| |
FRANCESCO PATRIZI DA CHERSO
PATRIZI,
la città felice
L'uomo,
di commune consentimento de' filosofi, ha dell'essere suo due parti
principali, l'una delle quali, che è l'anima, per universal opinione di
tutti, come che pochi altri il contrario sentissero, essendo immortale
ed incorrottibile, sola a se stessa è bastante, né d'altro aiuto di
fuori, al suo mantenimento ha mestiero. Il corpo, che è l'altra, come
cosa materiale, e di deboli parti composta, non è sofficiente egli solo
alla propria conservazione, ma molte cose estrinseche a ciò gli sono
necessarie; e primieramente, che l'anima di lui cura e governo si
prenda; e poi, che per suo ristoramento, non gli manchi il mangiare, ed
il bere, ed abbia da coprirsi contra i freddi e caldi, e contro l'altre
qualità dell'aria che potessero fargli danno. E sia copioso di tutte
quelle cose, donde si possono le predette cavare, come denari,
possessioni, ricchezze ed altre simili. E con ciò sia cosa che queste
l'uomo da se stesso non possa solo tutte quante acquistarsi, ma egli ha
mistieri dell'aiuto d'altri uomini, però egli la compagnia de gl'altri
uomini come cosa a se stesso buona ed utile, naturalmente desidera ed
ama, e non gli è meno questo affetto proprio e naturale, che gli sia
proprio l'essere risibile; e di tal modo, che chiunque non ama di essere
e conversare insieme con altri uomini, o da piú che uomo è necessario
che sia, o da meno; e come per antico proverbio si disse, che egli sia o
Dio o bestia. E con ciò sia cosa che tutte le cose, che dal
profondissimo gorgo dell'infinita bontà di Dio da principio sorsero, e
in questo basso mondo si derivarono, una memoria di quel bene, che
stando nell'essere ideale, dell'acque sopracelesti di quel gorgo
sentivano, tiene bramose ed assetate di tal modo, che incessabilmente, e
senza mai pigliar quiete, s'affaticano di ritrovare acque, che di là
suso in questo mondo cadano, e l'ardentissima loro sete estinguano; per
rimedio della quale ha voluto Dio, che dal predetto gorgo della sua bontà,
nel mondo tanti rivi della sopraceleste acqua piovano, quante sono le
specie dell'universo, acciocché ciascuna dal suo si possa largamente la
sete cavare. E perché l'uomo, per la corrotta natura sua piú d'ogni
altra creatura, da questa sete è molestato; e perché, dalla sua cieca
volontà guidato, il rivo suo che dal cielo abondantissimo piú degli
altri piove rarissime fiate, o non mai, ritrova, io mi sono deliberato
di voler mostrare, a quelli che averanno occhio e voglia di seguitarmi,
la strada, di ritrovare questo rivo, e di edificarvi una città sopra la
quale egli continuamente cada, e delle sue felicissime acque la bagni.
Dico, adunque, che desiderando l'uomo, sí come tutte l'altre cose
create, il ben suo, lo desidera tale, che il desiderio suo in quello
abbia riposo e fine (1) né possa continuamente desiderarne un maggiore,
ch'altramente il desiderio suo sarebbe vano ed andrebbe la cosa in
infinito. Questo ultimo, adunque, e sommo bene, nel quale egli si
riposa, è la propria felicità dell'uomo, della quale maggior bene
alcuno egli non si può in questo mondo acquistare. Ora, s'egli deve
giamai possedere tanto bene, ed alla propria beatitudine pervenire, è
mestieri che in sette cose (2), tutte all'uomo appartenenti, questo bene
sia riposto; e primieramente nell'anima semplicemente sola; secondo
nell'anima, per quanto ella il corpo governa; appresso nella medesima,
per la cura, che ella ha delle cose, che estrinsecamente al corpo fanno
mestieri; quarto, nel corpo per se stesso; quinto, nelle cose che al
mantenimento di lui sono necessarie; sesto, in quegli istrumenti, che
tali cose gli apparecchiano; ultimo, nel tempo del congiungimento
dell'anima col corpo. Laonde saviamente Aristotele (3), avendo al
predetto settenario riguardo, descrisse la felicità un'operazione
secondo la virtú perfetta, senza impedimento, in vita compiuta, nel
primo membro comprendendo le virtú tutte: le specolative, che sono
dell'anima per sé sola, le morali, parte delle quali al corpo
riguardano, come è la temperanza e la continenza; e parte alle cose
serventi al corpo si stendono, quale è la liberalità, la giustizia, e
simili, le quali virtú tutti i beni dell'anima ne' tre predetti gradi
adempiono. Nel secondo poi egli abbracciò i tre beni al corpo, ed alle
cose sue appartenenti, perciocché senza impedimento del corpo è colui
che è sano, gagliardo, e agile a tutte quelle azioni, che a sua
salvezza si richieggono. È privo d'impedimento parimente nelle cose
attinenti al corpo colui, che ha abondanza del vivere e del vestire, e
dell'altre necessità, non ha medesimamente impedimento ne gli strumenti
che gli apprestano le predette cose, quelli che si ritrova aver copia di
contadini, di servi, e di artefici, che 'l mangiare, le vesti, e l'altre
cose necessarie gli apprestino. E questi sono i tre gradi al corpo,
senza governo di anima, spettanti. Nella terza parte della diffinizione,
che è quella in vita compita, si comprende il settimo grado, al corpo
ed all'anima commune; imperocché colui solamente può divenir beato, il
filo della cui vita è prolungato per tutto lo spazio del corso del
vivere umano, perciocché se nella metà fosse tronco, non potrebbe egli
per modo alcuno al rivo che detto abbiano arrivare. Laonde, se noi
vogliamo, che l'uomo possa venire a bere dell'acque di questo rivo, è
bisogno che noi, a tutto nostro potere, conserviamo intero e tenace il
legame, col quale il corpo sta all'anima legato. Il qual legame
altrimenti non si suole spezzare, che o per forza che l'anima ci ponga
per romperlo o per violenza che gli faccia il corpo, o perché egli in
corso di tempo si venga a infracidire. Ma potendo l'uomo, inanzi che
fracido egli divenga, giungere al rivo di questo scioglimento, del tutto
non parleremo. Si tacerà ancora di quello, che dall'anima si cagiona,
avenendo radissime volte, e solamente ad uomini santissimi, e sarà
nostro intendimento, per ora, di ragionare in torno alle cose, che
potessero ovviare che questo rompimento per causa del corpo non
avvenisse. Il che si potrà agevolmente vedere se noi discorreremo per
le cose, per le quali la vita nostra si mantiene, e per le quali si
distrugge. È opinione di Platone, di Aristotele e di tutti gli altri
filosofi e medici, ed oltre ciò sensatamente si prova, che tanto tempo
vive l'uomo, quanto l'anima sta col corpo legata, e l'anima tanto
lungamente dimora con lui, quanto dura il vincolo, che insieme gli tiene
ristretti, e questo vincolo sono gli spiriti, detti dai preallegati
filosofi e medici, primi istrumenti dell'anima. Questi spiriti adunque
nel corpo vengono a mancare, o perché in tutto non si generano, o perché
doppo che sono generati, si corrompono. Non si generano per mancamento
di sangue o di aere. Con ciò sia cosa che essi, della parte piú
sottile del sangue e dell'aere inspirata si fanno. L'aere non ci può
mai abbandonare, che se bene ci sia serrata la canna del polmone,
l'aria, per l'arterie, dal cuore per tutto il corpo sí disperse, come
che non in tanta copia, si tira; e se nello strangolamento l'uomo muore,
ciò non è per privazion totale dell'aria; ma per troppo eccesso della
calda qualità, che ne gli spiriti per soppressione del ventillamento
sopraviene; ma il difetto del sangue aviene; o perché lo stomaco non fa
chilo, o, questo fatto, non arriva al fegato, che lo converta in sangue,
e vedere perché il chilo non trappassi al fegato, è ufficio di medico.
Ma la cagione, per la quale lo stomaco non lo genera, è doppia, o perché
non gli viene porto cibo, o perché egli è distemperato tanto, che non
lo può trasmutare. Ma la cura di questo membro si raccomandi al medico;
perciocché io toglio nella mia città i corpi sani, e naturalmente ben
disposti, a' quali può accadere, che non piglino nudrimento, o per non
averne, o per esser loro vietati, ed acciocché questo vietamento si
vieti, si potrà per legge provedere. Al non averne poi, l'unico rimedio
è l'averne (4). Abbia dunque da mangiare e da bere la città se
desidera vivere ed esser beata. E con ciò sia cosa, che l'uomo
comunemente o di pane o di legumi o di frutte o di carne usa di cibarsi,
e bere o vino o acqua, o bevande composte dall'arte, acciocché egli
viva, e viva senza impedimento, gli si ricercano tutte queste sette
cose, e nascendo le cinque dalla terra, e dell'altre due pascendosi
l'una dalla terra, e l'altra dalle cose dalla terra nate facendosi,
necessariamente ci vuole di territorio di terra tanto, quanto sia
bastante a produrre, ed a mantenere queste cose, in sí grande abondanza,
che possa senza impedimento alcuno nutrire tutta la città. E perché il
terreno, per lo piú senza l'aiuto dell'arte, diviene sterile, e lungo
tempo non può produrre, s'appresenta quivi la necessità dei contadini,
e de' pastori, dell'agricoltura, e dell'armentaria. E perché cotale
esercizio è faticoso molto, e di grandissimo affanno, vi si richieggono
uomini, che sieno robusti, e possenti a sopportarlo, e acciocché per la
fatica non possano ricusarlo, e perché i cittadini possano piú
liberamente loro comandare, è bisogno che sieno servi. Ed acciocché,
comandando loro i signori, non ardiscano di opporsi ai comandamenti
loro, sieno timidi, e di vile animo; e, come si dice, servi per propria
natura. Ed acciocché quello che non può far uno, non faccia la
moltitudine, e pigli impresa di ribellarsi ai padroni, non abbiano
parentela insieme, perciocché molto piú facilmente si accordano ad un
fatto, per la conformità del sangue, i parenti, che altre genti, che
sieno di lontano lignaggio. E perché il contrasto che essi soli non
potesseno fare, non facessero con l'aiuto de' finitimi popoli, debbono
anche questi essere a' nostri contadini simiglianti nella viltà
dell'animo, e nella differenzia del sangue. Or questa è una sorte
d'uomini che ci va avanti spianando la strada, per la quale piú
agevolmente possiamo pervenire al detto rivo. E con ciò sia cosa che
l'uomo non soglia prender cibo di grano, o di legumi in quello stato,
che la terra gli porta, né di carne che viva, o cruda sia, però ci si
fa innanzi una turba di molinai, di frangiceci, di pistori (5), di
fornai, di macellai, di cuochi, i quali ci apprestino, cosí queste
cose, che sieno acconcie al mangiare. E perché questi artefici, in
apparecchiarle hanno bisogno di molti e vari istrumenti, gli viene
dietro un'altra moltitudine di artefici, di picchiapietre (6), di
muratori, di legnaiuoli, e di fabbri, i quali le cose a quei primi
necessarie vadano fabricando. Tutte queste cose, o di lontano o di
vicino, concorrono alla creatione degli spiriti, per rimedio della vita;
contro a quel primo difetto, quando essi non si generano. Ora vengo al
secondo, quando, doppo che sono generati, si disperdono (7); e ciò in
due modi suol accadere, o usando tutti puri e naturali fuor del corpo, o
dentro al corpo guastandosi. Si guastano dentro al corpo, o per troppa
condensazione o per troppo rarefacimento, o per velenosa qualità,
contraria alla sostanza loro; o per altro accidente si corrompono. La
troppa densità suole cagionarsi dal freddo, cosí interno come esterno.
La rarità dal caldo parimente intrinseco o estrinseco proviene. E la
velenosa qualità è medesimamente, o interiore o esteriore. Ma con ciò
sia cosa che in un corpo sano e di naturale e buona temperatura non posa
cadere veruna delle predette qualità se di fuori non ha principio,
resistendo a queste qualità di fuori, resisteremo similmente, che
quelle di dentro non si facciano. Ci faremo, adunque, incontro in
universale, tra 'l freddo e il caldo, se fonderemo la nostra città in
luogo, dove niuna di queste due qualità sia prepotente ed eccessiva, ma
tenghi tra ambedue mezano temperamento, quale è quello di tutto il
quarto clima con le parti congiunte del terzo, e del quinto. E per
questo le città d'Etiopia, e quelle che sono troppo sotto l'Orse, non
possono a pieno cavarsi la sete nell'acque del nostro felice gorgo,
facendo impedimento a quelle il troppo ardente caldo, ed a queste il
troppo intenso freddo. Schiferemo poi il particolare freddo e caldo
delle stagioni, verno ed estate, con rimedi piú particolari. Al freddo
ci opporremo, se noi fuggiremo per quanto si può l'acre sereno e quieto
della vernata, il ventoso, le pioggie, le nevi, i ghiacci, dalle quali
cose tutte ci riparano le mura, e i tetti delle case, e le coperte delle
vesti, e da questo luogo ci nasce il bisogno di piú sorte d'artefici a
fare le case, gli architetti, i muratori, i manuali, i legnaiuoli, i
fabbri, i fornacciai, i picchiapietre; a fare le vesti, poi, i sarti, i
tessitori, i lanaiuoli, i pellicciai, i calzolai, e molti altri di
questa sorte. Il caldo noioso della state si fugge, seguendo l'ombre, i
freschi, e l'aure, con poco carico di vestimenti. L'ombre e 'l fresco si
hanno nelle loggie, e nelle camere terrene, e l'aure in que' luoghi,
dove ci può tirare il vento; e tali sono i luoghi rilevati, ed aperti,
ed a questo fine, sono comode le loggie alte, alle quali cose fare ci si
adopra l'architettura, con le sue ministre. Ed acciocché tutta la città
possa avere questa commodità, sia in parte edificata sopra colle
rilevato, perché sia piú esposto all'aure, e, per non aspettare nel
medesimo luogo il freddo della vernata che in tai luoghi suole essere piú
fiero, sia ancora in parte posta nel piano, dove la freddura non può
avere cosí gran forza; ed uno cotal sito non solamente serve alla detta
commodità, ma e alla vaghezza della veduta, e alla fortezza ancora
della città; e per questo si loda a' tempi nostri Verona ed a' passati
Atene. La leggierezza dei panni non aggravando tanto, ripara molto alla
noia del caldo. E nessuno è che non sappia, che la seta è meno grave e
della lana e del lino. Per questa commodità, adunque, ci giunge
un'altra mano di artegiani, che hanno l'impresa di acconciare la seta
all'uso de' cittadini, i quali, quantunque andando ignudi piú sgravati
sarebbono, nondimeno, sí come la necessità del freddo gli manda
vestiti il verno, cosí la necessità della modestia, che è tra le virtú
morali registrata, gli vuol vedere anco la state addobbati di panni. La
velenosità esteriore, sí come il freddo e il caldo, piú che altrove,
nell'aere si genera. La quale non è altro che un temperamento
dell'aria, guasto e corrotto, e fuori della sua natura uscito; e questo
è un caldo e umido, putrido e pestilenziale. Fuggendo adunque noi
questo aere distemperato, e le cose che tale il possono rendere, non
potrà causare nocimento alcuno alla nostra vita. Possono corrompere
l'aere le paludi o le selve di quegli alberi che mantengono la foglia,
come sono bossi, lauri, edere, cipressi, abieti e simili. I luoghi
chiusi, parimente, dove l'aria stia quieta, ed i venti non la possano
purgare, possono farla divenire maligna. L'ostro, che è caldo ed umido,
può ancora danneggiarla non poco; ed alquanto il vento di ponente,
essendo egli nel secondo luogo della stessa temperatura con l'ostro. Se
noi, adunque, vogliamo avere l'aria sana ed incorrotta, e che ci
mantenga la vita nello stato naturale, noi abbandoneremo i luoghi dove
alcuno o piú di questi difetti si veggano. E troveremo per edificazione
della nostra città siti a i predetti del tutto contrari. Perciocché il
contrario è ottimo ed unico rimedio al suo contrario. Però eleggeremo
luoghi, dove non ci siano palludi né altre acque stagnanti e fangose, e
luoghi privi delle dette selve, e luoghi alti ed aperti, ed esposti ai
fiati d'Oriente e di Settentrione. Ma con ciò sia cosa che la sanità
non solo per le sopradette cagioni si corrompe, ma dal modo del nostro
vivere ancora e da i disordini che tutto dí si fanno e da altri
innumerabili accidenti che ci avengono, che né da freddo né da caldo né
da corrotto aere nascono, ci occorre un'altra sorte di artefici, che a
questi mali si oppongano, con l'aiuto de' quali, dalla violenza loro ci
liberiamo. Tali sono i medici fisici, i cirugici ed i loro ministri
barbieri, gli stuffaiuoli e gli speciali. Questi raccontati modi sono
quelli co' quali possiamo rimediare alla consumazione che si fa a poco a
poco de gli spiriti nostri vitali (8). Il subito loro svanimento, ch'era
il secondo modo della lor separatione dal corpo, aviene quando l'uomo è
per alcun caso ucciso. E ciò suol avenire o da inimico cittadino, o
publico, o privato, o da nemico esterno o comune di tutta la città o
particolare di alcuno; ovvero viene morto dal caso, del quale, per esser
egli sopra la nostra potestà, non si può terminatamente ragionare. Ma
del nemico domestico e cittadino parlando, io dico, che dall'essecuzione
del già suo malo animo lo ritrae il timore della pena; e dal cattivo
animo lo rimove lo amore che l'uno all'altro i cittadini si portano. Non
ci saranno adunque nella città nostra private nemicizie se tra'
cittadini ci regnerà amore; e l'amore non si genera se non verso la
cosa conosciuta. E perciò necessaria cosa è, che i cittadini tra loro
l'un dell'altro abbiano notizia. La qual cosa piutosto in una mediocre e
convenevol moltitudine che in una innumerabile si fa; ed in questa piú
facilmente ancora, se non è confusa, ma è per casate distinta. La qual
distinzione, nell'Egitto, a' tempi di Sesostre (9), primieramente ebbe
origine. Doverà, adunque, la nostra città, non d'infinita moltitudine
di genti esser ripiena, ma di tanta, in somma, che tra loro possano
tutti facilmente conoscersi; ed a ciò meglio fare, saranno per diversi
sangui e casate distinti. Ed acciocché questa radice del reciproco
amore cresca e venga a perfezion tale, che faccia frutto perfetto,
voglio che ne i conviti publichi si nutrisca; i quali del publico, e nel
publico, si celebrino ogni mese almeno una fiata, secondo l'antico
costume di Italo Re d'Italia (10), che primo di tutti mise in piedi
questa usanza. Nel publico, adunque, sieno statuite publiche stanze,
dove questi conviti si abbiano a celebrare, e del publico sia una parte
del territorio della città, i cui frutti sieno solamente a questo fine
destinati. E perché tarlo d'invidia non roda questa già nata e
cresciuta pianta, si adacqui il terreno d'intorno con acqua temperata d'egualità,
e nelle possessioni private, e nelle degnità; la quale, io credo che
vietarà, che non ci nascano questi maledetti tarli, che dividono col
morso loro da se stessa l'unita pianta, ed infino alle radici la
consumano, onde poi necessariamente segue la totale ruina sua. Ma se ci
fusse ramo alcuno, che non del commune già detto nutrimento di tutto
l'albero, ma del suo proprio maligno umore si nutrisse, e con quello a
vicini volesse nocere, col ferro bisogna troncarlo, e dalla compagnia de
gli altri totalmente levarnelo. E questo è il timore delle leggi
sacrosante, che noi dicevamo proibire l'essecuzione della malignità ed
amarezza dell'animo di alcuno, di danneggiar altrui. Dell'essecuzione
veramente delle leggi sono amministratori i magistrati ed i giudici, da'
quali poi deriva una lunga schiera di accusatori, di avocati, di
procuratori, di notai, di cursori, di bargelli, di sbirri, e d'altre
simil genti. E tali sono i rimedi contra le inimicizie domestiche
private. Ma quelli che si prendono gli odi et le nemicizie col commune e
con la pace universale di tutta la città, onde ne vengono le risse, le
sedizioni, e le guerre civili, non per altra cagione il fanno, che mossi
e spinti dalla cupidità di regnare. Per non avere, adunque, da temere
de i romori e de' sollevamenti popolari, sia in potere di ogni cittadino
il regnare, over governare la città; che quello è veramente il vero
cittadino, il quale partecipa de gli onori, e dell'amministrazioni
publiche. Ma perché tutti i cittadini ad un tempo medesimo in degnità
non possono esser collocati, è conveniente che ciò facciano a vicenda,
e l'un dopo l'altro sagliano al magistrato. E perché la salute della
republica tutta da i governatori depende, e con la prudenza loro si
salva, però bisogna che coloro, che hanno ad avere il governo della
città, sieno de' piú prudenti e de' piú savi (11). del governo della
città E la prudenza parte è da natura, e parte dall'esperienza. Quella
che è da natura, cosí ne' giovani come ne' vecchi si ritrova; ma
quella che per esperienza s'acquista, ne' vecchi solamente, e di età
provetta, si vede; avendo a loro la lunga età insegnato il maneggio
delle cose del mondo. Deono, adunque, esser eletti al governo della città
i piú vecchi, ed i giovani hanno ad esser governati, acciocché prima
imparino ad essere retti essi che abbiano a reggere altrui; essendo
sopra tutte felice quella Republica, i cui rettori, avanti che
amministrare, hanno bene apparato ad esser amministrati. Cessaranno,
adunque, tutte le discordie e dissenzioni civili, se 'l fuoco dell'ambizion
giovenile sarà dall'acqua della certa speranza di dominare ammorzato. E
queste sono le medicine che purgheranno il corpo della città nostra di
tutti i cattivi umori, che potessero o ad alcun membro particolare, o al
tutto, apportare doglia e passione. Ma come si potrà un nostro
cittadino da un nemico forestiere, nella propria città, diffendere?
Certo con ispaventare colui con la rigorosità delle leggi, contra di
coloro, ch'essendo forestieri, fossero della nostra città arditi di
fare un cosí fatto insulto. Ma la città come potrà da un nemico
esercito guardarsi? Senza dubbio con l'armi; le quali, però, non
combattendo da sé sole, hanno bisogno d'uomini che le maneggino, ne'
quali parimente si ricerca volontà, cuore, e forza di resistere a'
nemici. Il cuore e la forza dalle prime fascie si portano, quantunque
alcuna volta per uso e essercitazione s'accrescano; e ne' giovani, per
la virtú del caldo loro potente, piú gagliardi si veggono. Ma volontà
averanno per l'amore del proprio bene, e del comune della patria;
l'amore del proprio bene istigarà i cittadini a volersi diffendere, se
ciascuno delle possessioni private averà la metà ne i confini del
territorio, e l'altra metà piú vicino alla città; per ciò che molte
volte, colui, che non avesse parte del suo avere a' confini, non si
curerebbe di prestar aiuto a coloro che le avessero; e quelli poi che
l'avessero, spesso spesso, acciocché loro non fossero guaste, s'accorderebbono
coi nemici, dalla quale division de' voleri necessariamente ci
seguirebbe la distruzione universale di tutti. Laddove, se ciascuno
avesse ne' confini a fare, con animo e forze unite al nemico
resisterebbe. La quale unione, perché si faccia e si salvi il tutto,
partisca il legislatore i beni nella predetta guisa. L'amore del commun
bene troverà gli animi disposti all'opporsi alla furia de' nemici, se
tutti i difensori saranno nella medesima patria nati. Per il che la
nostra città non condurrà in sua difensione soldati mercenarii, ma
userà de' suoi propri figliuoli, i quali con piú tenero amore e con piú
accesa voglia, come madre, da ogni offesa esteriore, la guarderanno; e
piú volentieri la vita loro alla morte per sua difesa esporranno. E da
questa necessità nasce l'armato stuolo de' guerrieri, i quali il
terreno d'onde uscirono fino alla morte difiendano, e non come quelli di
Cadmo (12) e di Giasone (13) fra se stessi s'uccidano. E perché talora
questi generosi figli non potessero nel grembo della casa madre da
troppo superiore moltitudine de' nemici esser oppressi, la quale o da
mare o da terra venisse ad assalirli, di mestieri sarebbe che istromenti
avessero da potersi riparare. E però, se da terra l'esercito inimico
venisse, di tre cose bisognerebbe che essi avessero riparo. E prima, per
non lasciarlo alla città appressare, servirà il sito del paese, o
almeno del confine del territorio, montuoso, sassoso, ed aspro e privo
di molta copia di acque, ma di tante solo abbondante che a' bestiami del
luogo fussero assai ed al nemico non bastanti; acciocché difficile
fosse ad un grosso esercito l'entrarvi, e, se entrato vi fosse, che
spinto dalla sete, fosse sforzato a ritornarsi. E se queste cose a
scacciarlo non bastassero, e che ci rimanesse, e s'appressasse alla città,
acciocché non potesse ad un tratto farsene signore bisognerebbe porci
l'ostacolo de' muri, che la furia del nemico ritardasse e ritenesse. E
perché non gli scalasse di leggieri, o in altro modo li superasse, vi
si richiederebbe il cingerli con la fossa. Ma acciocché non fosse in
tutto possibile il batterli, sarebbe ottima cosa edificare la città in
sito tale, che dalla parte della terra avesse un alto precipizio. E se
pure il nemico s'avvicinasse, e tentasse di superare tutte le dificultà,
mestiere sarebbe che i guerrieri di dentro il rigittassero. E ciò in
due modi si può fare: o stando alle mura o uscendo fuora; se stando
alle mura, o lontano, o presso. Di lontano, sarebbero necessarie
l'artiglierie, gli archibusi, le balestre, e gli archi. Al da presso,
verrebbono a proposito l'arme inastate di varia sorte, le spade ed i
pugnali. E perché piú lungamente potessero il nemico offendere,
bisognarebbe che se stessi ancora dalle ferite difendessero. Questo
possono fare con l'arme di dosso, quali sono i corsaletti, l'anime, le
corracine, i giacchi (14), e simili. E queste necessità chiamano nella
città una moltitudine di artigiani, di bombardieri, di balestrieri, di
arcieri, di armaiuoli, e di spadai. Uscendo alla campagna, o escono a
piedi, o a cavallo, e, o dalla lunga gli contrastano, overo di vicino
attaccano la zuffa. Nell'uno e nell'altro modo, si usano le medesime
arme da pedoni, le quali ancora s'usano difendendo le mura. Da'
cavallieri ancora, per la maggior parte, vengono medesimamente adoperate
quelle arme, che da vicino al taglio sono buone. Ed hanno i cavallieri
di piú il cavallo; la cura del quale tira dietro a sé diverse sorti di
artefici, di mariscalchi, di armaiuoli, di sellai, di cozzoni, e di
altri. E questi sono gli uomini e gli istrumenti, che la difesa fanno
contra i nemici di terra. Per mare veramente (perciocché siamo
sforzati, come si vedrà, a fare la nostra città marittima) parte il
sito, e parte gli uomini guarderanno la città; la quale, di sito voglio
che sia alquanto ingolfata, e la bocca del golfo sia ristretta, e
d'ambedue i canti sia edificato un castello, che possa proibire
l'entrata all'armata nemica. La difesa de gli uomini poi sarà, o
rimanendo essi ne' castelli e nella città o difendendo le mura, o
uscendo contra i nemici. E questo nel mare non si può fare con altro
che con le navi e con le galee; al remo delle quali saranno buoni i
contadini a ciò destinati. Per la fabrica delle navi e delle galee la
città sarà fornita di navaiuoli, di remai, di cordaiuoli, di telaiuoli,
e d'altri simili artigiani, da' quali l'armata all'ordine si possa
mettere. E 'l territorio sarà abbondante di legnami, atti a fare i
fusti di tale armata. E perché nelle guerre (e massimamente quando a
lungo durano) e in altre opere ed edificii publichi si fanno delle spese
e ci vanno de' dinari assai, i quali dal territorio solo e dal poderi no
nsi possono cavare a sofficienza, è bene che nella città ci sieno
delle persone, che si diano all'esercizio del traficare e del
mercatantare per il privato, e che da questo il publico, con le gabelle
e con le giuste esazioni, si accresca in dinari, per potersi poi a
bisogni mantenere nelle spese. Ed a nessuno è nascosto, che la
mercatanzia piú vale per mare e piú facilmente si essercita, che per
terra non si fa. Laonde, a maggior commodità de' nostri mercatanti,
porremo la nostra città sulla marina; dentro la quale saranno disposti,
in parte opportuna, i luoghi de' mercatanti, come sono piazze, mercati,
banchi, fondachi e botteghe. Le quali cose non solamente sono
necessarie, ma porgono ancora molto d'ornamento alla città. E con ciò
sia cosa che si fissa naturalmente ne gli animi nostri la religione, che
non si trovò mai uomo alcuno, che non si avesse alcuna cosa, o per
legge o per elezione propria, fatto Dio, e quella non venerasse; a tale
che si può con verità dire che non meno è propria all'uomo la
religione, che si sia l'inclinazione e l'amor naturale del vivere in
compagnia; però bisogna che a satisfazione de tutti gli animi de'
cittadini ci sieno nella città persone che insegnino le leggi divine,
trattino i misteri e con i sacrifici ne facciano benigni e placabili i
Dei. E perciò sieno dal publico edificati tempii e chiese, dove il
culto a Dio si possa rendere. Ora da tutto 'l precedente discorso
facilmente si può sottrarre, che alla costituzione di una città beata,
sei maniere d'uomini si ricerchino. E prima i contadini, i quali ci
vadino inanzi spianando ed acconciando la via, che ci meni all'acque del
sopradetto felice gorgo. I secondo sono gli artefici, che ci fabricano e
cocchi e carette; che ci governano cavalli e mule, sopra a' quali, con
molto meno fatica nostra, ci conduciamo al rivo. I terzi sono i
mercatanti, che con l'industria loro ci alleviano il camino, e con
l'opre loro spesso ne' bisogni ci aiutano. Appresso a questi sono i
guerrieri, che nei pericoli, con la vita propria, guardano la vita di
tutti gli altri. E doppo loro sono i magistrati ed i guidatori di cosí
numerosa moltitudine caminante verso le felici acque del celeste gorgo.
Nel sesto luogo sono i sacerdoti, i quali con le loro orazioni
adoperano, che col favore e con la grazia divina esca questo popolo
della solitudine e del deserto, e pervenga alla terra, piena di
quell'acque, che sono, piú assai che 'l latte e che 'l melle, saporite
e soavi. Queste sei predette maniere d'uomini, che di compagnia si
misero a sí faticoso camino, beerannoo elleno tutte dell'acque
sopracelesti? Certo tutte quelle saranno dell'acque saziate e felici, a
cui converrà la diffinizione della felicità; alla quale, per prima,
non aggiunge la turba de' contadini, i quali tutto che possano infino
alla vecchiaia vivere, non sono però privi di molti impedimenti; anzi
tutta la vita loro spendono in affaticarsi, per far vivere e sé e gli
altri; per i quali impedimenti non possono acquistarsi l'operazione e
gli abiti delle virtú, le quali sono quell'ultimo passo, che ci fanno
alla beatitudine arrivare. Per la ragione medesima, neanco gli artefici
saranno del numero de' beati, stando essi tutta la vita loro discomodi
ed occupati, per accomodare e disoccupar altrui; il che loro cosí
stanca e rende fiacchi, che non hanno poi forze di salire l'erto e
faticoso monte della virtú. La schiera de' mercatanti parimente,
menando tutta la vita loro per i perigliosi travagli dell'instabil mare,
lasciano di ascendere il sicuro ed immobil monte, nella cui cima ha il
suo paradiso e le sue delizie la felicità; delle quali, queste tre
ragioni d'uomini sono digiuni ed isbanditi. Gli altri tre ordini, cioè
i guerrieri, i governatori, ed i sacerdoti, possono lungamente vivere,
essendo loro amministrate le cose necessarie dalli tre ordini antedetti,
sí, che con la mente quieta e senza ansietà di procacciarsi il vitto,
possono donare tutto l'animo alle virtú e civili e contemplaive. Laonde,
volendo noi instituire una città beata, i tre primi faticosi ordini non
possendo vestirsi la veste nuziale e sedere insieme a mensa con i
vestiti, non saranno da annoverare tra i convitati. Ma serviranno a
questo convito gli uni come cuochi, gli altri come apportatori di
vivande, e i terzi come servitori di coltello e di coppa. Le mie parole
suonano, che l'ordine de' contadini, degli artigiani e de' mercatanti
non possendo per le predette ragioni esser beati, non intreranno in
parte della città beata; e per conseguente non goderanno di tutti i
privilegi di lei, e per ciò non saranno da chiamar cittadini; perocché,
soli cittadini si deono intendere veramente esser coloro, che sederanno
alle predette nozze. E perciò le preminenze, gli agi, le comodità,
saranno tutte loro, ed il servizio, gli stenti, e le fatiche saranno
tutte di quegli altri. E se pure volessero alcuni, non possendo la città
stare senza costoro, chiamarli parti di lei, io loro concederò
volentieri questo nome, intendendo, però, che tale abbiano parte, in
quella, quale in una casa privata ha il lavoratore de' terreni, il
servitore, ed il maestro di casa, lasciando il luogo del padre di
famiglia, della madre, e de' figliuoli, a' sacerdoti, a' magistrati, e
a' guerrieri. Ed in somma dirò la nostra città avere due parti, l'una
servile e misera, l'altra signora e beata; e questa propriamente
chiamarsi cittadina, come quella che negli onori e nelle preminenze
della republica ha mano e ne è padrona. Ora delle tre parti, che noi
vedemmo avere la diffinizione della felicità, dell'ultime due solamente
sino a qui si è ragionato, cioè delle cose, con le quali la vita
nostra lungamente si mantiene; e di quelle che in agio, e senza
impedimento veruno, la ci fanno menare. Ora alla terza veniamo, e
veggiamo come il cittadino possa farsi, nelle virtú morali ed
intellettuali, eccellente tanto, che possa per aiuto di quelle esser
felice, e bere dell'acque del celeste gorgo. Consistendo, adunque, la
felicità, per la miglior parte e compimento suo, nell'operazioni della
virtú, bisogna, se i nostri cittadini vogliono esser beati, che sieno
in prima virtuosi. E all'acquisto della virtú si richieggono
necessariamente tre mezzi; quello della natura, perciò che è di
mestieri che la natura uomo primieramente mi faccia capace della virtú.
Il secondo è quello della consuetudine, la quale indirizzata dalla
ragione, mi lavi gli affetti dell'animo, delle immondizie, degli
appetiti vili e disonesti. Il terzo mezzo è quello della ragione,
perciocché oltre la usanza, spesse volte la ragione persuade alcune
cose, che sono migliori di quelle, che si fanno per lungo, ed osservato
costume. Il primo è tutto della natura, il secondo poi è tutto del
latore delle leggi. E nel terzo hanno mano ambedue. Perciocché la bontà
della ragione parte è dono di natura e parte viene dall'abito
acquistato dalle scienze ordinate dal legislatore; il quale, se brama il
suo popolo a felicità condurre, è necessario, che egli risguardi
all'anima umana e conosca che ella ha una parte, che è da se stessa
ragionevole; e sappia di questa stessa una parte esser pratica e l'altra
specolativa; e di quella, che è di sua natura priva di ragione, esserci
una particella atta ad obbedire a lei, nella quale stanno tutti gli
affetti umani. Ed oltre a ciò, ponga mente alla qualità delle cose
mondane e vegga che altre sono necessarie, altre utili, ed altre oneste;
ed abbia riguardo a gli stati, ne' quali continuamente si rivolge la
vita nostra e quegli essere o ozio o negozio o pace o guerra. E dovendo
egli, secondo il presupposto, porre i suoi cittadini in felicità, la
quale è sommo nostro bene, è convenevol cosa che egli di tutte le
dette cose elegga le migliori, ed in quelle ponga il suo fine e il suo
riposo. Non lasciando però l'altre, ma per quelle passando di grado in
grado all'ottime e perfettissime saglia. Delle potenze dell'anima,
adunque, la piú prestante e sublime è la specolativa; però bisogna
ch'egli si fermi in questa; avendo prima i suoi cittadini essercitato, e
nell'attive, ed in quella dove hanno letto tutti gli affetti dell'animo
nostro. Nella qualità delle cose ancora abbia riguardo di indirizzare
per leggi e per consuetudine il suo popolo, validando per le necessarie
e utili all'oneste, le quali sono nel piú alto e rilevato luogo poste.
Negli stati della vita, similmente, gli instruisca principalmente
all'ozio ed alla pace, come a stati migliori; non lasciando, però, di
usarli alle faccende ed alla guerra; acciocché, secondo i bisogni,
possano pigliar guerra ed occupazioni, per guadagnare, finalmente, la
pace ed il riposo. Per la qual cosa gli assuefarà, piuttosto nelle cose
oneste, che nell'utili; e piú nelle virtú, che sono proprie della
pace, che in quelle della guerra; e piú tosto in quelle che vagliono in
ambedue gli stati, come è la prudenza, la giustizia, e la temperanza e
simili, che in quelle di un solo, ed ami piú di fargli specolativi che
prattici. E secondo che l'uomo è due, corpo ed anima, cosí è l'anima
ancora due, razionale e irrazionale; e come il corpo è fatto per
l'anima ed è di tempo primiero di lei, cosí la irrazionale, che è col
corpo mista, serve alla ragionevole, e prima si mette in opra, che non
fa la ragionevole, la quale è l'ultima perfezione dell'uomo. Però
consentanea cosa è che 'l latore delle leggi, in quanto può, abbia, in
prima, cura del corpo de' suoi cittadini, e poi dell'anima (15). Il
corpo ha principio dalla generazione. E da questa cominciarà egli ad
averne cura. E con ciò sia cosa, che i figliuoli, che alla luce
vengono, di padre e di madre escono, dovere è che il legislatore di
questi primieramente si pigli pensiero, perciò che, concorrendo al
generamento del figliuolo, dal padre il seme e dalla madre, secondo i
medici, il seme ed il sangue, per la sanità e robustezza dei generati,
bisogna che sano e caldo in eccesso, anziché no, sia il seme di ambedue
ed il sangue della donna. Essendo che quale è la cagione, tale è
parimente l'effetto che da quella ne viene. Sano sarà il seme, se da
corpo sano verrà; robusto simigliantemente, se da robusto; e robusto è
allora, che è nello stato suo naturale, piú caldo che egli possa
essere, e questo è quando l'uomo si trova nello stato e nel fiore della
sua età, che è nel maschio da trentacinque anni infino a quarantanove,
e nella femina dagli diciotto fino a quaranta. E quantunque le donne
sieno possenti alla generazione da quattordici infino a cinquanta,
nondimeno il seme ed il sangue inanzi a diciotto, per la tenerezza
dell'età, è molto debile ed umido; e doppo i quaranta assai si
raffredda. E cosí nell'uomo al detto tempo migliore è il seme, che
nell'età che precede o che segue. Quantunque anch'egli, da quattordici
per infino a settanta, sia atto al generare (16). Però di tanta età,
fra loro si maritino gli uomini e le donne della nostra republica; e si
congiungano insieme all'atto generativo, per la medesima cagione, in
quel tempo particolare, che il calor naturale non sia debilitato, come
è la state; ma forte ristretto, come il verno; e quando egli non è
occupato in altre operazioni, come è quando ha fornita la prima
digestione; perciocché operando in quella, può meno ad altro
attendere, sí come poi che le ha finite tutte e tre è troppo fiacco,
per essere già il corpo famelico e voto l'umido dei vasi, nel quale il
calore, come in proprio letto, si riposa e conserva. Ed essendo il
nutrimento una restaurazione della sostanza nostra, che dal caldo è
consumata, e nutrendosi doppo il concetto l'embrione del medesimo
nutrimento che la madre, ella per legge stia molto regolata di bocca, e
mangi cose che non nuocere, ma giovare ed alla sanità ed alla fortezza
de' membri del figliuolino possano. Tali sono per lo piú l'umide e
calde e di leggier concozione (17) e di molto nutrimento. E dovendo,
come dicemmo, il figliuolo, e per propria felicità e per i servigi
della republica, nascere sano e robusto, ed ambedue questi effetti dal
naturale e forte caldo procedendo, non dee la madre, di lei nutrendosi
il figliuolo, diminuire il proprio suo valore, né accrescerlo ad
eccesso, e però non deve debilitarlo con lo stare melanconica ed
oziosa, né rinforzarlo troppo col fare troppa fatica; ma comandi per
legge il legislatore alle gravide, che spesso spesso visitino le chiese;
che è un esercizio, in cui non cadono troppi piegamenti di corpo, che
nocere possano al concetto fanciullo; ed il quale fa accrescere la
religione e la divozione verso Dio; senza la cui grazia niuna cosa è
buona; ed oltre dà occasione, questo esercizio, alle donne, veggendo
questa cosa e quella della città, di discacciare i noiosi pensieri e di
stare allegre. Dopo il parto, delle cose necessarie si dia nutrimento al
fanciullo, in modo che il tenero suo corpicello non sia offeso; e questo
avverrà, se il cibo gli si darà molle, e tale, che sia di facile
digestione; e a ciò meglio non si può trovare, che il latte. Tra le
utili cose alla vita, alla sanità ed alla fortezza sono quelle, che
conservano e vivace mantengono il calore; tali sono il far partire
mediocre freddo al fanciullo, perciocché il caldo, dal suo contrario
combattuto, mette in opra con maggior forza la virtú sua, e non si
lascia dall'ozio illanguidire; il pianto ancora lo essercita molto. E
questi predetti modi si tenghino in governarlo in fino al tempo di
cinque anni, e di qui, insino a sette, per legge, si assuefacci il
fanciullo di odire e vedere quelle cose, che alla perfezione del corpo e
dell'animo si richieggono. Al corpo si richieggono gli essercizi, a fine
di che sieno giuochi nella città ordinati, dove i cittadini, secondo
gli ordini dell'età., si essercitino; e sieno giuochi tutti da uomo
libero e, come diciamo oggidí, da gentiluomo. E tali seranno tutti
quelli che non renderanno il corpo disadatto all'operazione della virtú.
Questo è quanto il legislatore, con ordinare le consuetudini, può al
corpo giovare. All'anima parimente può giovare e menarla a compimento,
o serrandole il camino, che al vizio la trabocca, o spronandola ad
intrare l'erta dell'aspro monte, nella cui cima la virtú tiene il
paradiso delle sue delizie. Le chiude le vie del vizio ogni volta che
con timore di gran pena sbandisce a' fanciulli il vedere e l'odire le
cose viziose e disoneste. E perciò dal vedere le pitture lascive e
dall'odire le comedie ed altri simili poemi, e molto piú dal recitarli,
gli ritragga; acciocché il semplice e puro animo loro non rimanga
impresso di cosí brutta e dannevole stampa; la quale, per essere stata
la prima, non si possa giamai d'indi levare; punendo publicamente o ne'
conviti, o nelle piazze, o con ingiuriose parole, o con bachettate
coloro, che essendo d'età virile, avessero in presenza de' fanciulli o
detto o fatto qualche disonestà, od altra cosa meno che lodevole, e che
potesse l'animo loro contaminare. Gli spronarà poi all'entrare nella
strada della virtú, col timore della pena del vizio, e con la speranza
di quel glorioso premio, che la virtú suol dare a quelli che al suo
paradiso son pervenuti; e questo è quel sommo piacere e quel sommo
contento che in questa vita si puot'avere. E perché i fanciulli, per la
debolezza dell'ingegno, non possono, né la pena, né 'l premio,
perfettamente intendere, statuisca il legislatore luoghi publichi, dove
essi sieno ammaestrati ed istruiti nelle virtú morali, con i precetti e
con gli esempi, i quali facendo impressione in quel tenero animo, tutto
lo formino, e della lor imagine lo stampino di maniera che difficilmente
ella si possa piú quindi scancellare. E questo è quanto appartiene
alle virtú morali. Per le intellettuali ancora è da sapere, che
cominciando ogni nostra cognizione dal senso, o da gli assiomi insieme
con l'anima nostra nati, si apre la via alla specolazione, o col odire o
col vedere (sensi di tutti gli altri nobilissimi, perciocché gli altri,
piú al corpo, che all'anima sono obbligati) o col intendere; col odire,
sentendo musica, dalla cui soavità tirata l'anima, si leva in desiderio
di conoscere le cagioni, e vicine e lontane, di tanta melodia; dal
vedere, parimente, le belle creature, le nasce un desiderio di sapere
come sieno poste insieme le parti, d'onde sorga tanta bellezza, e chi ne
sia il fabricatore. E perciò ponga legge il legislatore, per infondere
cotal desiderio nei petti dei fanciulli che publicamente sia loro
insegnata la musica e la pittura. E cosí come questi due sensi
rappresentano le imagini loro all'intelletto, da cui a compimento poi si
riducono, cosí la filosofia, in cui l'intelletto spiega l'ali delle sue
forze, mena a perfezione il desiderio, che dalla musica e dal bello era
nell'animo dell'uomo nato. La quale, essendo oggidí ne' libri riposta,
di quivi meglio, che d'altronde, potranno i nostri fanciulli imparare.
Il che dovendo fare è necessario che essi sappino di grammatica. La
quale, alle predette due, si aggiunga da esser apparate dai fanciulli.
Oltre la necessità, dico, che ha l'anima di queste tre cose ridursi a
perfezione, elle sono in molte cose, e publiche e private, molto utili
ancora, perciocché la pittura può servire a molti disegni alla città
ed a ciascun privato importanti. Della grammatica in molte occorrenze, e
particolari e communi, fa bisogno; come nelle trattazioni delle leggi,
degli avisi per lettere ed altre. La musica parimente giova molto, ad
incitare, ad acquetare, e ad assettare l'animo nostro. Perciocché la
musica Frigia ci riscalda l'animo e ci empie di furore; la Lidia ce lo
fa tranquillo e rimesso; la Doria che lo acconcia in un mezzano stato;
la Hipolidia (18), poi, ce lo fa mesto e lamentevole. E, se bene queste
musiche oggidí non sono da noi conosciute, nondimeno le nostre possono
anch'elle molto (come tutto dí si prova) movere l'animo nostro. E sono
alcune, che con gli effetti all'antiche alquanto s'assimigliano: le
Francesi alla Frigia, le Napoletane alla Lidia, le Lombarde alla Doria.
Ma essendo sempre il mezzo da preporre alli suoi estremi, per esser in
quello collocata la virtú, meglio sarebbe che i fanciulli nella Doria,
o in sua vece nella Lombarda, che sta di tutte nel mezzo, primieramente
l'abito facessero, per fermare l'animo in quel mezzano stato. Oltre a ciò,
essendo la felicità sommo nostro bene ed ogni bene cagionando in noi
letizia e gioia, la felicità parimente non in doglia e tristezza ci
terrà, ma allegri e gioiosi. Alla quale cosa ottimo istrumento sarà la
musica; e però tra i già beati, che non sono i fanciulli, buono sarà,
se tutte le sorti di musica si adopereranno: e ne' conviti e feste
publiche e nelle camere private. Se tale sarà la nostra città, quale
descritta l'abbiamo, abbondantissimamente si potrà trar la sete e
saziarsi dell'acque che dal beato gorgo sopra lei caderanno. La quale in
grandissima altezza, fra tutte l'altre città del mondo levata, ed in
cospetto di tutte posta, sarà da loro venerata ed adorata e pregata, a
degnarsi d'intingere il dito suo nell'acque salutifere del suo felice
rivo e di bagnare, in refrigerio delle miserie loro, con una stilla la
bocca loro, arsa ed assetata.
(Francesco
Patrizi, La città felice )
|
http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaP/patrizi1.htm |
FRANCESCO PATRIZI
Francesco Patrizi o de Pretis, nacque a Cherso nel 1529. Dopo aver
studiato nella sua città natale con Petruccio da Bologna, percorse gli
studi universitari a Padova, e fra gli studenti fu presidente della
Congrega dei Dalmati. Non tardò a farsi notare e a Padova ed a Venezia
dove nel 1553 pubblicò una raccolta di studi: Città felice; Dialogo
dell'Honore; Il Bargnani; Discorso sulla diversità dei
furori poetici; Lettere sopra un sonetto di Petrarca. Tornò a
Cherso e, dopo poco, ripartì per Venezia e Ferrara. Divenne amico di
Alfonso d'Este, di Scipione Gonzaga, di Agostino Valerio, di Girolamo
della Rovere, del cardinale Ippolito Aldobrandini, e di altre eminenti
personalità. Viaggiò molto. Percorse l'Italia e la Spagna. Si recò
alcune volte in Oriente e, nel 1571, si trovava a Cipro quando la città
dovette soccombere all'assalto dei Turchi. Nel 1578 venne chiamato
all'Università di Ferrara, incarico che ricoprì sino al 1592, quando il
cardinale Aldobrandini lo invitò a trasferirsi a Roma per assumere la
cattedra di filosofia alla "Sapienza". Il cardinale, una volta
divenuto Papa con il nome di Clemente VIII, continuò sempre ad onorarlo.
Patrizi morì a Roma nel 1597, e venne sepolto a Sant'Onofrio nella stessa
tomba del Tasso. Patrizi fu una delle figure più significative
dell'Italia intellettuale del XVI secolo, una delle menti più vaste e più
dotte che l'abbiano onorata. Egli estese i propri interessi in tutti i
campi della conoscenza e volle fare della filosofia la sintesi del sapere.
La sua opera, amplissima, abbraccia la letteratura, l'arte, la critica, la
storia, la scienza, l'arte militare, la filosofia.
Fu anche poeta, ma non ebbe molto successo. Volendo innovare anche in
questo campo, nel 1558 pubblicò un poema, Eridano, scritto in nuovi versi
"eroici" di tredici sillabe. Nel 1560 apparvero i dieci suoi
dialoghi Della Historia, e nel 1562 altri dieci Della Retorica.
Poi si applicò alla filosofia, pubblicando nel 1581 le Discussioni
peripatetiche. Due anni più tardi, seguendo forse l'esempio del
Machiavelli, ma certamente per amore dell'Italia, con la sua Milizia
Romana di Polibio, di Tito Livio e di Dionigi di Alicarnasso, affrontò
una questione completamente diversa.
A Ferrara proseguì negli studi letterari e di filosofia, partecipando al
vasto movimento intellettuale italiano ed alle diverse controversie
accademiche. Nel 1585 pubblicò un Parere in difesa di Ludovico Ariosto
e l'anno successivo tornò ad interessarsi di poesia pubblicando: Della
Poetica-La Deca historiale e Della Poetica-La Deca disputata.
Successivamente tornò ad occuparsi di scienze. Nel 1587 pubblicò la Nuova
geometria dedicata a Carlo Emanuele di Savoia, e la Philosophia de
rerum natura, che sollevarono il più grande interesse. Poco prima di
partire per Roma scrisse la sua più importante opera filosofica, Nova
de Universis Philosophia, salutata al suo apparire - 1591 - come la
creazione di un genio, ma respinta e stigmatizzata dalle autorità
ecclesiastiche. Fra le altre sue opere principali vanno anche citati i Paralleli
militari, apparsi nel 1594. Patrizi appartenne a quella "élite"
di italiani per i quali gli orizzonti erano sempre troppo ristretti, e
troppo limitati i campi aperti alle loro attività. Essi tendevano ad
elevarsi sino ai vertici del sapere umano per conseguire una più ampia
visione del loro molteplice lavoro. Nel 1578 si occupò anche di opere
idrauliche, e presentò al Bentivoglio uno studio per separare le acque
del Reno da quelle del Po. Nello stesso tempo approfondì la musica
teorica e, in merito alla musica greca - come gli riconobbe Zenatti nella
sua opera Francesco Patrizi, Orazio, Ariosto e Torquato Tasso - scrisse
"meglio di Galileo, di Gaffuri e Valgurio". Tentò tutte le
strade del sapere, avido di percorrere quelle che non erano state ancora
battute. Cercò di riformare la filosofia e la matematica, la poesia e la
storia, la botanica, la fisica, e l'arte della guerra. Fornì importanti
contributi allo studio dei fenomeni naturali. Gli si attribuisce il merito
di averli per primo osservati con una penetrante originalità, ed è
considerato un innovatore nello studio della luce, in quello del flusso e
del reflusso delle acque, nella teoria del movimento della terra, nella
ricerca del sistema riproduttivo delle piante. Di grandissima importanza
la sua Nova de Universis Philosophia (1591), elaborata per
combattere l'aristotelismo e la scolastica, per affermare nella sua
pienezza il platonismo. È uno di quei lavori che si collocano alla soglia
dei tempi moderni e che, chiudendo con il passato, segnano un momento
luminoso nella storia della civiltà italiana. È la prima grande opera
che precede il glorioso rinnovamento della scienza italiana che si realizzò
al tempo di Galileo e continuò nel secolo XVII. Questa opera, tormentata
e non usuale, divisa in quattro parti, "Panaugia" o della luce;
"Panarchia" o del principio delle cose; "Pampsichya" o
dell'anima; "Pancosmia" o del mondo, conserva ancora oggi la sua
grandiosa architettura ed egli, negli spazi ancora oscuri per la sua
epoca, fa apparire splendidi squarci di luce. Si può ben dire che il
neoplatonismo che rinnoverà l'Italia trova la sua forza principale in
Patrizi. Già ai suoi tempi, Francesco Patrizi, venne onorato come un
grande Italiano. Secondo il Rossi, un biografo del XVII secolo, fu il più
dotto di tutti gli italiani della sua epoca.
Scriveva volutamente in italiano i dialoghi sull'arte Della Poetica per
cooperare al trionfo di questa lingua sul latino. E nella prefazione
sostiene la prevalenza del "volgare" rispetto all'esclusivismo
della lingua dotta e latina degli umanisti. Posizione culturale che gli
procurò un onore al quale teneva molto: far parte dell'Accademia della
Crusca dove entrò nel 1587. Le desolanti condizioni nelle quali, allora,
si trovava l'Italia, sotto il giogo di tanti stranieri, incapace di
sollevarsi e di prendere con la forza delle armi il proprio posto di
nazione viva e potente, angustiava Patrizi al pari di Machiavelli, di
Guicciardini, del Castiglione, e di altri scrittori italiani del
Cinquecento. Scrisse i suoi lavori sull'esercito romano e sull'arte
militare pur sapendo di avventurarsi in un campo dove non era competente,
ma sperava che l'Italia, apprendendo l'esercizio delle armi e seguendo
l'esempio degli antichi, potesse tornare quello che era stata durante
l'epoca romana: libera e grande.
http://www.filosofico.net/patrizifrancesco.htm |
|