.
Quest'ultimo disposto costituzionale segna insieme il contenuto - di
piena libertà di argomentazione - ed i limiti -di "pertinenza" al
processo - art. 443 c.p.p. - delle attività processuali anche
consistenti in "manifestazioni del pensiero".
9. - Mentre la maggior parte delle ordinanze di rimessione - già
esaminate con la sentenza n. 125/79 o attualmente in esame - riguardano
casi di rifiuto globale della difesa e del processo, l'ordinanza n. 430
del 1979 del giudice istruttore presso il Tribunale di Monza riguarda un
caso in cui l'imputato aveva positivamente chiesto di autodifendersi.
Tale diversa situazione processuale non ha influito sulle argomentazioni
del giudice a quo, e comunque non può incidere sulla soluzione delle
prospettate questioni di costituzionalità. Il cosiddetto "rifiuto del
processo" e della giustizia del nostro Stato è un atteggiamento tutto
politico di alcuni imputati, che di per sé non può assumere alcun
rilievo formale rispetto al corso, alle forme, alle garanzie ed
all'attuazione anche coercitiva della giustizia penale. Nella logica
dell'ordinamento giuridico, rifiuto di difendersi e volontà di
autodifendersi sono ugualmente qualificabili come scelte, non importa se
attive o negative, concernenti il modo di avvalersi dei diritti
inviolabili e irrinunciabili, che l'ordinamento (indipendentemente dagli
atteggiamenti verso di esso) ricollega alla formale posizione di
imputato. Né l'uno né l'altro tipo di scelta è pregiudicato dalla nomina
obbligatoria del difensore d'ufficio, posto che questa non incide in
nessun modo sulla partecipazione (o non partecipazione) dell'imputato al
processo, non ne impegna la personalità, ed è in ogni caso preordinata
alla completezza del contraddittorio processuale, nell'interesse
dell'imputato stesso ed in modi che, pur non definiti da norme
processuali vincolanti, non possono non tenere conto delle scelte
defensionali del vero titolare del diritto di difesa, appunto
l'imputato.
10. - Il Tribunale di Torino (ord. 454/79) pone "incidentalmente"
questione di legittimità costituzionale degli artt. 125, primo comma e
128, primo comma c.p.p. in riferimento all'art. 3 Cost., in quanto nella
ipotesi di cui agli articoli 666 e 667 cod. pen. l'autodifesa esclusiva
è consentita con riferimento alle ipotesi aggravate ed esclusa, invece,
quando l'imputazione sia un reato non circostanziato.
La questione è inammissibile per la sua totale irrilevanza nel giudizio
a quo, in cui le imputazioni contestate sono quelle di cui agli artt.
337 e 635 cod. pen.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 125 e 128 cod. proc. pen., in riferimento
agli artt. 2 e 24 Cost. sollevata dal Pretore di Torino con l'ordinanza
30 novembre 1978;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli
artt. 125 e 128 cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 11,
21 e 24 Cost. nonché agli artt. 6, n. 3 lett. c) della Convenzione
Europea dei diritti dell'uomo e 14, n. 3 lett. d) del Patto
internazionale sui diritti civili e politici sollevate dal G.I. del
Tribunale di Monza, dalla Corte di Assise di Cuneo e dal Tribunale di
Torino con le ordinanze indicate in epigrafe;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 125 e 128 cod. proc. pen. in riferimento all'art. 3 Cost.
sollevata "incidentalmente" dal Tribunale di Torino con l'ordinanza 5
aprile 1979.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 16 dicembre 1980.
F.to: LEONETTO AMADEI - GIULIO GIONFRIDA - EDOARDO VOLTERRA - MICHELE
ROSSANO - ANTONINO DE STEFANO - LEOPOLDO ELIA - ORONZO REALE - BRUNETTO
BUCCIARELLI DUCCI - ALBERTO MALAGUGINI - LIVIO PALADIN - ARNALDO
MACCARONE - ANTONIO LA PERGOLA - VIRGILIO ANDRIOLI - GIUSEPPE FERRARI.
GIOVANNI VITALE - Cancelliere
Piazza del Quirinale, 41 00187 Roma
tel. 0646981 - fax 064698916 - info@cortecostituzionale.it
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