INDICE
Introduzione
p. 2
Capitolo I
Ricostruzione della vicenda
1.1 Il
quadro storico dell’Italia nel 1944 p.
4
1.2 I
presagi della tragedia
p. 7
1.3 La
sciagura dell’8017
p. 12
1.4 Le
testimonianze: contributi preziosi per la
ricostruzione dell’evento
p. 25
1.5 La
questione del carbone
p. 38
Capitolo
II
L’inchiesta, la burocrazia e il risalto mediatico
2.1 L’inchiesta
p. 42
2.2 Come
la burocrazia ha “ostacolato” la ricerca della verità p. 47
2.3 L’eco
mediatica della tragedia
p. 55
Capitolo
III
Dopo la
tragedia, l’oblio. Dopo l’oblio, la memoria
3.1 La
rimozione
p.
63
3.2 I
custodi del ricordo
p. 66
3.3 La
memoria
p.
77
Conclusioni
p. 80
Appendice
- Le testimonianze
p. 83
Bibliografia
p. 111
INTRODUZIONE
Nella notte del 3 marzo 1944 Balvano, un tranquillo paesino al confine
tra Basilicata e Campania, divenne teatro della più grave tragedia
ferroviara italiana, forse d’Europa. Fu una tragedia senza colpevoli
accertati, nella quale morirono più di seicento persone all’interno
della Galleria delle Armi. Ma questa tragedia, a differenza di altre, è
pressoché sconosciuta.
Dopo aver delineato brevemente il quadro storico circa la situazione
italiana del tempo si cercherà di ricostruire l’episodio avvalendosi
prevalentemente dei giornali dell'epoca, delle varie ricostruzioni e
studi finora realizzati, del pochissimo materiale ufficiale ancora
presente e delle testimonianze che sono state raccolte tra testimoni e
superstiti. Purtroppo il quadro non risulta ben chiaro in quanto le
fonti analizzate forniscono dati e versioni discordanti, rendendo
ulteriormente complicata una ricostruzione dettagliata e veritiera.
Nel proseguo della trattazione si mettono in evidenza tutti i fattori
che hanno contribuito, nelle varie fasi storiche, al ricordo e alla
dimenticanza e che si sono alternati senza però giungere a far chiarezza
sull’accaduto e sulle effettive responsabilità. Si vogliono, inoltre,
ricordare tutte le persone che, nonostante l'inerzia delle istituzioni,
non si dettero per vinte e che ancora oggi portano avanti la memoria di
quel tragico evento, memoria che la popolazione di Balvano ha, con
sensibilità e impegno, conservato e tramandato.
Ai fini dello studio della tragedia e per una maggiore comprensione dei
suoi vari aspetti sono state raccolte delle interviste ad alcuni dei
protagonisti.
Le commemorazioni di quel funesto 1944 hanno risvegliato un senso di
sgomento, anche nelle generazioni successive, rispetto all'indifferenza
e all'alone di mistero che ancora circondano questo evento.
.
CAPITOLO I
RICOSTRUZIONE DELLA VICENDA
1.1 IL QUADRO STORICO DELL’ITALIA NEL 1944
Il ‘900 è stato un secolo tragico sotto molti punti di vista: il secolo
breve è stato il secolo delle guerre, dei totalitarismi, dei genocidi.
Nell'anno 1944, forse il peggior anno della storia dell'Italia
post-unitaria, non esisteva neanche l'Italia: esistevano due nazioni
nelle quali, dietro governi formalmente italiani, in realtà agivano e
comandavano eserciti e nazioni straniere. Nell'Italia meridionale c'era
il regno del sud di Vittorio Emanuele III e del suo capo di governo
Pietro Badoglio, che tentavano di dare una continuità istituzionale al
Regno d'Italia dopo la fuga del 9 settembre a Brindisi. Nell'Italia
settentrionale invece c'era la Repubblica Sociale di Benito Mussolini,
alleata con i nazisti di Hitler.
La popolazione era stremata dalla fame, i servizi pubblici erano
pressoché inesistenti o di scarsissima fruibilità e per sopravvivere si
era disposti praticamente a tutto.
Dalla zona del napoletano e anche dalla provincia di Salerno, persone
con ogni mezzo di trasporto, preferibilmente assaltando i treni, anche
quelli merci, si recavano negli agri della Calabria, della Basilicata e
della Puglia, in cerca di generi alimentari. Con l'arrivo degli Alleati questa
forma di commercio
rappresentava un vero e proprio mercato
di emergenza o sussistenza
che, in realtà, ebbe molta fortuna
perché nella zona di Napoli era facile approvvigionarsi, in maniera
anche illecita, di materiali di ogni genere che poi venivano barattati
con i generi alimentari della zona della Basilicata, della Puglia e
della Calabria. Infatti le popolazioni delle zone agricole erano
disposte a scambiare olio, farina, formaggi, uova (le
olive nere a Salerno costavano 30 lire al chilo a “borsa nera”, mentre a
Ferrandina si potevano acquistare per sole 8 lire)
in cambio di tessuti, utensili, talvolta anche denaro. Questo è il
motivo per cui centinaia di persone partirono dalla stazione di Napoli
con un treno merci nonostante il controllo delle forze dell'ordine.
I
servizi pubblici erano molto carenti, soprattutto i trasporti che
essendo controllati dagli alleati dovevano servire principalmente agli
scopi bellici.
Il treno 8017 era un convoglio straordinario (indicato dal numero 8),
ossia non viaggiava con regolarità, e
l’ultima cifra dispari indica che viaggiava da Ovest verso Est
ovvero da Napoli a Bari. In genere l’8017 effettuava due corse a
settimana, era considerato un treno merci ma disponeva anche di “carri
attrezzati”, forniti di panche, in cui potevano viaggiare passeggeri
regolari muniti sia di biglietto che di una speciale autorizzazione
rilasciata dalle autorità alleate.
Così che i passeggeri non muniti del titolo di viaggio (o abusivi)
erano costretti a prendere d’assedio ogni convoglio, scontrandosi con il
personale di scorta e sistemandosi in ogni posto dove fosse loro
possibile, rischiando enormemente la propria incolumità. All’arrivo in
ogni stazione si poteva assistere a scene drammatiche: centinaia di
persone si fiondavano sui vagoni con i propri fagotti, di sera stavano
appostati nel buio lontano dalle stazioni, per evitare i controlli
pronti a sfruttare ogni minimo rallentamento.
1.2 I PRESAGI DELLA TRAGEDIA
Talvolta si ha l’impressione che il destino cerchi di rendere chiare
agli uomini le proprie intenzioni. La più grave tragedia ferroviaria
d’Italia ebbe, dal canto suo, più di un cenno premonitore che avrebbe
dovuto non solo far presagire la tragedia imminente, ma avrebbe potuto
addirittura sventarla.
Il primo presagio fu carico di dolore: l’8 febbraio 1944, in una
galleria sulla tratta Baragiano-Tito, immediatamente successiva a quella
della successiva tragedia e con pendenze superiori al 22‰, un treno
dell'autorità militare statunitense aveva subito un incidente simile, in
cui il personale era rimasto intossicato dai gas di combustione del
carbone di scarsa qualità. Il macchinista Vincenzo Abbate era svenuto ed
era rimasto schiacciato tra la motrice e il tender. A seguito di questo
evento era stato disposto il limite di 350 tonnellate per ogni
locomotiva e l'utilizzo di locomotori diesel-elettrici americani nei
casi di doppia trazione, con eventualmente una locomotiva a vapore
italiana posta in coda e invertita per scaricare con il fumaiolo in
coda. Venne stabilito a Battipaglia il punto di applicazione di queste
normative, per evitare di dover compiere operazioni di separazione sulla
linea montana. Questi limiti rimasero per molto tempo in vigore, fino al
1996, quando la linea Battipaglia-Metaponto venne tutta elettrificata.
Inoltre nell'uscita sud della Galleria delle Armi fu istituito un posto
di guardia in cui l'operatore ad ogni passaggio di treno doveva
avvertire telefonicamente la stazione di Balvano “quando
poteva vedere la luce in fondo”,
ossia quando nella galleria non vi erano più gas di scarico.
Queste disposizioni rimasero in vigore fino al 1959,
quando su questa linea vennero vietate le locomotive a vapore.
Un altro presagio si presentò sotto forma di una lettera indirizzata ai
capi compartimento delle Ferrovie dello Stato di Napoli, Bari e Reggio
Calabria e, per conoscenza, al Gabinetto della Presidenza del Consiglio
dei Ministri e a vari Ministeri. Lo scrivente era Giovanni Di Raimondo,
sottosegretario di Stato alle Comunicazioni per le ferrovie, la
Motorizzazione civile e i Trasposti in concessione: nella sua accorata
missiva sottolineava come il treno bisettimanale per viaggiatori civili
Bari-Napoli via Potenza fosse insufficiente rispetto alle esigenze della
numerosa popolazione delle regioni attraversate. Di Raimondo poneva
l’accento sul fatto che nelle numerose stazioni toccate dal treno erano
in attesa folle provenienti non solo da Puglia e Campania, ma anche da
Sicilia e Calabria, auspicando una elevazione delle corse del treno, se
non giornalmente, almeno per tre volte a settimana, in quanto tale
affollamento era anche la causa della non regolare marcia dei treni. Le
richieste di Di Raimondo, però, furono disattese dalla Direzione
Generale del Servizio Ferroviario Militare per le Forze Armate Alleate
per esigenze militari che imponevano di mantenere al minimo (nel caso di
specie, 600 viaggiatori per ciascuna corsa) i viaggi dei civili. La
Direzione Generale del Servizio Ferroviario Militare per le Forze Armate
Alleate, inoltre, sottolineò formalmente come la sorveglianza sul treno
relativo alla tratta Bari-Napoli via Potenza fosse una responsabilità
delle Ferrovie e del Governo italiano.
Ma a presagio si aggiunge presagio: il commissario compartimentale di
Polizia di Bari, Buono, scrisse alle Regie Questure di Brindisi,
Taranto, Matera e Potenza e al Commissariato compartimentale di Polizia
di Napoli per segnalare come il treno Bari-Napoli via Potenza fosse
preso d’assalto da numerosi viaggiatori clandestini e paventando un “possibile
nocumento all’ordine pubblico e all’incolumità delle persone”;
inoltre chiese di disporre necessari
servizi negli scali più importanti al passaggio del treno, allo scopo di
consentire l’accesso solo ai passeggeri in possesso dell’autorizzazione
delle Autorità alleate e del biglietto ferroviario. Proprio la questione
dei passeggeri clandestini aveva tenuto banco, sin dal mese di gennaio
del 1944, in relazione alla necessità di rafforzare il servizio di
vigilanza per eliminare gli abusi ed assicurare un regolare servizio.
Purtroppo non era agevole il controllo dei viaggiatori in quanto, in un
periodo difficile come quello successivo all’armistizio, viaggi come
quelli intrapresi sulla tratta tra Napoli e Bari erano l’unico modo che
molte famiglie avevano per procurarsi il necessario per sopravvivere,
così come afferma, a conclusione della sua relazione, Di Raimondo.
1.3 LA SCIAGURA DELL’8017
Nella notte tra il 2 e 3 marzo 1944 una delle più gravi tragedie
ferroviarie mai verificatesi colpì circa seicento persone che
percorrevano la tratta ferroviaria Battipaglia-Potenza, all’altezza
della stazione di Balvano-Ricigliano.
Il punto preciso in cui avvenne la tragedia si trova nella “Galleria
delle Armi”, che è situata tra la stazione di Balvano (Pz) e quella di
Bella-Muro (Pz), ed è lunga circa due chilometri.
La galleria “Delle Armi” è la più lunga delle 37 che si incontrano su
questa tratta: galleria numero 20 partendo da Battipaglia. Da un
prospetto conservato nella IV unità speciale delle Ferrovie dello Stato
risulta essere lunga precisamente 1 chilometro, 966 metri e 5 centimetri
(anche se, sulla targa all’esterno della galleria, sono riportati
1968,78 m). Solamente altre tre gallerie su questa tratta superano il
chilometro: la galleria “Botte” (numero undici, 1.934 metri e 26
centimetri), la “Ripabianca” (numero trenta, 1.137 metri e 28
centimetri) e la “San Licandro” (galleria numero cinque con 1.003 metri
e 61 centimetri).
Lasciata
la stazione di Balvano si passa un primo tunnel, si passa poi su di un
ponte d’acciaio (la copertura in cemento armato è stata realizzata in
seguito al terremo del 1980); segue un tratto all’aperto e
delle aperture di ventilazione laterali
che gli abitanti di Balvano chiamano i “14
finestroni”, seguiti da un’altra breve galleria e da un altro
tratto all’aperto; altri “tre finestroni” ed un breve tunnel affiancato
da una galleria che è chiamata “sbagliata”: sbagliata perché nel secolo
scorso, durante la costruzione della galleria, questa fu scavata ed
abbandonata perché non in linea con il tracciato. Fuori dalla galleria è
presente un ponte che scavalca il torrente Platano e, a seguire, c’è la
galleria “Delle Armi” dove, alla destra dell’entrata della galleria, è
presente uno spiazzo dove una volta vi era un casello, già non più
abitato nel 1944. All’interno della galleria, in fondo a destra, si
intravede una luce che sembra indicare la fine della galleria, ma che in
realtà la fine della galleria non è: si tratta, infatti, della luce che
proviene dal condotto di aerazione, raggiungibile in mezz’ora, che dà
nel vuoto e dal quale non si vede altro che le pareti di roccia fra le
quali scorre il torrente Platano. La galleria è perfettamente rettilinea
e, finito il rettilineo, proseguendo dritto, tenendo la sinistra, si
raggiunge il condotto di aerazione, mentre seguendo i binari c’è una
piega a destra a forma di “esse”, durante la quale si contano 37
“finestroni”. Dopo il trentasettesimo “finestrone”, finalmente si
raggiunge la fine della galleria.
Il treno 8017 aveva appena imboccato la “Galleria delle Armi” quando
inspiegabilmente perse velocità e si immobilizzò cinquecento metri
all'interno della galleria.
Diverse centinaia di persone erano salite sul treno 8017 (creato per
caricare legname da utilizzare nella ricostruzione dei ponti distrutti
dalla guerra) nonostante si trattasse di un treno merci, composto
prevalentemente da carri scoperti. Queste persone, uomini, donne ma
anche bambini, adolescenti e ragazze, viaggiavano allocati in ogni luogo
possibile, anche sui predellini dei carri e sul tetto dei carri merci
coperti.
Si ebbe l’intervento della polizia militare alleata e
alla stazione di Eboli alcuni abusivi vennero fatti scendere, ma più
numerosi ne salirono alle stazioni successive e ciò non impedì che,
pochi minuti dopo la mezzanotte del 2 marzo 1944, il treno 8017 entrasse
in stazione a Balvano, carico di più di 600 persone.
Il treno 8017 era partito da Napoli in trazione elettrica ma a Salerno
era avvenuto un mutamento decisivo, in quanto la linea non elettrificata
necessitava della trazione a vapore. E qui si concretizzò un elemento
decisivo per la costituzione della tragedia perché vennero utilizzate
non una ma due locomotive a vapore (476.020 e 480.016 di pertinenza del
deposito di Salerno e, come tutte le locomotive dell'epoca, entrambe le
macchine erano a cabina aperta, alimentate a carbone spalato da
fuochisti e controllate da un macchinista) e, del tutto incongruamente,
queste due locomotive a vapore vennero posizionate ambedue in testa al
treno 8017, nonostante il treno stesso fosse molto lungo e la linea
molto tortuosa e in salita, e nonostante il fatto che, non solo le
prescrizioni della regolamentazione ferroviaria, ma la logica e il buon
senso imponessero, in quelle condizioni, di utilizzare la cosiddetta
“trazione simmetrica” con una macchia a vapore in testa e l’altra in
coda, uso che era intervenuto a seguito dell’incidente che si era
verificato nel febbraio precedente.
Dalla ricostruzione dell’incidente fatta da Nicola Raimo del 4 marzo
1944 emerge che la locomotiva 480.016 doveva essere inviata a Potenza
come treno straordinario “O.L.” (“orario libero”, ossia ad orario non
prestabilito). Per due ragioni quella macchina finì in testa all’8017:
la necessità di evitare due treni sullo stesso percorso e la
consapevolezza che, da Baragiano a Tito, l’8017 avrebbe avuto bisogno di
un rinforzo in coda, a causa della ripidità della salita. Per la 480.016
la collocazione in doppia trazione fu inevitabile.
Cinquanta minuti dopo la mezzanotte del 2 marzo 1944 il treno 8017 si
mosse dalla stazione di Balvano: era composto di 45 carri e, appunto, di
due locomotive in testa. La successiva stazione di Bella-Muro si trovava
a meno di otto chilometri da quella di Balvano, e il treno 8017 avrebbe
dovuto impiegare un tempo oscillante tra i venti minuti e gli ottanta
minuti per raggiungere la stazione di Bella-Muro, ma il treno non vi
giunse mai. Alle 5:10 del mattino del 3 marzo uno dei frenatori in
servizio al treno giunse alla stazione di Balvano e comunicò al
dirigente della stessa che il convoglio era fermo nella galleria delle
"Armi" e che vi erano molti cadaveri. Una prima ricognizione fu disposta
utilizzando la locomotiva del treno 8025, ma alle 5:25 la locomotiva
dovette rientrare in quanto, a causa della presenza di molti cadaveri
anche sulle banchine, era stato impossibile spostare il treno. Fu,
quindi, inviata una squadra di soccorso con il triste compito di
raccogliere le salme, permettendo così di portare il treno alla stazione
di Balvano, dove giunse solo alle 8:40 del mattino.
In Lucania, dunque, “si moriva di carbone”,
come fu possibile affermare dopo gli accertamenti sul materiale che la
Direzione Generale del Servizio Ferroviario Militare per le Forze Armate
Alleate imponeva per i treni italiani. Prima dell’8 Settembre 1943 il
carbone era di provenienza tedesca che poi, vista la situazione politica
dell’Italia, venne sostituito con carbone fornito dagli Alleati. Carbone
che giungeva a Salerno dalla Jugoslavia con la nave Liberty. Si trattava
di carbone di piccola pezzatura e con molto zolfo, con potere calorifero
insufficiente per le locomotive di cui disponevano le Ferrovie italiane,
e che emanava gas tossici che spesso stordivano i macchinisti. Tutte
cose che Francesco Mittiga, capo del deposito del personale viaggiante
di Salerno, fece notare più volte agli Alleati, ma, come disse lui, “senza
nulla ottenere, perché gli Alleati si rifiutavano di prendere qualsiasi
provvedimento”.
Si legge nei Verbali del Consiglio dei ministri del 9 marzo 1944 che:
“Salvo
diverse conclusioni da parte della Commissione presieduta dal Capo
Compartimento di Napoli, che, con l'intervento di ufficiali e di tecnici
della Direzione Generale del «Military Railway Service», sta svolgendo
regolare inchiesta, la sciagura devesi attribuire alla pessima qualità
del carbone fornito dal Comando Militare Alleato, la cui combustione dà
luogo alla produzione:
a) di una forte percentuale di vapori di zolfo;
b) di una elevata quantità di ceneri, scorie e di residui volatili.
Ne consegue:
-
facile e continua ostruzione della griglia e quindi
una insufficiente entrata di aria nel forno;
-
ostruzione dei tubi bollitori in caldaia con
relativa difficoltà di tiraggio;
-
ritorno in cabina, ad ogni apertura del forno, di
gas tossici che colpiscono il personale di macchina mettendolo in
condizioni di non potere più fare servizio;
-
difficoltà nella condotta del fuoco;
-
depressione in caldaia e quindi diminuzione nello
sforzo di trazione della locomotiva con conseguente lenta corsa e
talvolta arresto del convoglio in piena linea là ove specialmente, come
nelle gallerie, alle difficoltà di trazione si aggiunge lo slittamento
delle ruote motrici per umidità esistente sulle rotaie”.
Il bilancio fu, come detto, tragico, in quanto oltre 500 persone
perirono in una tragedia non solo annunciata, ma addirittura evitabile,
e le salme, come racconta Ugo Gentile, all’epoca capostazione della
stazione di Baragiano, restarono per alcuni giorni all’interno della
stazione di Balvano prima di essere inumate nel cimitero del paese.
Sempre Gentile ricorda come i soccorritori, in quei momenti concitati,
riuscirono a rianimare 96 persone attraverso la somministrazione di
latte al fine di provocare il vomito e la pratica della respirazione
artificiale.
Dai Verbali del Consiglio dei ministri del 9 marzo 1944
si apprende che, almeno nei primi momenti successivi alla tragedia, le
colpe dell'accaduto ricaddero sui
capistazione di Battipaglia, Balvano e Bella Muro in quanto, secondo
quanto scritto nei verbali, essi non si erano curati di accertare la
posizione del treno che, pur partito da una stazione, non era giunto in
orario in quella successiva. Nei loro confronti fu, infatti,
immediatamente disposta la sospensione dal servizio in attesa degli
esiti dell'inchiesta.
In effetti, una parte di ciò che viene verbalizzato si discosta dalla
testimonianza di uno dei soccorritori, Gentile, dal cui racconto emerge
un dato temporale circa il momento in cui fu dato il segnale di allerta:
quando il treno aveva ancora tra le due e le tre ore di ritardo, il
capostazione di Bella-Muro cominciò a preoccuparsi e ad attendere, come
da regolamento, che il capotreno inviasse qualcuno per aggiornare sullo
stato del treno (in effetti, ciò era già accaduto, infatti Masullo aveva
inviato De Venuto alla stazione di Balvano per richiedere soccorsi),
inviando un “guardalinee”, intorno alle 4 del mattino, per monitorare la
situazione (che sarebbe giunto alla Galleria delle Armi intorno circa
un’ora dopo, a causa della difficoltà incontrata per raggiungere il
luogo del disastro).
Sempre la testimonianza di Gentile chiarisce come i capistazione siano
stati dei semplici capri espiatori:
“(…)
quando è successa questa cosa qua, io tenevo un capostazione titolare
con gli attributi, il quale la prima cosa che mi disse: ‘Ugo, prendi i
registri e mettili in cassaforte’. Perché erano documenti ufficiali che
io tenevo; perché se il treno fosse stato pesante e occorreva un’altra
locomotiva, io ero obbligato a mandare da Baragiano una di queste
locomotive per far spingere il treno. Però siccome le prestazioni delle
due locomotive erano sufficienti per portare il treno a Baragiano, io
non ero tenuto a farlo; e poi ci stava la zona, cioè era tutto
trascritto, che io avevo trascritto, perché poi c’erano dei protocolli
in cui si registravano tutti i telegrammi che arrivavano, e poi feci un
bel rapporto di come erano avvenuti i fatti, ogni cosa. Non fui nemmeno
interrogato perché intervenne il procuratore della repubblica di
Potenza, e anche qui ho visto una quantità di notizie di responsabili,
dei capostazione …ma non è vero, perché a noi non ci hanno rotto proprio
le scarpe, furono dichiarati dopo siccome c’erano delle responsabilità
degli americani in quanto erano carri che 8 di quelli pesavano anziché 8
tonnellate, pesavano 44 tonnellate; più poi tutti i viaggiatori che
erano quasi 800, a 50 kg ciascuno erano altre 400 tonnellate, quindi il
treno era 900 e rotte tonnellate. Quindi noi nella buona fede, cioè era
un caso che fu infatti dichiarato un caso di forza maggiore, e il
carbone non era buono ed era americano. Invece, molti giornalisti che
volevano sapere se i capostazione erano stati arrestati, gli dissi: voi
parlate, ma interrogate almeno le persone che erano sul posto. Noi che
eravamo là, vigeva allora il regolamento che non potevamo andare, perché
solo sul doppio binario poteva andare un’altra locomotiva in
perlustrazione, quindi sul semplice binario non la puoi mandare; e il
capotreno, mica a sapere che il capotreno era morto, ed erano morti
tutti quanti. E fu dichiarato un caso di forza maggiore perché
responsabilità nostre non ce n’erano, e noi osservammo pienamente il
regolamento circolazione…è vero che è stata a lunga cosa, però ripeto ,
potemmo dimostrare che altri treni in precedenza sostavano due, tre ore
per fare l’accudienza. Per giunta tutti questi ferrovieri che erano
morti, erano tutti amici nostri, e a volte si mangiava anche insieme”.
Sulla vicenda, come un fantasma, aleggia sempre il dubbio (per i
testimoni, più di un dubbio) che si intenda occultare le vere
responsabilità per questioni di natura politico-militare.
1.4 LE TESTIMONIANZE: CONTRIBUTI PREZIOSI PER LA RICOSTRUZIONE
DELL’EVENTO
Per conoscere realmente ciò che accadde quella triste notte bisognerebbe
ascoltare la voce di chi si trovava sul convoglio della morte. Ciò
sembrerebbe estremamente arduo dato che da fonti ufficiali
si salvò solo un fuochista che svenne e si riprese solo a disgrazia
consumata, quando giunsero i primi soccorsi. In seguito si è appreso che
vi furono altri superstiti tra i passeggeri ma questi si dileguarono per
paura di essere fermati come abusivi o contrabbandieri. I passeggeri
degli ultimi due vagoni, sebbene indeboliti e
semisvenuti, riuscirono a salvarsi.
Alcuni di essi furono rianimati durante le operazioni di sgombero nella
stazione di Balvano, altri ancora ripresero conoscenza già nell’ospedale
di Potenza; per quest’ultimi vale quanto accadde al fuochista, anzi si
può presupporre che non si siano neppure accorti di ciò che accadeva,
probabilmente erano già dormienti negli attimi in cui la morte discese
sul treno, data l’ora stimabile intorno all’una di notte. Tra questi
c’era Antonio Gaudino che si trovava "nell'ultimo carro scoperto",
e ricordò che "ad un certo momento il treno ritornò indietro e poi
andò avanti, ritornò nuovamente indietro e si arrestò. Dopo circa
un'ora, non resistendo agli effetti del gas che gli procurarono dolori
di testa e perdita di forze dei muscoli delle braccia e delle gambe,
scese dal carro e si portò fuori dell'imbocco della galleria dalla parte
di Balvano e, buttatosi per terra, fu vinto dal sonno. Si svegliò -
conclude il rapporto - al rumore del treno che retrocedeva verso Balvano".
Le testimonianze dei superstiti giungono attraverso il lavoro di
giornalisti e scrittori che hanno indagato sull’evento e dall’analisi di
questi scritti si giunge ad elencare altri tre superstiti tra il
personale del treno oltre al fuochista Luigi Ronga. Infatti negli
articoli giornalistici di seguito riportati notiamo non poche
incongruenze ma soprattutto restano molti dubbi su chi fu il primo dei
frenatori a portare il triste annuncio: «Laggiù sono tutti morti,
tutti morti!». La fatidica frase pare essere stata pronunciata
secondo le diverse versioni da due frenatori
giunti separatamente alla stazione di Balvano.
Luigi Ronga ha riferito che ad un certo momento si è sentito mancare il
respiro ed è svenuto. Ricorda di avere visto il proprio macchinista
nell'atto di manovrare la leva di inversione allo scopo, ritiene, di
disporre la locomotiva a marcia indietro.
“I
gas di combustione avevano saturato l'aria della galleria a tal punto
- ricorda Ronga - che la fiaccola ad olio vegetale posta sugli
strumenti si spense, e tutto piombò nel buio. Il treno era giunto a
circa metà della galleria delle Armi: le sale delle locomotive, complice
anche la forte umidità di quella notte di marzo, continuavano a
slittare, mentre i colpi di scappamento, sempre più ravvicinati,
risuonavano sotto la volta della galleria come cannonate”.
Ronga fu preso da un senso di nausea: sportosi dalla piattaforma
nell'intento di trovare una boccata d'aria ancora respirabile in
quell'inferno di fumo e di gas, perdette di colpo i sensi e precipitò
dalla locomotiva nella sottostante cunetta di scolo dell'acqua, che
fiancheggiava il binario. Rimase lì, svenuto, perdendo sangue da ferite
alla testa e alle braccia.
Secondo il giornalista Nicola Raimo (la cui versione contrasta con le
successive), dei ferrovieri, insieme a Ronga si salvò soltanto il
frenatore di coda Roberto Masullo, che occupava un carro rimasto fuori
dalla galleria. Masullo scese e risalì per qualche decina di metri il
tunnel e, resosi immediatamente conto della tragedia, fu l'unico a
mettersi in marcia verso Balvano per chiedere soccorsi.
Secondo la versione del giornalista Cenzino Mussa, invece, si salvarono
anche Giuseppe De Venuto "operaio delle ferrovie che faceva da
frenatore che viaggiava sull'undicesimo carro" e Michele Palo,
frenatore che, secondo Mussa, raggiunse per primo Balvano e diede
l'allarme.
Il racconto di Cenzino Mussa riguardo ai tre frenatori è molto
particolareggiato, sembra attendibile e di prima mano, ma nulla dice in
merito ai freni e nessuno, a quanto sembra, ha raccolto la versione di
questi importanti testimoni.
Dal racconto di Gordon Gaskill, La misteriosa catastrofe del treno
8017, apprendiamo che Giuseppe De Venuto nel sentire il treno
fermarsi, arretrare a scossoni e fermarsi di nuovo “scese dal treno e
si diresse verso l'uscita della galleria dove trovò il frenatore Roberto
Masullo steso a terra, stordito e colto da malore. De Venuto aveva
capito ormai quale sorte fosse toccata a quasi tutte le centinaia di
persone rimaste nella galleria. Masullo, che era un suo superiore, disse
a De Venuto di correre subito a Balvano per dar notizia dell'accaduto.
Cosa che fece. Semisvenuto, nauseato dal fumo, l'operaio cominciò ad
avanzare carponi lungo i binari. Giunto a Balvano, si accorse che
l'altro ferroviere lo aveva preceduto: Michele Palo”.
Altre testimonianze che possono arricchire il quadro della ricerca
vengono fornite dai primi soccorritori che giunsero sul luogo del
sventura vale a dire il personale delle ferrovie inviato alla ricerca
dell’8017 mai giunto a Bella-Muro.
Mario Restaino raccoglie la testimonianza di Mario Motta, deviatore che
quella mattina alle 6:30 si accingeva a prendere servizio e, appresa la
notizia, salì sulla locomotiva di soccorso inviata dalla stazione di
Romagnano. Alla galleria "delle armi", gli ultimi tre carri dell'8017
erano fuori.
I
soccorritori erano muniti di maschere e ciò permise loro di entrare
nella galleria: dovettero farlo perché fu necessario sfrenare, cioè
sbloccare i freni di 13 veicoli. Il macchinista della locomotiva fatta
avanzare da Romagnano andò a controllare le leve della 480.016 e della
476.038: erano nella posizione di retromarcia.
Motta ricorda anche che alcuni
superstiti riferirono che il treno, dopo una prima fermata, aveva avuto
un breve spostamento in avanti. Motta ricorda anche di avere udito,
molto evidente, durante il viaggio di rientro,
“quel battito caratteristico che indica una sfaccettatura delle ruote
dei carri”.
È
confermato il fatto che la galleria era invasa dal fumo ancora diverse
ore dopo l'incidente: "L'aria - racconta Motta - era gialla
fino a un'altezza di circa venti centimetri da terra. Chi, dei
viaggiatori, era caduto sulla massicciata era vivo perché a
quell'altezza vi era un minimo di ventilazione. Comunque in quella
galleria non vi erano mai stati problemi e su quel tratto di linea non
si trovano segnali di alcun tipo”.
Altra testimonianza importante è quella del capostazione Ugo Gentile,
allora appena 19enne, di servizio nella notte del 2/3 marzo 1944 presso
la stazione di Baragiano, il quale riferisce che “il sottoscritto era
l’unico responsabile a decidere se occorreva o meno il rinforzo in coda
da Romagnano e quindi la lunga sosta a Balvano e poi prima dell’ingresso
nella galleria delle Armi era sistematicamente un fatto normale perché
le inefficienze delle locomotive, bottino della guerra 15/18, e la
pessima qualità del carbone era la causa principale delle lunghe soste
per l’accudienza alle locomotive. Naturalmente alimentando il fuoco con
carbone tipo legnite si provocava un fumo denso con combustione di
ossido di carbonio che andava direttamente nell’abitacolo degli agenti
alla guida delle locomotive con le note conseguenze. Ciò premesso il
capostazione di Bellamuro da me sollecitato per telegrafo, l’unico mezzo
di comunicazione, intervenne soltanto dopo l’abituale cosuetudine di
attendere un congruo periodo di sosta per l’accudienza della locomotiva.
Purtroppo per l’allora regolamento circolazione treni non era possibile
inviare in ricognizione una locomotiva […] per cui era il Capotreno a
prendere l’iniziativa di avvisare la stazione in caso di deficienza di
trazione o per altro motivo che il capostazione di servizio non era a
conoscenza. Da parte mia premevo l’arrivo del treno 8017 in quanto in
stazione a Baragiano sostava il treno 8000 occupato da militari
americani che dovevano raggiungere il fronte di Cassino ove era l’armata
americana che combatteva contro i tedeschi. Aggiungo che di stanza a
Baragiano vi erano due capistazione americani che con il principale
ausilio dei ferrovieri italiani gestivano l’emergenza dopo la
liberazione dai tedeschi la parte sud dell’Italia. Allo scrittore
Barneschi che mi interpellò, prima della pubblicazione del libro,
ho precisato la limitazione del numero degli intervenuti al soccorso,
perché se ci fossero stati più soccorritori si sarebbero potuti salvare
altri viaggiatori, dovuto alla difficoltà di rimuovere i cadaveri e non
dare soccorso soltanto a chi dava segno di vita, anche questo fu la
maggiore causa di tanti cadaveri”.
Sempre Gentile, in una intervista raccolta da me il 31 marzo 2011,
aggiunge dei particolari sull’accaduto: nello specifico, mi chiarisce
che il treno 8017, a differenza di quanto avveniva normalmente, non
aveva alcuna scorta, anche se tale affermazione contrasta con tutte le
ricostruzioni ufficiali.
Tra i viaggiatori superstiti, uno in particolare ebbe salva la vita
grazie alla sciarpa bianca che aveva in quel momento al collo:
si tratta di Domenico Miele, che si trovava in un vagone vicino alla
coda del treno, ma ancora dentro alla galleria. Quando il fumo divenne
eccessivo, s'avvolse la sciarpa intorno alla bocca e al naso, scese dal
vagone e cominciò a camminare verso la coda. Era appena arrivato allo
sbocco del tunnel quando si sentì mancare. Temendo di rimanere a terra
se il treno fosse ripartito, salì semistordito sul vagone più vicino, un
carro merci scoperto, il terzo dalla coda del treno, metà dentro e metà
fuori la galleria. Miele non s'accorse più di nulla finché anche lui
rinvenne la mattina dopo a Balvano e scoprì che i capelli, neri alla
partenza del treno, erano diventati grigi.
Significativa, infine, è l’esperienza di un sopravvissuto alla tragedia,
Carlo Sannino, sicuramente unica nel suo genere: come si legge negli
atti ufficiali, egli si trovava aggrappato al tender della prima
macchina. Dopo essere svenuto si riebbe e, in preda ad allucinazione, si
avviò verso l’uscita della galleria dalla parte di Bella-Muro.
Probabilmente fu l'unico a compiere un simile atto.
Intanto, verso le sette del mattino, la notizia era giunta anche a
Balvano, il parroco suonò le campane, uomini e donne furono radunati dai
carabinieri e si diressero verso la stazione per portare i primi
soccorsi.
C'era il medico condotto, Orazio Pacella, che racconta: “Un silenzio
irreale, la neve e tutti quei poveretti. Mostrai ai ferrovieri e ai
contadini come si fa la respirazione bocca a bocca. Avevo solo cento
fiale di adrenalina, non potevo permettermi di sbagliare. Saltavo da una
vettura all'altra, cercavo un cenno di vita nei riflessi oculari, poi
facevo l'iniezione al cuore. Nessun altro medico per tutta la mattinata.
Poi arrivarono le autorità da Potenza con una dottoressa americana.
Allontanarono tutti, anche me. Ne avevo salvati 51, mi restavano 49
fiale, avrei potuto salvarne altri. Protestai, Dio mio, fatemi salvare
altre vite. Mi cacciarono. E questo è il tormento che mi accompagna da
quel giorno”.
C’era anche Vincenzo Pacella, all’epoca calzolaio quasi ventiduenne che
partecipò alle operazioni di scarico delle salme dai carri allineandole
sul marciapiede della stazione; gli uomini divisi dalle donne, ne contò
523 o 533. Pacella mi ha raccontato personalmente la scena che si
trovarono davanti: i morti avevano il viso sereno come se dormissero,
erano seduti, distesi, qualcuno aveva la sigaretta in bocca, per la
maggior parte di loro la morte arrivò dolcemente. Tutti quelli che
davano qualche segnale di vita venivano messi in sala d’attesa per
essere rianimati. Nel frattempo iniziavano ad accorrere già i primi
parenti alla ricerca dei propri cari. Alcuni riuscirono ad averne le
spoglie per dar loro una degna sepoltura, come nel caso del dott. Iura,
noto chirurgo che, abbandonato il suo lavoro di consulente dell’ospedale
San Carlo di Potenza e dell’Ospedale Sant’Anna di Eboli, era ordinario
di patologia chirurgica e di propedeutica clinica presso l’Università di
Bari. Con sé, in quel viaggio, portò altri 90 studenti che dovevano
raggiungere anche loro l’Università; invece chi non ne ebbe la
possibilità dovette accontentarsi di un ultimo saluto
o perlomeno di recuperarne gli effetti personali se li ritrovavano,
visto che non mancarono affatto episodi di sciacallaggio.
Verso mezzogiorno arrivarono da Potenza dei camion
americani e i cadaveri vennero
trasferiti davanti al cimitero di Balvano in attesa di essere tumulati,
ma il cimitero non era in grado di poter ospitare un numero talmente
elevato di defunti.
A
tal proposito è significativa la testimonianza di Maria Le Caldare, che
assistette alle manovre di soccorso: “Vennero dei camion da Potenza.
Mamma mia. Caricavano i cadaveri e salivano per il paese. Il prete ebbe
il tempo solo per una benedizione. Sembrava che
gli inglesi volessero bruciarli”.
In seguito il cimitero fu allargato e i cadaveri posti in quattro fosse
comuni.
1.5 LA QUESTIONE DEL CARBONE
Tra i tanti misteri che circondano questa vicenda, uno in particolare
riguarda, come è già stato detto in precedenza, il carbone.
Molte delle testimonianze, soprattutto quelle dei soccorritori e degli
addetti ai lavori, lasciano ben più che supporre che la tragedia si sia
consumata a causa della cattiva qualità del combustibile imposto dagli
alleati.
Qualche giorno dopo l’incidente della Galleria delle Armi si ebbero
altri due incidenti. Il 6 marzo 1944 si ebbe un altro decesso causato
dal monossido di carbonio: si tratta del fuochista della locomotiva
480.012 di spinta al treno 8140, Gennaro Tramutola. Il 7 marzo, invece,
tre soldati che viaggiavano su un treno militare sulla linea
Salerno-Potenza vennero intossicati (ma si salvarono) dal monossido di
carbonio in quanto il treno, pur non fermandosi in alcuna galleria, le
percorse tutte a bassa velocità, e ciò fu sufficiente ad intossicarli.
Riguardo al primo dei due incidenti, i macchinisti del treno 8140
riferirono che il carbone utilizzato era diverso da quello solito,
perché bruciava troppo velocemente e aveva una inferiore resa termica.
Anche il macchinista capo Mochi, del deposito di Taranto, affermò che la
causa principale dell’incidente era il carbone.
Interessanti sono le parole del capodeposito Giraldi, che affermò che
c’erano state molte lamentele per la scarsa qualità de carbone, «troppo
leggero, pieno di cenere e molto probabilmente tossico»,
sottolineando che anche se le nuove forniture erano migliori rispetto
alle precedenti (si riferiva all’ultimo mese), in ogni caso si trattava
di un prodotto di scarsa qualità.
Nel verbale della Commissione che indagò su questo incidente e che cercò
di nascondere la verità, emerge il documento contenente le risposte
fornite dal maggiore Wilson: il carbone fornito a Grassano proveniva da
Taranto, mentre quello di Potenza proveniva da Salerno. All’indomani
della tragedia di Balvano, il carbone fu sostituito con un tipo gallese,
di migliore qualità e resa che, per stessa ammissione del maggiore,
produce minori esalazioni dispetto ai diversi altri tipi di carbone
precedentemente utilizzati. È possibile trovare una correlazione tra il
cambiamento di fornitura di combustibile e quanto accaduto nella
Galleria delle Armi, e già questo atto compiuto dagli Alleati
sembrerebbe una ammissione di responsabilità.
Un elemento fornisce la chiave di lettura di tutta la vicenda: prima
dell’introduzione del carbone imposto dal Military Railway Service,
sulla linea in questione non si era mai verificato alcun incidente,
nonostante la pratica del “viaggio di frodo” fosse diffusa da tempo,
mentre in quel brevissimo arco temporale si ebbero tre incidenti sulla
linea Battipaglia-Potenza, più uno analogo, ma con meno vittime, sulla
linea Viareggio-Lucca, avvenuto il 15 marzo, con il carbone alleato a
fare da filo conduttore.
Le commissioni d’inchiesta, forse per paura di reazioni da parte degli
Alleati, non ebbero il coraggio di tirare le somme e su tutta la
vicenda, sui vivi e sui morti di una tragedia nella grande tragedia
della guerra, calò inevitabile il silenzio.
E
venne l’oblio.
CAPITOLO II
L’INCHIESTA, LA BUROCRAZIA E IL RISALTO MEDIATICO
2.1 L’inchiesta
Quasi
nessuno sapeva allora che cosa stesse accadendo
e
ancor oggi nessuno sa con esattezza che cosa sia avvenuto;
eppure quel disastro ha fatto più vittime d'ogni altra sciagura
ferroviaria.
(Gordon Gaskill, "Selezione
dal Reader's Digest", Luglio 1962)
Un insieme di eventi negativi contribuì a scatenare una delle più gravi
tragedie ferroviaria della storia. Divenne essenziale scoprire cosa,
esattamente, era accaduto, sia per dare giustizia alle vittime e ai loro
congiunti, sia perché si rendeva necessario comprendere se quanto
accaduto avrebbe potuto ripetersi.
Venne subito istituita una commissione parlamentare che, però, non
rilevò alcuna responsabilità per l'accaduto, che venne ritenuto una
sciagura per cause di forza maggiore. Tuttavia vennero avanzate ipotesi
per alcune infrazioni secondarie.
Il treno avrebbe dovuto essere fermato a Battipaglia nonostante le due
locomotive fossero nominalmente sufficienti al traino, e avrebbe dovuto
essere messo in regola con le nuove normative; era noto inoltre che il
carbone fornito non era in grado di sviluppare sufficiente potenza per
mantenere le massime prestazioni delle macchine.
Vennero sollevati dubbi sulla tempestività dei soccorsi e sull'operato
dei capistazione di Balvano e Bella-Muro, che non accertarono subito la
posizione del treno quando questo apparve in ritardo sulla tabella di
marcia. Tuttavia nella confusione postbellica era normale che le
comunicazioni fossero intermittenti e i treni portassero grande ritardo:
non era raro che occorressero oltre due ore per percorrere i 7 km della
tratta.
Inizialmente venne anche supposto che i macchinisti non avessero
adeguatamente regolato le sabbiere, che avrebbero potuto evitare lo
slittamento delle ruote.
Infine la catastrofe venne attribuita principalmente a «una
combinazione di cause materiali, quali densa nebbia, foschia
atmosferica, mancanza completa di vento, che non ha mantenuto la
naturale ventilazione della galleria, rotaie umide, ecc., cause che
malauguratamente si sono presentate tutte insieme e in rapida
successione. Il treno si è fermato a causa del fatto che scivolava sulle
rotaie e il personale delle macchine era stato sopraffatto
dall'avvelenamento prodotto dal gas, prima che avesse potuto agire per
condurre il treno fuori del tunnel. A causa della presenza dell'acido
carbonico, straordinariamente velenoso, si è prodotta l'asfissia dei
passeggeri clandestini. L'azione di questo gas è così rapida, che la
tragedia è avvenuta prima che alcun soccorso dall'esterno potesse essere
portato».
Venne notato che le disposizioni per la costituzione del treno venivano
direttamente dal Comando Alleato, e che comunque il personale di
stazione e viaggiante non avrebbe potuto fermare il treno e chiederne la
modifica. Lo stesso comando organizzò un treno per verificare le
condizioni dell'incidente, con il personale dotato di maschere ad
ossigeno, che rilevò l'effettivo sviluppo di quantità anomale di gas
tossici.
In pochi si salvarono, ma di loro non si seppe nulla per molti anni;
degli altri fu raccontato ben poco, furono dichiarati abusivi e presto
vennero dimenticati.
Molti dei parenti delle vittime intentarono causa alle Ferrovie dello
Stato, ma le ferrovie declinarono ogni responsabilità, anche perché
secondo la complicata situazione dell'equilibrio dei poteri tra le
amministrazioni italiane e il comando statunitense non era immediato
nemmeno risalire a chi avesse la responsabilità della gestione di quella
particolare tratta.
Per spegnere sul nascere una vertenza che avrebbe potuto trascinarsi per
anni, il Ministero del Tesoro sancì l'emissione di un risarcimento come
se si trattasse di vittime di guerra.
Peraltro molti dei passeggeri a bordo del treno erano in possesso di un
"regolare" biglietto ferroviario,
che li qualificava quindi come passeggeri e non come clandestini. Questa
condizione, che avrebbe implicato la possibilità di richiedere cospicui
risarcimenti all'ente che gestiva la linea, sarebbe passata sotto
silenzio durante le inchieste ufficiali sulla tragedia. Le fonti
ufficiali tuttavia parlano solo di clandestini, questione supportata dal
fatto che il treno era classificato come "merci" e quindi non
autorizzato al trasporto di passeggeri paganti.
2.2 COME LA BUROCRAZIA
HA “OSTACOLATO” LA RICERCA DELLA VERITÀ
La maggior difficoltà
nella ricostruzione del disastro di Balvano è collegata alla strana
mancanza di documenti ufficiali, almeno in Italia, per cui la più gran
parte della ricostruzione è basata sui giornali dell'epoca e sulle
testimonianze raccolte,
tra l’altro in numero estremamente ridotto.
L’unico documento
ufficiale integralmente consultabile reso pubblico subito dopo la
sciagura è il verbale del consiglio dei ministri del governo Badoglio
del 9 marzo 1944 che sancisce rapidamente le sue decisioni elencate
nella relazione del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del
Consiglio dei Ministri l'Avv. Dino Philipson, dopo primi accertamenti
eseguiti da alcuni funzionari del Sottosegretariato, subito inviati sul
posto, circa il grave incidente in oggetto.
L’intera tragedia fu
liquidata in poche righe, infangando la memoria di persone oneste che,
però, era più semplice far passare per “delinquenti”:
“Il
Ministro delle Comunicazioni riferisce sul sinistro ferroviario della
linea di Potenza il quale è da attribuirsi alla pessima qualità di
carbone fornito dagli Alleati. I morti sono 517. Tutto il personale
ferroviario addetto al treno è deceduto, all'infuori di un fuochista.
Tutti gli altri erano viaggiatori di frodo.”
Questo estratto dal
verbale del consiglio dei ministri del 9 marzo 1944, ore 16, tratta la
questione con una leggerezza impressionante, e neppure l’allora Re se ne
preoccupò.
All’interno del
verbale risalta subito un dato contrastante con quanto riferito dal
Ministro delle Comunicazioni nella stessa seduta: infatti il Ministro
parla di 517 morti mentre nella relazione del Sottosegretario sono
indicate 501 salme scaricate e trasportate nel cimitero di Balvano.
Riguardo ai 16 morti
che non raggiunsero il cimitero si può ipotizzare che siano stati
recuperati dai propri familiari o più semplicemente un errore di conta
che rende fin da ora estremamente complicato giungere al numero esatto
delle vittime.
Questa relazione
inoltre fornisce un’erronea misura della “galleria delle armi” di
1692,22 metri, in quanto sappiamo precisamente da un cartello posto
all’ingresso del fatidico tunnel che la sua lunghezza è di 1968,78
metri. Oltre a queste imprecisioni si rileva che:
“la sciagura devesi
attribuire alla pessima qualità del carbone fornito dal Comando Militare
Alleato, la cui combustione dà luogo alla produzione:
a)
di una forte percentuale di vapori
di zolfo;
b)
di una elevata quantità di ceneri,
scorie e di residui volatili”.
Alcune responsabilità
vengono contestate anche al personale delle ferrovie, “Tuttavia sono
state rilevate le seguenti gravi infrazioni: […] a) il capostazione di
Battipaglia non avrebbe dovuto consentire la effettuazione di un treno
avente peso superiore alle 350 tonn. (questa misura venne introdotta in
seguito ad un episodio analogo avvenuto qualche tempo prima in un tratto
tra Baragiano e Tito in cui perì il macchinista a causa delle esalazioni
venefiche della locomotiva. Il tratto in questione presenta una pendenza
maggiore rispetto a quella della galleria delle Armi) […] b) i Dirigenti
delle stazioni di Balvano e di Bella-Muro hanno commesso delle gravi
infrazioni al regolamento sulla circolazione in quanto non si sono
curati di accertare la posizione del treno partito da una stazione e non
giunto in orario nella successiva.
Forse il loro
tempestivo interessamento, come del resto prescrivono le Norme di
Circolazione, avrebbe potuto rendere meno grave e meno tragica la
sciagura che ha causato tante vittime;
c) non è del tutto da
escludere che il personale di macchina abbia trascurato di assicurarsi,
all'atto della partenza, del regolare funzionamento delle sabbiere e che
ciò abbia impedito di superare, al momento opportuno, lo slittamento
delle ruote”.
Si legge anche che non
si è potuto indagare a fondo in quanto non sono stati ritrovati
superstiti al di fuori del fuochista , il quale raccontò solo di aver
visto il macchinista posizionare la leva nel tentativo di invertire il
senso di marcia “e la leva delle locomotive fu trovata realmente
disposta nella posizione indicata dal fuochista” dopodiché perse i
sensi e non ricordò neppure come fosse riuscito a giungere alla stazione
di Balvano per dare l’allarme.
Sebbene l’inchiesta
avesse preso in considerazione le testimonianze di dozzine di funzionari
e dipendenti delle ferrovie italiane, così come di personale
dell'esercito americano, poco venne portato alla luce sulle cause
dell'incidente e sulle conseguenti responsabilità. Dopo un attento esame
da parte del generale Gray e dei suoi collaboratori, l'incidente venne
dichiarato ufficialmente “causa di forza maggiore".
Nel comune di Balvano
è conservato un vecchio registro comunale in cui c'è l'elenco dei corpi
identificati: 429, null’altro. Gennaro Francione nel suo “Webprocesso”
riferisce di un tentativo dell’allora sindaco di intraprendere
un’inchiesta per accertarne le responsabilità ma fu prontamente distolto
dalle autorità alleate.
L’ultima indagine fu
condotta dal giudice del tribunale di Potenza. Ma nel '46 l'intera
pratica veniva archiviata, “non essendo stati riconosciuti gli estremi
del reato”. Ancora una volta i tentativi di far luce sull’accaduto si
risolvevano nel nulla.
Luisa Cozzolino, vedova Palombo, fu la prima ad
iniziare un’azione legale per risarcimento danni, citando le Ferrovie
dello Stato. Poi, presso il tribunale di Napoli, alla sua si aggiunsero
le citazioni di trecento famiglie: per la perdita del marito, del
fratello, della sorella, della madre, del padre, del figlio, della
figlia. Tutti deceduti sul treno n. 8017.
In una relazione
inviata dal ministro dei Trasporti a quello del Tesoro, nel gennaio del
1952, si legge: "Il treno si fermò perché il macchinista fu colpito
dalle tossiche esalazioni dei prodotti gassosi della combustione del
carbone, particolarmente ricco di ossido di carbone. In proposito vale
notare che, da parte del Comando alleato, venne imposto l'uso di tale
carbone, assolutamente inadatto per le locomotive allora in esercizio".
Anche gli Alleati condussero una inchiesta (affidata ai capitani Osborn
e Gilberston dell'armata francese), ma i risultati non furono mai resi
noti.
Dopo una tortuosa e
lunga vicenda giudiziaria, i parenti delle vittime hanno ottenuto un
risarcimento di 320.000 lire con una sentenza che ha inserito la vicenda
del treno n. 8017 tra gli "eventi bellici" e ha fatto valere la legge
speciale (N. 10, del 9 gennaio 1951) di cui è competente il Tesoro e in
base alla quale "viene concessa un'indennità per danni immediati e
diretti causati da atti non di combattimento, dolosi o colposi, delle
Forze armate alleate". Ma la burocrazia riscattò la sua precedente
benemerenza con il ritardo nelle liquidazioni le quali non sono ancora
state versate.
Mario Restaino riporta
"un appunto" ottenuto il 16 ottobre 1993 dall'on. Pasquale Lamorte, già
Presidente della Commissione Trasporti della Camera dei Deputati. Egli
lo aveva avuto, su sua richiesta, il 28 settembre. Il testo cita: “In
merito al disastro ferroviario avvenuto nella notte tra il 2 e 3 marzo
1944 sulla tratta Battipaglia-Potenza, nella galleria delle "Armi",
ubicata tra le stazioni di Balvano e Bella-Muro, fino ad oggi non si
sono rinvenuti atti riguardanti eventuale inchiesta amministrativa o
giudiziaria svoltasi all'epoca dell'accaduto. E' stato riferito dagli
Uffici competenti a custodire gli atti di eventuali inchieste svoltesi,
che tutto il materiale cartaceo non è più disponibile. Le vane ricerche
sono state svolte con ogni impegno sia presso la Sede centrale delle FS,
sia presso il Compartimento ferroviario di Napoli, ed in particolare
presso il Capo unità del tratto di linea interessato.
Dal ricordo di alcuni
congiunti delle vittime, si è appreso che la strage dei passeggeri
avvenne per avvelenamento provocato dal fermo della locomotiva a vapore,
in un tratto in salita, a metà galleria della lunghezza di 1.692 metri.
Si fa riserva di
fornire ulteriori notizie, appena possibile, dovendo proseguire le
ricerche presso la biblioteca centrale delle F.S. e presso la Funzione
Organizzazione, i cui Uffici provvidero a liquidare £.320.000 per ogni
vittima, a favore dei familiari.
Ove anche queste
ricerche dovessero risultare vane, resterà la sola possibilità di
chiedere notizie alle redazioni dei quotidiani dell'epoca".
L’ultimo atto è dovuto
all’On. Molinaro il quale nel 2004 presenta una proposta di legge,
rimasta tale, in cui si propone l’istituzione del Giorno della memoria e
del Museo della memoria in ricordo delle vittime della sciagura
ferroviaria di Balvano del 3 marzo 1944.
Nel testo si chiede altresì di continuare a far luce sulla tragedia in
quanto: “La ricostruzione dell'incidente, dopo sessanta anni, è ancora
frammentaria e parziale. Persino le Forze alleate di stanza in Italia
avviarono una inchiesta sull'incidente i cui risultati sono ancora
secretati”, quindi desecretarne tutti gli atti e i documenti riguardanti
la sciagura di Balvano compresi quelli coperti da segreto militare.
2.3 L’ECO MEDIATICA DELLA TRAGEDIA
In contrapposizione
alla pochezza della documentazione “ufficiale”, si ebbe un fiorire di
articoli che tentarono di analizzare l’accaduto sotto tutti i punti di
vista. Rilevante, ai fini di una definizione della portata del disastro,
il fatto che anche alcuni giornali stranieri si occuparono
dell’accaduto.
La situazione della
stampa nell’immediato dopoguerra non era semplice, infatti era presente
una forte censura: "in fatto di informazioni il Quartier generale
alleato si pone compiti di censura, di controllo e di propaganda. Questi
compiti sono affidati ad un reparto militare speciale denominato PWB,
Psycological Walfare Branch, letteralmente Branca per la guerra
psicologica, i cui quadri sono formati in prevalenza da giornalisti
inglesi e americani, alcuni dei quali conoscono l'Italia per avervi
lavorato prima della guerra".
Riguardo alla tragedia
ferroviaria, il primo articolo apparso su carta stampata risale al 5
marzo 1944, immediatamente (per la tempistica dell’epoca) dopo i fatti.
“L’Ordine”, periodico della DC pubblicò in terza pagina: “La
disciplina dei trasporti” recita il titolo, il testo è senza
commento: “Mentre andiamo in macchina apprendiamo che tra Picerno e
Baragiano un treno viaggiatori, proveniente da Napoli, per il
sovraccarico non ha potuto superare una galleria. Conseguenza: ben
quattrocento persone morte di asfissia! Ci sono mille motivi per pensare
che quel sovraccarico era di contrabbandieri e contrabbando. Imploriamo,
a nome delle vittime, che ci si decida una buona volta a regolare il
traffico dei viaggiatori”.
Il
6 marzo anche la stampa nazionale si occupò del triste evento: il
Corriere della Sera ospitò una piccola colonna in prima pagina: “Nell'Italia
meridionale Cinquecento
morti per soffocazione in una galleria
Lisbona 6 marzo.
L'agenzia Reuter
comunica da Napoli che cinquecento italiani sono periti venerdì mattina
per asfissia in una galleria ferroviaria dell'Italia meridionale. Altre
49 persone sono attualmente degenti all'ospedale. Per mancanza di treni
viaggiatori, un gran numero di persone era salito su un merci diretto
verso oriente, stipando i carri aperti che lo componevano.
Nell'attraversare una lunga galleria il treno, che già procedeva assai
lentamente, rallentava ancora la marcia, sicchè il denso fumo che
ingombrava la galleria stessa in seguito al passaggio di altri convogli
provocava la soffocazione della maggior parte dei disgraziati
viaggiatori”.
Lo
stesso giorno la notizia rimbalzò sulla stampa americana
su ben tre giornali, tra cui “The New York Times”, e il giorno seguente
anche a Londra,;
le notizie furono molto simili tra di loro e riferirono di un treno nel
sud Italia preso d’assedio da centinaia di passeggeri che per il troppo
peso si arrestò in un tunnel e per i fumi delle macchine morirono più di
500 persone la maggior parte clandestini - secondo The Times
e
The Monessen Daily Independent
-.
Il 7 marzo anche La
gazzetta del Mezzogiorno si occupa del caso e stranamente il
trafiletto appare come una traduzione quasi fedele dell’articolo prima
citato.
Da questi primi dati
si evince chiaramente che: il treno si trovava in una galleria in un
luogo imprecisato del sud Italia ed era preso d’assedio da centinaia di
abusivi; le cause furono l’eccessivo peso che impedì al treno di
proseguire e il fumo che saturò il tunnel avvelenando i passeggeri; ci
furono più di cinquecento morti e qualcuno si salvò. Dopodiché non se ne
scrisse più fino al 23 marzo quando Il Corriere di Salerno e
The New York Times pubblicarono il risultato dell’inchiesta sul
disastro ferroviario del 3 marzo conclusa dalla commissione ufficiale la
quale sentenziò che «La catastrofe è stata determinata da una
combinazione di cause materiali, quali densa nebbia, foschia
atmosferica, mancanza completa di vento, che non ha mantenuto la
naturale ventilazione della galleria, rotaie umide, ecc., cause che
malauguratamente si sono presentate tutte insieme e in rapida
successione. Il treno si è fermato a causa del fatto che scivolava sulle
rotaie e il personale delle macchine era stato sopraffatto
dall'avvelenamento prodotto dal gas, prima che avesse potuto agire per
condurre il treno fuori del tunnel. A causa della presenza dell'acido
carbonico, straordinariamente velenoso, si è prodotta l'asfissia dei
passeggeri clandestini. L'azione di questo gas è così rapida, che la
tragedia è avvenuta prima che alcun soccorso dall'esterno potesse essere
portato. È stato constatato che nessun fattore ha contribuito più di un
altro; quindi si può trovare giustificazione dell'avvenuto,
classificandolo, con fraseologia legale, un «caso di forza maggiore»
(in inglese “act of god”) piuttosto che negligenza di personale e
difetto di macchine. La cifra ufficiale mostrò che invece di 509 morti,
come precedentemente annunziato, le vittime furono 426 vittime, per
asfissia prodotta dall'acido carbonico.
Solo grazie alle battaglie legali dei parenti delle
vittime “La questione è tornata a galla, in sordina, nel 1946, ma
soltanto oggi, alla vigilia del giudizio di appello, il velo si è
squarciato completamente”.
Lo Stato perdendo avrebbe dovuto “spendere
un miliardo tra risarcimenti e spese, a meno che non si riesca a
spuntarla con il ricorso in Cassazione. Un miliardo per pagare 427 vite
umane”.
Quest’ultima ipotesi nel 1951, venne
riportata alla cronaca da Oggi e all’estero dal Time di
New York, che interruppero un silenzio durato alcuni anni per pochi
mesi.
Successivamente
iniziarono ad emergere le prime ricostruzioni tecnicamente più
dettagliate, per lo più su riviste americane dedicate ai treni; in
Italia ciò avvenne solo nel 1956 grazie a Giulio Frisoli che pubblicò in
L’Europeo un dettagliato resoconto in tre puntate avvalendosi
delle testimonianze del personale e di alcuni superstiti.
Col trascorrere degli anni pian piano emerse la
sete di giustizia, dignità e memoria di quanti persero i propri cari;
anche grazie alla sete di conoscenza di coloro i quali imbattendosi,
anche casualmente, in questo fatto, non riescono ancora a farsi una
ragione di come sia stato possibile ignorare per molto tempo la tragica
morte di più di cinquecento persone, sono stati pubblicati romanzi e
storie da persone coinvolte emotivamente nella vicenda per motivi
estremamente differenti, sempre tenendo presente il nefasto sfondo della
guerra.
Così sono stati
scritti altri articoli e indagini più o meno approfondite (l’ultima e
anche la più dettagliata è l’opera di Gianluca Barneschi, Balvano
1944), pur rimanendo in una situazione di scarsità di fonti, come
documenti introvabili e testimoni che, col passare degli anni, ci
lasciano o perdono i ricordi. L’unico problema che tutti questi scritti
risultano essere strettamente correlati tra loro come una matrioska e
non sono in grado di aggiungere nuovi elementi (come d'altronde questo
lavoro).
Nel film Tutti a
casa del 1960 diretto da Luigi Comencini e con Alberto Sordi,
l'episodio del treno superaffollato bloccato dal fumo in galleria è una
diretta citazione della tragedia del treno 8017.
Un altro contributo
importante alle memoria lo offre il cantautore statunitense Terry Allen
con il brano “Galleria dele Armi” contenuto nell’album Human
Remains del,1996.
Negli ultimi anni sono
stati realizzati convegni e seminari anche a livello accademico, come il
progetto dell’associazione Sui-Generis “Viaggio
nella storia: il Treno Maledetto”, nel quale sono stato
personalmente coinvolto nella fase di promozione e realizzazione e che
ha visto coinvolte l’Università degli
Studi di Salerno e l’Università della Basificata, sopratutto grazie alla
collaborazione scientifica e agli sforzi del prof. Vincenzo Esposito, il
quale ne ha realizzato uno documentario.
In questo processo
sono sempre più coinvolte le varie istituzioni a livello locale e si
spera di giungere sempre più in alto fino ad arrivare al riconoscimento
da parte dello Stato italiano del giorno 3 marzo come Giornata della
Memoria delle vittime dell’8017.
Una grande spinta alla
ricerca oggi è data da internet che permette praticamente a chiunque di
poter attingere alle informazioni finora disponibili e fa da vettore tra
i vari gruppi di interesse: infatti in relazione all’evento in esame si
possono segnalare due siti, www.antiarte.it e www.trenidicarta.it, che
oltre ad essere dei maxi-contenitori in cui è contenuto tutto il
materiale finora prodotto, sono delle vere e proprie community di
persone che tengono ancora vivo l’interesse per il treno della morte.
Anche in www.facebook.com, la community più grande a livello planetario
e la più in voga del momento, è nato un gruppo dedicato al treno 8017.
Tra l’altro navigando
in rete non è difficile imbattersi in blog che ultimamente nascono a
ritmo sempre maggiore consentendo sempre a più persone di entrare in
contatto, attraverso il mondo virtuale, con la realtà di questo triste
evento ed è facile leggere lo stupore sul viso di chi ne viene a
conoscenza per la prima volta.
CAPITOLO III
DOPO LA TRAGEDIA, L’OBLIO.
DOPO L’OBLIO, LA MEMORIA
3.1 LA RIMOZIONE
In tutte le epoche e
culture la storia è scritta sempre dai vincitori.
La storia può essere
affidata alla scrittura e quindi non vi sono limiti alla quantità di
fatti e nozioni che possono essere conservati nel tempo. Nelle società
che non utilizzano questo strumento la trasmissione delle conoscenze è
affidata ai singoli individui e alla loro capacità di ricordare.
Come è noto il Governo
italiano dell’epoca della tragedia del treno 8017 era fortemente
controllato dalle forze alleate, le quali tentarono di nascondere agli
occhi di tutti un’immane tragedia. Il compito fu molto semplice, bastò
una forte censura e rendere inaccessibili tutti gli atti ufficiali; il
resto lo fece la guerra.
La tristezza e la
paura che generava il conflitto avevano piegato il morale degli
italiani, si viveva a fatica, ogni giorno era pieno di orrori, c’era un
paese e molte vite da ricostruire; la cosa migliore da fare era
dimenticare. Infatti gli orrori della seconda guerra avevano consegnato
alla memoria una mole incredibile di eventi tale da saturare la memoria
collettiva, dove le vittime del “treno della morte” non trovarono alcun
posto.
Il motivo per cui si
mise in atto questo tentativo di rimozione fu, presumibilmente, la
volontà di non abbattere ulteriormente il morale della nazione. Il
“Times”, nel 1951, confermò che “il Governo alleato si sforzò di
occultare l’incidente per evitare l’effetto deprimente sul morale degli
italiani”; ma con ogni probabilità si volevano nascondere le vere
responsabilità e cercare di mantenere la fiducia da parte degli italiani
nei confronti degli anglo-americani.
Nel definire
“viaggiatori di frodo” tutti defunti c’era il chiaro intento politico di
minimizzare l’accaduto, rendendoli morti di “serie B”, più facili da
dimenticare; emblematico è il racconto di Alessandro Perissinotto. In un
suo romanzo, le vicende del protagonista si intrecciano con la storia
dell’8017. Le riflessioni del protagonista, Adelmo Baudino, riguardavano
il “diverso il peso dei morti”. Nel 1944 si moriva per svariati motivi,
scrive Perissinotto, ma, continua, come è possibile che la morte di 500
persone in un treno sia inutile e insensata mentre per altre centinaia
di morti (Foibe, Fosse Ardeatine) il destino abbia riservato una fine
gloriosa? Per quest’ultimi c’era un perché, una causa e una ragione per
cui morire; per i morti della galleria non c’era nulla, solo la morte
stessa.
Affermare che le
responsabilità morali vadano ascritte ai nostri occupanti non
sembrerebbe un azzardo: erano loro che regolavano i trasporti,
organizzavano gli itinerari, fornivano il carbone. In una pratica
ingiallita dell'Avvocatura di Stato è riportata la deposizione di un
funzionario in carriera all'epoca della A.M.G.O.T.,
dove si dice: "Tutti gli ordini relativi all'organizzazione, al
movimento e ai servizi giungevano direttamente dal M.R.S. (Military
Railways Service), ossia dal generale Gray e dal colonnello Horek"
Fu “un disastro
dimenticato con la stessa velocità con la quale ufficiali inglesi e
americani intimarono di scavare tre grandi fosse comuni nel cimitero di
Balvano per seppellire le centinaia di cadaveri, che non sarebbero mai
stati conteggiati né fra i morti di guerra né tra quelli della pace da
riconquistare. Erano i morti della miseria, da dimenticare”.
L’oblio prevalse, la
stampa diffuse pochissime notizie, senza alcun particolare, e nel corso
degli anni dalle sporadiche analisi e ricostruzioni non si è potuto
apprendere ancora oggi la verità, non ci sono responsabili e non si può
contare un numero certo delle vittime (da 426 identificati a oltre 600).
Si può solo cogliere il dolore dei loro parenti; gli unici che si sono
prodigati per i loro cari. Dapprima s’impegnarono per chiedere
giustizia; ora, dopo oltre 60 anni, rivendicano che lo Stato riaccolga i
propri figli restituendogli più di mezzo
secolo di dignità.
3.2 I CUSTODI DEL RICORDO
I parenti delle vittime sono stati, in tutti questi anni di oblio, i
veri custodi della memoria. Esemplare è l’operato di Salvatore
Avventurato, che nella sciagura perse il padre, il fratello e lo zio;
egli si prodigò fino alla morte per ricordare i suoi cari. Quando
apprese la notizia e riuscì a raggiungere Balvano i morti erano già
stati sepolti nelle fosse comuni, per cui nulla poté fare per loro.
Promise alla madre una tomba per quei poveretti.
Don Salvatore, come era conosciuto nel paese, fu un esempio di
generosità;
dopo molti anni di lavoro e sacrifici e riuscì ad edificare nel 1972 una
cappella, un “in memoria degli stessi, al ricordo dei posteri, fece
erigere questo asilo di pace, ove ricompose i miseri resti”.
A Balvano c’è sempre stato un via vai di “napoletani”, ad ogni novembre
e marzo tornano per deporre qualche fiore e pregare per le anime dei
propri congiunti. Oggi purtroppo sono sempre di meno ma non perché sia
morto il loro interesse, semplicemente è passato molto tempo.
In tutti questi anni neppure la popolazione di Balvano ha dimenticato.
Il fato ha voluto che a questo piccolo paesino tra le colline lucane,
palcoscenico di questa triste storia, fosse affidata la memoria. In
paese tutti sanno della sciagura delle “Armi” e molti hanno partecipato
alle operazioni di soccorso nonostante l’orrore che si trovarono davanti
agli occhi. Tanta morte in così poco tempo e spazio è impossibile da
cancellare ed è sentimento diffuso far sì che si continui a ricordare e
che le ricerche vadano avanti. Il pianto di centinaia di famiglie
residenti a più di 100 km è stato affidato a questa comunità e ad un
cimitero troppo piccolo.
Dal racconto di Pietro Rossini emerge un quadro delicato e triste, la
storia di un padre che parte per il bene della sua famiglia, per
barattare alcune povere cose, tra cui il suo cappotto militare, con del
cibo, e che non farà più ritorno a casa.
La vita di Giorgio Rossini si ferma a 47 anni nella Galleria delle Armi.
Ciò che il Sig. Pietro sa della morte di suo padre, è che gli “errori
umani sono quelli dei ferrovieri, poi degli alleati che hanno messo le
due macchine che non ce la potevano fare. I ferrovieri perché hanno
messo due macchine in testa al treno, e queste due macchine non si
guardavano tra di loro perché una delle due era austriaca ed aveva il
posto di guida all’altro lato, e l’unico segnale per comunicare tra di
loro era il fischio del treno, ma sotto a quel fumo nemmeno il fischio
del treno si sentiva più”. Secondo il Sig. Pietro, se ci fosse stata
una macchina avanti e una indietro al treno, il gas sarebbe stato
ridotto della metà perché la seconda locomotiva avrebbe scaricato
all’esterno.
Ricorre, anche nel racconto del Sig. Pietro, la questione del carbone: “E
poi, la causa principale è il carbone che era jugoslavo e non italiano.
Quello che tenevamo noi, da dove lo portavamo noi, era il migliore e se
lo sono presi gli alleati per far fronte alla guerra, a Cassino”.
Riguardo a quanto lo Stato ha fatto sino ad oggi, la risposta del Sig.
Pietro è lapidaria: “Non hanno fatto niente, perfettamente niente”.
Egli sostiene che il Governo Badoglio appena insediato non poteva
assumersi una responsabilità simile, “e allora hanno cancellato
tutto. Gli alleati volevano bruciare i morti, e gli americani hanno
tolto proprio dagli archivi queste cose”. Interviene, a questo
punto, Roberto, genero di Pietro: “Anche perché erano loro i
responsabili, e hanno pensato che tanto è una tragedia nella grande
tragedia della guerra e hanno preferito occultare il tutto”.
Il Sig. Pietro imputa anche alle condizioni meteorologiche di quella
notte parte della colpa: “il freddo era il più rigido che ancora non
è venuto quello qua, quel freddo. Io mi ricordo che l’aria era ferma,
gelata, nevicava e non si respirava. E questo fa si che l’umidità non fa
salire il fumo”. In relazione a questo, Roberto sottolinea come
l’idea di bruciare i cadaveri per evitare un’epidemia sarebbe stata
semplicemente un tentativo di cancellare le prove, “perché sapevano
che se qualcuno avesse iniziato a fare ricorso, gli americani avrebbero
dovuto sborsare un sacco di soldi”.
Il ricordo della tragedia rivive non solo nei cuori di chi, come il Sig.
Pietro, ha perso un caro, ma anche sul palcoscenico, in uno spettacolo,
intitolato “O' cunto do' quatto e coppe”, in cui le storie
narrate dagli attori, giovani detenuti del carcere
dell'ICATT (Istituto di custodia attenuata per tossicodipendenti) di
Eboli che hanno aderito al programma “Arte per la salute” e che
compongono il gruppo “Uommene & tambure”, ripercorrono le
drammatiche storie delle vittime della tragedia della Galleria delle
Armi. Il Sig. Pietro ha saputo dal parroco del suo paese dell’esistenza
di questo spettacolo, ha deciso di assistervi ed ha sinceramente
apprezzato la rappresentazione, che lo ha profondamente commosso: “Io
piangevo solo qua… la verità, questi ragazzi sono stati fantastici”.
Proprio il regista di questa particolare rappresentazione, Pino Turco,
si è reso disponibile a rilasciare una intervista, mostrando meraviglia
in quanto, come lui stesso dice, “Grazie a te per l’attenzione… sei
il primo, in due anni, che si mostra interessato alla vicenda”.
Pino Turco racconta di essere venuto a conoscenza della tragedia di
Balvano nel corso di Scuole Aperte presso l’I.C. Giulio Cesare Capaccio
di Campagna (Sa), quando il 3 marzo 2008 è accaduto che il Prof.
Vincenzo Esposito “ha narrato una storia terribile che noi abbiamo
messo nel nostro contenitore ‘cose da non dimenticare’. È la
storia, di cui ieri è caduto l’anniversario, di un disastro ferroviario
avvenuto in una galleria presso il paese di Balvano, in Basilicata, in
cui un treno merci, ma stracarico di passeggeri (alcuni paganti), a
causa delle sue locomotive a carbone ha causato la morte di più di
seicento persone”. Da quel momento la “Storia tragica” del treno
8017 è diventata Memoria, e con essa si sono confrontati i bambini delle
classi seconda e terza della scuola primaria ed oggi è uno dei temi
trattati dai componenti del gruppo “Uommene&Tambure” nato nella
struttura dell’ICATT di Eboli (Sa). Il tema è stato scelto perché, a suo
modo, ha una consistenza ed una ripercussione
sulla vita contemporanea di tutto rilievo. Le “morti annunciate” sono di
grande attualità, al punto che le notizie di morte sul lavoro non “fanno
più notizia” da tempo.
Secondo Turco, si tratta di un disastro “oscuro” perché non ne è stato
dato il peso necessario ed “intricato” solo in apparenza. Se fossero
state seguite delle semplici norme di sicurezza il “disastro” non
sarebbe accaduto. Nello spettacolo, gli aspetti che vengono messi in
rilievo sono: “lo stupore della gente comune davanti ai “fatti” ed
alle “parole” che hanno (o non hanno) descritto questi fatti. Non a caso
il primo intervento dell’attrice è in americano, lingua incomprensibile
agli “abitanti del luogo” che hanno subito la tragedia. Poi, la facilità
con cui le autorità del tempo (e tutte quelle avvicendatisi al potere
fino ad oggi) hanno liquidato il caso. Ancora, la disperazione nel
riconoscersi, per analogia di ceto sociale, condizioni di vita, mancanza
di “cibo”, assenza di possibilità di riscatto, nelle vittime che hanno
il solo, tragico, difetto, di essere nati “povera gente”.
Lo spettacolo teatrale, oltre ad avere il merito di ricordare al
pubblico questa tragedia, è stato anche un momento di crescita per i
“temporaneamente detenuti”, i quali provengono tutti dal mondo della
tossicodipendenza “ed hanno così potuto sostituire il personaggio
negativo dell’Io drogato che loro “rappresentano” nel mondo, con il
personaggio positivo del Teatro a cui danno rabbia e dolcezza e amore.
E questo li fa crescere, giorno per giorno”.
La scelta di far narrare la Memoria del Treno 8017 ai ragazzi dell’ICATT
non è casuale: la maggior parte di loro proviene dai luoghi di origine
delle seicento vittime della tragedia ed il loro status si
avvicina molto a quello dei vinti dalla vita che compongono quella
moltitudine brulicante che sembra non avere nessuna collocazione nella
Storia e viene alla ribalta solo per tragedie, come quella del treno o
per morti sul lavoro o disastri imputabili alla miseria cronica in cui
sono costretti a vivere.
Infine, un altro importante custode della memoria, forse quello che
maggiormente si impegna per far sì che la tragedia non si perda
nuovamente nell’oblio, è Gennaro Francione, nipote di una delle vittime,
che ha creato un sito internet “per ricordare tutti quei morti,
vittime di un olocausto inutile, frutto della guerra e della vita
cosiddetta civile che sopraffà i poveri”.
L’obiettivo è di ricostruire i dati di ognuna delle vittime attraverso
testimonianze, documenti e quant’altro per far sì che “ogni martire
del treno di luce non abbia solo un nome e scarni identificativi, ma
ridiventi persona, con la ricostruzione nella memoria cosciente
collettiva di frammenti della sua vita”.
Il Sig. Francione ha tratto, da quanto accaduto, le sue conclusioni: “Sulla
base dei dati raccolti il disastro fu determinato da un serie di
concause, la più gran parte dei quali è ascrivibile all'errore umano. Il
carbone di qualità scadente, gli eccessi (il peso) e i tentativi
maldestri di assicurare, comunque, il viaggio del convoglio con la
doppia locomotiva, unitamente alla mancanza di coordinamento tra i due
macchinisti o tra i macchinisti e i frenatori (che non furono addestrati
ad agire all'unisono in caso di emergenza), causarono il disastro.
Conseguentemente lo Stato italiano e il Comando Alleato (per cui ordine
partì il treno col carbone scadente) erano tenuti solidalmente a
risarcire le vittime poco importando che sopra vi fossero abusivi. Il
biglietto, infatti, si limita a regolare un rapporto amministrativo; la
mancanza del titolo di viaggio come visto è sanzionabile ma non elimina
la responsabilità dell'ente gestore delle ferrovie. Questo avrebbe
dovuto impedire, per motivi di sicurezza, che tutta quella gente salisse
sul treno, alias si doveva fermare il treno. Facendolo marciare,
comunque, l’ente andava incontro attraverso i suoi operatori, in
concorso col Comando alleato, a responsabilità penali e civili connesse
al disastro colposo (art. 449 codice penale con pena della reclusione da
uno a cinque anni raddoppiata dal secondo comma trattandosi di disastro
ferroviario)”.
Anche secondo il Sig. Francione lo stato italiano ha fatto poco o nulla
per ricordare le vittime, “anzi ha cercato di dimenticarle” per
nascondersi da palesi responsabilità. Ed ha continuato ad essere
reticente nonostante la tragedia sia stata riportata alla memoria
collettiva sin dal 2004, quando il padre del Sig. Francione, che nel
disastro aveva perduto la madre (Giulietta Brancaccio, di 44 anni) era
stato ospite a “La vita in diretta”, programma della Rai.
3.3 LA MEMORIA
Nessuna Spoon River dei poveri ha mai raccontato le loro storie.
(Antonio Manzo, Il Mattino, 29 febbraio 2004)
Nel 1994, esattamente dopo 50 anni, Mario Restaino pubblica
un’interessante ricostruzione dei fatti dell’8017 (Un treno,
un’epoca:storia dell’8017, Arti Grafiche Vulture) che fornisce un
quadro della vicenda abbastanza dettagliato, senza giungere alla
conclusione del caso ma aprendo la strada a nuove ricerche.
Dopo altri 10 anni, nel 2004, tra le commemorazioni dei 60 anni di tutto
ciò che era accaduto in quel lontano 1944, è sempre più forte
la volontà di ricordare il disastro di
Balvano. Se ne occupò anche la televisione, la ribalta nazionale portò
l’evento nelle case di tutti, anche su internet era già consultabile
tutto il materiale disponibile. I tempi sembravano maturi, il 10 marzo
l’On. Giuseppe Molinari presentò alla Camera dei Deputati una proposta
di legge per l’“istituzione del Giorno della memoria e del Museo della
memoria in ricordo delle vittime della sciagura ferroviaria di Balvano
del 3 marzo 1944”
ma finora lo Stato non ha mostrato il minimo interesse al riguardo,
infatti alle tante richieste di offrire un cenno di ricordo le
istituzioni nazionali (quelle locali invece hanno patrocinato le
manifestazioni) è stata contrapposta una forte indifferenza, al punto da
spingere Vincenzo Francione, che perse la madre nell’evento, ad
istituire il 3 marzo la Giornata della Dimenticanza, in cui lo Stato si
dimentica dei suoi figli.
L’opera di Barneschi ha aggiunto ulteriori particolari alla vicenda
svelando nuovi atti redatti dagli alleati, proseguendo e completando il
lavoro di Restaino; purtroppo egli ritiene che la documentazione
italiana più rilevante è mancante o è stata distrutta con molta
accuratezza. In qualunque fonte d’archivio là dove si sarebbe dovuto
parlare del caso vi sono dei vuoti imbarazzanti, tutto è stato rimosso
con minuziosa perizia.
Oggi la ricerca della verità, vanificata dal disinteresse istituzionale,
non è più possibile, ma è possibile rendere omaggio alle vittime tramite
il ricordo della loro morte che deve avere lo stesso peso di altre morti
tanto compiante.
CONCLUSIONI
La vicenda del treno 8017 resterà, forse, uno dei tanti misteri
italiani, una di quelle tragedie senza un perché la cui soluzione si
trova all’interno di polverosi plichi che non vedranno più la luce.
Si tratta di un caso eclatante di omissione e di umiliazione della
verità al solo scopo di salvare degli equilibri che, al tempo in cui si
consumò la tragedia, erano sin troppo precari.
Sembra assodato che la causa della morte degli sventurati passeggeri del
“treno maledetto” fu il carbone o, meglio, le venefiche esalazioni di un
carbone di pessima qualità fornito dagli Alleati in sostituzione di
quello, di buona qualità, che mai aveva provocato incidenti.
Il quadro della tragedia è tracciato seguendo le linee guida contenute
nelle testimonianze – purtroppo esigue – di persone coinvolte a vario
titolo, ma esse, seppur concordanti tra loro su diversi punti,
discordano quasi completamente dalle versioni ufficiali, e ciò sembra
alimentare ulteriormente il sospetto di un procedimento per “insabbiare”
la vicenda. In particolare, la lucida testimonianza del Sig. Gentile
mette in discussione tutta la questione relativa alle responsabilità
che, in prima battuta, erano state addossate ai vari capistazione.
Infine, rilevante è il contributo che, a distanza di tanti anni,
forniscono i giovani, che pur non avendo vissuto la tragedia in prima
persona, l’hanno rivissuta nei racconti dei soccorritori e di chi, in
qualche modo, ne fu coinvolto: proprio loro, infatti, attraverso
l’attiva partecipazione alle cerimonie di commemorazione e tramandando
il racconto dell’evento - nel totale silenzio e disinteresse da parte
delle istituzioni - permettono di mantenere vivo il ricordo dei
passeggeri che incontrarono la morte in una fredda notte invernale e
che, se dimenticati, morirebbero ancora una volta.
Infine, l’idea del Sig. Francione, Consigliere della Corte di
Cassazione, scrittore e artista, direttamente interessato dalla tragedia
di Balvano perché nipote di una delle vittime, di istituire il 3 marzo
come “Giornata della Memoria” potrebbe lenire il dolore di chi, ancora,
si reca a rendere omaggio ai propri cari nella cappella del cimitero di
Balvano in cui le spoglie delle vittime riposano. Il Sig. Francione
sintetizza, in una sua bella frase, quello che è il sentimento comune
tra i familiari delle vittime: «Spero che un giorno venga sollevato
il velo su un fatto tanto grave. E forse alle famiglie delle vittime
dopo tanto tempo basterebbe che le Ferrovie e il ministero della Difesa
deponessero un mazzo di fiori. Basterebbe quello».
Appendice
Le testimonianze
Interviste ai familiari delle vittime
Intervista
a Gennaro Francione, nipote di
Giulietta Brancaccio, perita nel disastro
D. Giudice Francione vuol ricordarci chi è lei e che influenza ha avuto
in questa storia?
R. Sono Gennaro Francione, figlio di Vincenzo, nipote di Gennaro e
Giulietta Brancaccio, la mia nonna perita nel tragico disastro. Molti
elementi della conversazione con lei traggo dal mio sito
http://www.antiarte.it/trenodiluce e dalla pagina di Facebook
http://www.facebook.com/group.php?gid=106617610104&ref=ts#/group.php?gid=125209645401&ref=search&sid=1633929201.774805653..1.
Scrivo in home page del sito TRENODILUCE: Oggi 3 marzo 2004, giorno del
60° anniversario della Tragedia di Balvano, nasce la Cyberassociazione
"Treno di Luce 8017" con il compito di riunire i familiari ed amici
delle circa 600 vittime del treno che si fermò nella Galleria delle Armi
(poi rinominata Galleria della morte) nella notte tra il 2 e 3 marzo
1944, uccidendo i suoi occupanti con l'ossido di carbonio. Il Treno di
Luce non è solo un convoglio materiale ma un mezzo celeste per ricordare
tutti quei morti, vittime di un olocausto inutile, frutto della guerra e
della vita cosiddetta civile che sopraffà i poveri. Per questo il Treno
di Luce vuol viaggiare sulle rotaie del Cyberspazio per portare il suo
messaggio di pace contro la guerra e la sopraffazione dei deboli ad
opera dei forti. Firmato: Gennaro Francione, nipote di Giulietta
Brancaccio, 44 anni, perita nel tragico disastro.
D. Il sito Trenodiluce ha, dunque, un valore simbolico?
R. Certamente è un inno alla pace. Ma è anche un archivio di documenti,
testimonianze, opere etc. In particolare mi è servito per fare della
microstoria. Ad es. il giornalista di Potenza Mario Restaino, nel suo
libro Un treno, un'epoca: storia dell'8017 (Melfi, Arti grafiche
Vultur, 1994), ha compilato un elenco delle vittime identificate sulla
base degli atti ufficiali. Ciò ha costituito una tavola d’inizio della
ricostruzione sempre più precisa da me effettuata grazie a mail di
parenti delle vittime, testimoni etc. che mi scrivevano e correggevano,
precisavano, mandavo foto etc. Il progetto (ancora in corso) è di
ricostruire i dati di ognuno dei deceduti attraverso testimonianze,
documenti etc. per far sì che ogni martire del treno di luce non abbia
solo un nome e scarni identificativi, ma ridiventi persona, con la
ricostruzione nella memoria cosciente collettiva di frammenti della sua
vita.
D. Quali sono le cause e le eventuali
responsabilità umane che hanno provocato la tragedia del treno 8017?
R. Riporto dal sito TRENODILUCE: CONCLUSIONI ATTUALI: CONCAUSE DELLA
TRAGEDIA. Sulla base dei dati raccolti il disastro fu determinato da un
serie di concause, la più gran parte dei quali è ascrivibile all'errore
umano. Il carbone di qualità scadente, gli eccessi (il peso) e i
tentativi maldestri di assicurare, comunque, il viaggio del convoglio
con la doppia locomotiva, unitamente alla mancanza di coordinamento tra
i due macchinisti o tra i macchinisti e i frenatori (che non furono
addestrati ad agire all'unisono in caso di emergenza), causarono il
disastro. Conseguentemente lo Stato italiano e il Comando Alleato (per
cui ordine partì il treno col carbone scadente) erano tenuti
solidalmente a risarcire le vittime poco importando che sopra vi fossero
abusivi. Il biglietto, infatti, si limita a regolare un rapporto
amministrativo; la mancanza del titolo di viaggio come visto è
sanzionabile ma non elimina la responsabilità dell'ente gestore delle
ferrovie. Questo avrebbe dovuto impedire, per motivi di sicurezza, che
tutta quella gente salisse sul treno, alias si doveva fermare il treno.
Facendolo marciare, comunque, l’ente andava incontro attraverso i suoi
operatori, in concorso col Comando alleato, a responsabilità penali e
civili connesse al disastro colposo (art. 449 codice penale con pena
della reclusione da uno a cinque anni raddoppiata dal secondo comma
trattandosi di disastro ferroviario).
D. Dal 3 marzo 1944 ad oggi,cosa è stato fatto dallo Stato Italiano per
individuare queste cause, e per ricordare le sfortunate vittime di
questa tragedia?
R. Lo stato italiano ha fatto poco o nulla per ricordare le vittime anzi
ha cercato di dimenticarle. Più volte mio padre mi chiedeva –forse
parlando più che al figlio al giudice per chiedere giustizia – come si
potesse far tornare alla memoria generale i poveri 600 morti
dimenticati. Nel 2004 sono riuscito a portarlo alla Vita in diretta
e là, dopo la sua toccante testimonianza, si è creato un movimento di
rievocazione culminato soprattutto nel libro di Gianluca Barneschi “Balvano
1944. I segreti di un disastro ferroviario ignorato”
e nella ricerca scientifica del prof. Vincenzo Esposito,
antropologo dell’Università di Salerno, culminata nei due convegni del
2006 e 2011. Riporto dal sito il comunicato della trasmissione di
Cocuzza del 3/2004, h 17.15: COMUNICATO STAMPA - Il giorno mercoledì 24
marzo alle ore 15,30, per la rubrica "Un giorno speciale" condotta su
RAI Uno da Michele Cocuzza, il giudice drammaturgo Gennaro Francione
ricorderà col padre e con alcuni testimoni, tra cui un superstite il
più grave disastro su rotaie della storia europea, dimenticato dalla
cattiva coscienza collettiva, preso a emblema di un urlo dei diseredati
contro ogni guerra e contro la sopraffazione dei poveri ad opera dei
forti. L'evento, nel sessantennale dal suo verificarsi, è stato
finalmente rievocato dalla grande stampa nazionale con articoli apparsi
su "Il Corriere della Sera", "Famiglia Cristiana", "Il Mattino".
D. Perché secondo lei c'è sempre stata la volontà dello stato Italiano
di insabbiare e nascondere questa gravissima tragedia?
R. Per nascondere palesi responsabilità. La cosa grave è stata il
protrarsi della reticenza sui fatti malgrado gli stessi siano stati dal
2004 riportati alla memoria collettiva. In conseguenza della reiezione
della petizione proposta dai familiari delle vittime (circa 500 firme
raccolte) di istituire un giorno della memoria da parte della presidenza
della Repubblica e di altre istituzioni, il Gruppo dal basso proclamava
provocatoriamente il 3 marzo di ogni anno Giorno della Dimenticanza (in
contrasto con i gloriosi Giorni della Memoria), quello in cui le
istituzioni si dimenticano dei propri morti. In un paese ancora a caccia
di democrazia reale ci sono ancora distinzioni, in contrasto con l’art.
3 della Costituzione, tra cittadini di serie a e di serie b, vivi o
morti che siano.
D. Oggi dopo 67 anni, cosa si potrebbe fare secondo lei per ricordare e
non dimenticare la tragedia?
R. Intanto istituire il giorno della Memoria anche per i poveri morti
della Galleria delle Armi. In attesa andiamo avanti con la nostra
massiccia controinformazione via web, università, arte, teatro.
D. Ha visto la rappresentazione teatrale sulla vicenda del treno 8017
realizzata dai detenuti del carcere di Eboli? Cosa ne pensa?
R. Molto toccante. Il fatto che detenuti si facciano messaggeri di
verità per i nostri morti è davvero edificante nella comune ricerca di
riscatto dei devianti vivi e dei poveri defunti dimenticati. Il teatro è
una via per trasformare i 600 dimenticati di Balvano paradossalmente in
eroi mitici. Vari libri, opere teatrali etc. sono stati scritti,
rappresentati per ricordare il Treno 8017. Io stesso ho ricordato la
tragedia nel racconto Il verro di Baragiano (ha vinto il 1°
premio della sezione Narrativa del concorso letterario Il Telescopio).
Il racconto è tratto dal mio romanzo Calabuscia dove narro la
fuga dopo l'armistizio lungo tutto la penisola di due napoletani, padre
e figlio, alla ricerca di una salvezza che si rivela una mera chimera.
La vita è un'eterna Calabuscia, una gabbia. Dopo che miracolosamente
un'intera famiglia è uscita intatta dalla guerra, nel sud liberato
accade la tragedia che uccide nonna Giulia (Aetas Internazionale - Roma,
ottobre 1994). Il racconto è stato utilizzato con pezzi di altri autori
(Salvatore Argenziano, Gianluca Barneschi, Dino Becagli, Andrea Di
Consoli, Giuseppe Lupo, Pasquale Pace, Mario Restaino, Mimmo Sammartino,
Mario Santoro, Mario Trufelli) dal regista Dino Becagli nella splendida
messinscena di DAL TRENO DELL’OBLIO - Balvano 3 Marzo 1944 (Potenza,
2010, 2001).
D. La sua famiglia ha mai ricevuto un risarcimento dallo Stato?
R. Sembra di sì. Dico “sembra“ perché la somma corrisposta non fu mai
versata ai miei familiari dall’avvocato. Perché no? Non me lo chieda.
Misteri di Napoli, come a dire no comment.
D. Oltre a queste domande, vuole aggiungere altro?
R. Da giudice emetto la mia sentenza.
La giustizia da noi invocata dallo Stato Italiano non è stata resa.
Bastava così poco… Nel tempo, lotteremo per conseguirla, immancabile,
per noi, per i nostri poveri morti, per il mondo, urlando la nostra
rabbia contro i costruttori di macchine e ordigni da guerra, unendoci
sul Treno della Luce 8017 per lanciarglielo contro come un uragano di
pace e disarmarli per sempre.
Intervista
a Pietro Rossini, figlio di
Giorgio Rossini, perito nel disastro.
All’intervista sono presenti anche il genero del Sig. Pietro, Roberto, e
la figlia, Carmela, che in alcuni punti prendono la parola.
P. Noi ci morivamo di fame, non c’era niente e mio padre è partito, e
quella è la fine che ha fatto. Mio padre si chiamava Giorgio Rossini e
aveva 47 anni. Lui portava un cappotto militare, che forse era il suo e
aveva fatto la guerra del 1915-18, per cambiare con la merce dei
contadini, per barattare e sfamare la famiglia. Mia madre gli disse:
Giorgio, non te lo portare proprio questo cappotto, perché i ragazzi
sono tre, poi crescono e quindi può servire sto cappotto. Ma lui lo mise
nella valigia e se lo portò. E poi portava una borraccia di una signora
di Brignano(Sa), che gli disse visto che vai portami due litri d’olio. E
dopo che lui è morto questa signora è venuta da mia madre e ha preteso,
ha voluto la borraccia…pensa un po’ che gente.
D. E quindi quali sono le cause e le eventuali responsabilità umane
che hanno provocato la tragedia del treno 8017?
P. Gli errori umani sono quelli dei ferrovieri, poi degli alleati che
hanno messo le due macchine che non ce la potevano fare. I ferrovieri
perché hanno messo due macchine in testa al treno, e queste due macchine
non si guardavano tra di loro perché una delle due era austriaca ed
aveva il posto di guida all’altro lato, e l’unico segnale per comunicare
tra di loro era il fischio del treno, ma sotto a quel fumo nemmeno il
fischio del treno si sentiva più…e allora è successa la tragedia, perché
se ci fosse stata una macchina avanti e una indietro al treno, il gas
dei carboni era a metà, scaricava dietro, per esempio è come a un
bicchiere d’acqua che se ne bevi mezzo è una cosa e se lo bevi intero è
un’altra cosa. E quindi l’errore l’hanno fatto i ferrovieri a
Battipaglia, perché quella macchina austriaca era molto potente per
l’alta montagna, però non era per il traino ma era per la spinta e
quindi dovevano metterla dietro al treno. Poi la rigidità atmosferica,
io mi ricordo bene che quella mattina faceva molto freddo. Mio padre non
tornò a casa e dopo tre o quattro giorni arrivò la notizia dei
carabinieri o di qualcuno, adesso non ricordo bene, che i documenti sono
stati portati in Sicilia, perché lui era siciliano e teneva ancora la
residenza in Sicilia. E poi, la causa principale è il carbone che era
jugoslavo e non italiano. Quello che tenevamo noi, da dove lo portavamo
noi, era il migliore e se lo sono presi gli alleati per far fronte alla
guerra, a Cassino. Poi per quanto riguarda il fatto dei ferrovieri, io
sono andato anche dal presidente dei ferrovieri ma non sono riuscito a
niente, perché non si prendono le colpe. Poi ho parlato con l’onorevole
Tino Iannuzzi, un mio amico, per vedere di fare un po’ di memoria per
mio padre e per tutta sta povera gente. Andai là e mi disse che non si
poteva fare niente perché ci vuole una legge, e per fare una legge di
questa e con questi tempi che corrono…
D. Dal 3 marzo 1944 ad oggi, cosa è stato fatto dallo stato italiano per
individuarne le cause, e per ricordare e non dimenticare le vittime di
questa sciagura?
P. Non hanno fatto niente, perfettamente niente. Sono stati cancellati
perché in quei tempi, nel 1943 venne l’armistizio il 9 settembre, e poi
nel 1944 è stato fatto il governo Badoglio a Salerno, per dividersi dal
regime di Mussolini. E il governo Badoglio appena iniziato questo, non
si poteva assumere una responsabilità simile, e allora hanno cancellato
tutto. Gli alleati volevano bruciare i morti, e gli americani hanno
tolto proprio dagli archivi queste cose.
R. (genero di Pietro): Anche perché erano loro i responsabili, e hanno
pensato che tanto è una tragedia nella grande tragedia della guerra e
hanno preferito occultare il tutto.
P. Io non ho mai pensato a queste cose perché nessuno ne parlava,nessuno
diceva niente, solo quando nel 1978 è uscito un articolo su famiglia
cristiana della tragedia di Balvano. Ho preso questo giornale, e dissi
all’avvocato: avvocato vedete che ci sta qua sopra. E lui disse: ah… mò
facciamo soldi. Passarono una quindicina di giorni e dissi: avvocato ma
del fatto di mio padre non avete detto niente più. E lui disse: No, ma
quello è andato tutto in prescrizione.
R. Gli americani hanno voluto subito insabbiare la tragedia perché in
caso di risarcimenti ai familiari delle vittime, ma sai l’America quanti
soldi avrebbe dovuto dare come risarcimenti alle famiglie, perché le
responsabilità erano le loro che gestivano la linea e perché hanno
imposto quel carbone che non era buono e non andava utilizzato. Poi ci
sono stati una serie di eventi che hanno scatenato la tragedia: le due
locomotive messe davanti, il carbone che non era buono, il peso del
treno, i binari che erano scivolosi a causa del ghiaccio perché era una
delle notti più fredde di quell’anno.
P. Si, il freddo era il più rigido che ancora non è venuto quello qua,
quel freddo. Io mi ricordo che l’aria era ferma, gelata, nevicava e non
si respirava. E questo fa si che l’umidità non fa salire il fumo.
R. Perciò il fatto che volevano bruciare i corpi dei cadaveri per
evitare un’epidemia era una balla colossale, perché col freddo che
faceva… ma quale epidemia?... Non sarebbe scoppiata nessuna epidemia!
Invece era proprio per cancellare le prove, perché sapevano che se
qualcuno avesse iniziato a fare ricorso, gli americani avrebbero dovuto
sborsare un sacco di soldi.
D. Infatti alcuni familiari hanno intentato causa.
R. Si ma dopo, molto dopo.
P. No pure subito. Infatti c’era una persona, una famiglia che abitavano
vicino a noi, che mi diceva sempre: belli guagliù, non vi fate rubare
soldi, perché io ho perso tre cause con la cassazione di Roma. Queste
parole me le diceva ogni volta che andavo da lui e io me le inchiodai in
testa. Mia madre non se n’è potuta mai interessare perché non c’erano né
le possibilità e né niente. Mentre una donna di Brignano, che il marito
è morto insieme a mio padre, lavorava e diceva che voleva cercare di
vincere la causa. E così mise quest’avvocato, che invece le aveva rubato
solo soldi.
D. Quindi nessuno ha avuto risarcimenti?
P. No… poi in un pezzetto di un articolo ho letto che uno ha avuto
200.000 lire, quelli di Resina, che erano molti di là, da qua erano
pochi…
R. Poi un altro motivo per cui non hanno fatto subito causa, è perché
all’epoca i soldi per pagare l’avvocato non ce li aveva nessuno.
P. Si, forse solo questo signore che ha fatto le cause e le ha perse.
Comunque lui aveva il figlio che in quel treno andava a prendere
servizio a Potenza come dottore, io me lo ricordo, e il padre ha sentito
un sacco di dolore.
R. E questo ha segnato non solo i familiari, ma anche i non familiari
P. Si, per esempio il fatto dell’amico di mio padre… lui faceva il
calzolaio, e ci rimase molto male perché gli mise la suola alle scarpe
poco prima del suo viaggio. E lui diceva sempre: se non gli avessi
aggiustato quelle scarpe, forse Giorgio non sarebbe partito per quel
viaggio…la colpa è la mia perché l’ho fatto andare, perché lui con le
scarpe scassate no sarebbe partito, perché poi lui era uno preciso. Poi
una signora di Brignano mi regalò un libro di Restaino in cui c’è
l’elenco delle vittime, e da questo elenco ho fatto migliaia di
telefonate. Ora che cosa sto facendo, siccome che a Brigano non si può
fare niente per la memoria, allora davanti alla chiesa hanno messo un
ceppo per un ragazzo che è morto sul motorino, e allora ho detto alle
autorità che erano presenti quel giorno se si può fare questa cosa pure
per mio padre e per tutta sta tragedia. Loro hanno detto che si può
fare, però bisogna far presto perché adesso ci sono le elezioni, loro
sono di sinistra, e così facciamo vedere al popolo che si fa anche sta
cosa. Vado dal parroco e mi ha detto che siccome deve far fare un quadro
della madonna di Pompei da mettere in un posto vicino alla chiesa, e se
a me fa piacere si può mettere una targa sotto a questo quadro, in
ricordo della tragedia e di mio padre. E per me è stata una contentezza
grande, io penso che muoio dalla contentezza quando facciamo sta cosa
qua, però la targa la voglio fare a spese mie, altrimenti è come se non
avessi fatto niente. Il prete mi ha detto che si farà il 28 agosto.
R. Noi abbiamo pensato una cosa… visto che in questa manifestazione di
Ogliara, al museo di Ogliara, è stato presentato un quadro sulla
tragedia che è stato fatto da una pittrice, di cui non ricordo il nome.
E allora abbiamo pensato di fare delle riproduzioni di questo quadro e
di metterle esposte in tutte le stazioni da Napoli a Balvano, cioè il
percorso che fece il treno 8017. Magari, almeno così i passeggeri che
aspettano il treno, vedono questo quadro con magari scritto qualche cosa
sotto, come: In memoria della tragedia avvenuta a Balvano, sotto la
Galleria delle Armi,il 3 marzo 1944, dove morirono ecc… sarebbe una
bella cosa, anche perché non è nemmeno costosa, quindi è fattibile.
P. Il parroco mi disse che ci stava ad Eboli la rappresentazione
teatrale dei detenuti, che ho conosciuto pure…
D. E le è piaciuta la rappresentazione?
P. Io piangevo solo qua… la verità, questi ragazzi sono stati
fantastici.
R. Vedi Antonio, qua ci stanno tutti i numeri di tutti i familiari delle
vittime del treno 8017. Vedi, per esempio Carpentieri Antonio è celibe
ed è deceduto il 3 marzo 1944 nella Galleria di Balvano, e poi tutti
questi nominativi che seguono sono tutti i familiari diretti di
Carpentieri. Abbiamo cercato tutti i familiari.
D. Quindi avete avuto contatti diretti con gli altri familiari?
R. No, proprio diretti no. Abbiamo solo i nominativi perché poi chi è
morto, chi è emigrato, chi se n’è andato, però vorremo cercare di
rintracciare almeno quelli che stanno a Cava, ma non ci siamo riusciti
ancora. Siamo riusciti a contattare solo una signora molto anziana, ma
sta a Sondrio… Poi per questa cosa dei quadri, io metterei anche qualche
statua, o un monumento nelle principali stazioni, cioè Napoli, Salerno,
Battipaglia e Balvano. Poi si potrebbe organizzare pure un treno che
parte da Napoli e va fino a Balvano,e che si ferma nelle stazioni per
posare i quadri, magari con i familiari e qualcuno che può venire, in
modo da ricordare questa tragedia. Magari organizzare il tutto tra
Regioni, Comuni di Napoli, di Salerno, di Battipaglia e di Balvano, le
province e ovviamente le ferrovie. Comunque Gennaro Francione ha fatto
un bel sito internet in cui ha proposto di istituire il 3 marzo come
giorno della dimenticanza, perché il padre aveva inviato molte lettere
ai vari Presidenti della Repubblica, anche a Ciampi, per far istituire
il 3 marzo come giorno della memoria. E forse, forse adesso sarebbe il
momento propizio perché abbiamo il Presidente Napolitano che è di
Napoli. Adesso dovremmo approfittare di questo, perché è una tragedia
che ha toccato la Campania ,la Basilicata, ma soprattutto Napoli e i
comuni limitrofi, cioè da dove proveniva la maggior parte delle vittime.
P. Perché Ciampi non ha fatto niente quando era presidente della
Repubblica, e quando Francione glielo ha detto inviandogli delle
lettere? Perché? Perché Ciampi era un partigiano anche lui, come
Pertini, Napolitano; sono persone che vengono dal quel posto là, e
allora non si possono nemmeno tradire.
R. Scusa, ma che attinenza c’è con il fatto di essere partigiani?
P. Perché loro hanno perseguitato i fascisti, come il fatto delle fosse
foibe, quelli sono i partigiani che hanno bloccato la cosa e quelli
hanno fatto i fetenti a buttarli là dentro.
R. Ah si, ma sono stati sempre i tedeschi a pigliare, cioè per ogni
tedesco morto prendevano dieci italiani , però la povera gente che
c’entrava, i civili; dovevano combattere i partigiani ma non prendersela
con la povera gente… Comunque, tutta quella povera gente morta sul treno
8017 non erano né contrabbandieri, né ladri, né trafficanti di chissà
che cosa o di armi… Erano soltanto persone che cercavano di portare un
po’ di pane a casa, alle proprie famiglie, perché c’era la miseria più
nera, totale dovuta alla guerra che ormai era iniziata da quattro anni.
E la guerra oltre a portare distruzione, ha portato anche e soprattutto
miseria, perché: non funzionano più le fabbriche, non si coltiva più,
gli uomini partono per il fronte e non c’è più manodopera, non c’è più
niente in questi contesti… E alla fine chi produce? Nessuno, ognuno si
arrangia in questo modo, portando quelle poche cose che aveva per
barattare con un po’ di cibo.
P. Antonio, una mattina un mio amico mi disse: Don Pietro avete sentito
il telegiornale ieri sera, parlava delle fosse foibe. E io dissi:
Gaetano, tu tieni a capa fresca… e di mio padre non se ne parla mai? E
lui: perché che cosa è successo a vostro padre? E poi io gli spiegai
quello che era successo, e lui dopo mi accompagnò a Balvano.
R. Un aspetto importante è riuscire ad imparare dagli errori del
passato, per fare in modo che non si ripetano tragedie come questa,
dovuta soprattutto all’errore umano, a parte le cause esterne. Quindi
mettere la sicurezza al primo posto, la sicurezza dell’uomo,
dell’individuo, e mai dimenticare quest’aspetto perché bisogna capire
che le tragedie possono succedere. Come anche ultimamente con ciò che è
successo in Giappone con le centrali nucleari…cioè mai essere sicuri di
un qualcosa, perché non è sicuro niente… e le cose possono avvenire per
una semplice incuria o leggerezza, magari dovuta alla troppa sicurezza
dell’uomo. Per esempio anche quando guidiamo la macchina, noi ci
sentiamo talmente sicuri ed è proprio in quel momento là che ti frega,
quella troppa sicurezza, e allora succedono incidenti e disgrazie per
banalità. Quindi mai sottovalutare la sicurezza e mai essere padroni di
sé, ma cercare sempre di essere quanto più possibile prudenti in tutto.
Perché la tragedia del treno 8017 si poteva e si doveva evitare, perché
non è stato valutato a priori il fatto che quel treno non poteva
viaggiare in quelle condizioni, perché già era pesante di suo, più poi
tutte quelle persone sopra, le due locomotive avanti che sprigionavano
vapore… ed è normale che in una galleria di quel genere, e in salita,
alla fine il treno non ce l’ha fatta a proseguire ed è rimasto bloccato.
Il tanto fumo che usciva, troppo, perché erano due locomotive a vapore,
ma soprattutto il carbone che era molto scadente, il tanto freddo…
Quindi quel treno non doveva partire da dove è partito. E quindi la
troppa sicurezza dell’uomo molte volte genera queste cose, queste
tragedie…
D. Infatti, a conferma di ciò che mi sta dicendo, nel mese di febbraio
del 1944 avvenne un precedente molto simile alla tragedia dell’8017, in
cui sempre a causa del fumo morì Vincenzo Abate, cioè il macchinista di
un altro treno.
R. Si, si hai ragione, c’era stato anche questo precedente. Questa
tragedia esula dalla guerra, perché non ha subito un bombardamento o
altro, e se pure l’avesse subito non sarebbero morte tutte quelle
persone. E poi questa tragedia poteva succedere anche subito dopo la
fine della guerra, perché la miseria è continuata ad esserci fino a
quando gli americani non sono riusciti a portare gli aiuti. Dunque
poteva succedere anche alcuni mesi dopo la fine della guerra, e magari
si sarebbe ricordata di più perché la guerra era già finita… purtroppo è
stata una tragedia non bellica, ma accaduta nel periodo della guerra e
quindi ecco perché è rimasta così, ed ha trovato poco spazio.
C. (figlia di Pietro): Comunque mia nonna è rimasta vedova, con cinque
figli, ed era sola in quei tempi in cui c’era la miseria totale, poi il
fatto che non è stato riconosciuto niente per queste famiglie delle
vittime, che sono state…pensa che mia nonna aveva solo il marito che è
morto, e dunque la miseria è cresciuta ancora di più. E il fatto che non
è stato riconosciuto niente, ma pure a dire: oh, in quella famiglia sono
rimasti senza capofamiglia. Io penso a mia nonna che aveva cinque figli,
quel signore di Torre del Greco erano nove o dieci figli, cioè sono
state lasciate intere famiglie allo sbando. E quindi il fatto che
nessuno se n’è interessato in quei tempi, ma umanamente parlando… e
invece si doveva fare qualcosa per tutta questa povera gente, pure un
piccolo sostegno.
P. Si, si ma pure una semplice pagnotta di pane, o qualche cosa da
mangiare
Intervista
a Giuseppe Montuori, che ha perduto la madre e la sorella nel disastro.
L’intervista risulta breve perché l’emozione ha impedito al Sig.
Montuori di continuare.
D. Cosa sa dirmi di quello che è successo ai passeggeri del treno 8017?
R. Allora… la notte del 3 marzo sono morte 521 persone nella Galleria di
Balvano. Le persone si sono addormentate e non si sono svegliate più, a
causa del fumo velenoso che quel carbone sprigionava. La maggior parte
delle persone si spostavano in cerca di cibo, perché all’epoca c’era la
guerra e la povertà…e così salirono sul treno anche mia madre e mia
sorella. Comunque io ho letto l’articolo di Famiglia Cristiana, che
tengo conservato in un cassetto e che dopo ti faccio vedere, dove c’è la
testimonianza del medico di Balvano. Il medico, che era sceso dal paese
alla stazione di Balvano, aveva soccorso e salvato la vita a molte
persone, ma poi arrivarono gli americani e fecero allontanare tutti,
anche a lui che stava per salvare altre vite umane. Poi i cadaveri
furono trasferiti, trasportati con i camion, al cimitero del paese di
Balvano, ma il cimitero era troppo piccolo per poter ospitare tutti i
cadaveri e allora furono seppelliti nelle fosse comuni. Poi, dopo molti
anni, il signor Avventurato Salvatore ha fatto costruire una cappella
nel cimitero di Balvano, dove oggi riposano tutti i morti di quella
notte…e se Avventurato non avesse fatto costruire questa cappella, oggi
i morti sarebbero ancora sepolti nelle fosse comuni, sotto terra.
Intervista al capostazione della stazione di Baragiano, Ugo Gentile, in
servizio la notte del disastro.
All’intervista è presente anche il Sig. Pietro Rossini, figlio di
Giorgio Rossini, perito nella tragedia.
D. Cosa sa dirmi di quello che è successo ai passeggeri del treno 8017?
R. Io stavo a Baragiano, alla stazione di Baragiano, ed ero
capostazione. All’epoca esisteva solo il telegrafo per comunicare tra le
varie stazioni… allora cosa è successo… questo treno 8013 veniva da
Napoli ed era una condotta vuoti, cioè una tradotta di carri vuoti, 44
carri L (carri vuoti); il treno veniva scortato da un documento che si
chiamava foglio veicoli; arrivato a Battipaglia questo treno 8013 è
stato battezzato 8017. Un’altra cosa che hanno detto, anche Raimo, che a
Battipaglia c’era la dirigenza centrale… ma non è vero, perché
Battipaglia era dirigenza locale, cioè c’erano 2 capistazione, più il
telegrafista e il manovratore. Quando è arrivato questo treno, loro non
hanno fatto altro che aggiungere 3 carri: 2 per Persano e 1 per
Sicignano. I 44 carri provenienti da Napoli, erano ufficialmente vuoti e
la composizione che hanno dato era di 300 e rotte tonnellate.
Battipaglia avrebbe dovuto mandare una locomotiva 480016 a Potenza, e
siccome c’era un solo binario mandando la singola locomotiva 480016 era
come se fosse un treno che comunque doveva fare gli incroci ecc… allora
hanno pensato di mettere in doppia trazione la 480016 alla locomotiva
titolare 476038 da Napoli, sulla quale c’erano 2 macchinisti: Barbaro
Rosario e Gigliano Matteo; mentre sulla 480016 c’erano Santoro (di Cava)
e Ronga (di Salerno) che è un aiuto macchinista. In questo caso si
chiamava doppia trazione perché erano 2 locomotive che andavano in testa
e trainavano questo treno; qualcuno ancora dice, ho letto di spinta… No,
perché spinta è se tu stai indietro. Stando alla composizione che a me
successivamente ha dato Battipaglia, queste due locomotive andavano
bene per andare a Potenza in quanto da Baragiano a Tito c’era una salita
del 25 per 1000, di un tratto acclive. A Baragiano io tenevo tre
locomotive 476, di gruppo 476, proprio da utilizzare per la spinta e in
quel caso vanno in coda perché devono spingere. Per giunta erano
locomotive di spinta che erano bottino di guerra del 1915-18, ed erano
austriache. Mentre la 480 era stata costruita il 1922, era un bestione
di 22 metri, lunghissimo. E siamo arrivati a questo punto qua… fatta la
manovra ad Eboli e a Persano, il treno ufficialmente era di 44 carri
vuoti; in quel periodo tutti i treni venivano scortati dai militari
americani, della RTA. Tra Balvano e Bella-Muro c’è la Galleria delle
Armi, e poiché il carbone non era buono, in quanto non era
carbon-fossile ma era lignite, ed era un carbone che portavano gli
americani e che conteneva molto ossido di carbonio e quindi non bruciava
bene. Quel carbone era come ‘O TIZZON’che fa solo fumo, e quindi loro
per poter aumentare la pressione e far si che acquistasse velocità e
forza nel traino, si fermavano prima di entrare nella galleria e stavano
un ora e anche due ore per fare accudienza. Io stavo a Baragiano, a
Bella-Muro ci stava Del Gaudio Baldassarre, a Balvano Salonia Giuseppe e
a Romagnano Gaglaiardi Luigi, i quali erano tutti capostazione. La cosa
importante.. quando sono passate due, tre ore il capostazione di
Bella-Muro si è iniziato a preoccupare perché non vedeva il treno, e per
regolamento che tenevamo noi di circolazione treni, quando c’era una
difficoltà era il capotreno ad inviare qualcuno alla stazione precedente
o successiva per avvisare che c’era un’anomalia. E quindi il
capostazione di Bella-Muro aspettava che arrivasse qualcuno a dire se
fosse successo qualcosa. Dunque sono passate le tre ore ed erano le
quattro e qualcosa. In questo contempo, e questo è importante, io a
Baragiano avevo un treno 8000 sul quale c’erano le truppe americane che
dovevano raggiungere Cassino, perché c’era ancora la guerra a Cassino,
quindi il comandante del treno 8000 naturalmente sollecitava per
partire. Però cosa è successo, che questo treno (si riferisce all’8017)
era la bellezza di 94 assi, cioè ruote, ma alla stazione precedente di
Bella-Muro e a quella di Balvano non c’era la capienza dei binari, e
quindi l’incrocio lo doveva fare per forza a Baragiano, e quindi io
aspettavo che arrivasse questo treno 8017 per far partire il treno 8000.
Se non che verso le quattro, le quattro e mezza visto che non arrivava
poi gli americani fecero arrivare dei camion da Potenza e portarono i
soldati con i camion. Tenete presente che era il 3 marzo, ci stava la
neve ed era buio. Quando poi verso le quattro, le quattro e mezza visto
che il treno 8017 non raggiungeva la stazione di Bella-Muro, allora il
capostazione di Bella-Muro ha chiamato il guardalinee, cioè uno
perlustrava la linea, un certo Rocco Cocine se la memoria non mi
tradisce. In un primo momento ci fu una titubanza, perché dice io sono
solo dove vado, perché doveva camminare sulla scarpata, ma comunque fu
convinto, lo invitò con modulo particolare che si chiamava modulo 40, e
questo qui andò e arrivò quasi dopo un’ora di cammino sulla galleria, a
piedi con la difficoltà di camminare. Arrivato là trovò che dalla
galleria usciva una grossa quantità di fumo puzzolente, maleodorante,
nero… e che vuoi entrare! Contemporaneamente a tutte queste operazioni,
il frenatore di coda del treno 8017, il quale usciva un poco dalla
Galleria delle Armi, andò alla stazione di Balvano a dire che nella
Galleria ci sta il treno fermo e ci sono anche dei morti. Il
capostazione di Balvano mi comunicò che il treno sta sotto la galleria e
che però ci sono anche dei morti. Noi pensavamo 10, 15, 20, 30, 40, 50…
Tutto questo è stato causato, e forse mi è sfuggito e non ve l’ho detto
prima, dal fatto che il treno 8017 era composto da carri L , cioè carri
vuoti, e quindi tutta la gente è salita là sopra perché in quel periodo
noi tenevamo solo due treni, treni contingentati, cioè di viaggiatori,
che erano bisettimanali, però si faceva la prenotazione e se tu facevi
la corruzione avevi e facevi…e poi ci voleva un permesso per viaggiare…
E quindi fatto questo affare qui, lui (il guardalinee) è andato ed è
ritornato. Nel frattempo a Balvano è arrivato un treno, l’8025, e loro
hanno preso la locomotiva e l’hanno mandata in coda a questo treno 8017.
D. Questo per verificare cosa fosse accaduto?
R. No, perché già avevano accertato, perché il frenatore di coda Palo
già aveva detto che era successo quello che era successo. Comunque là
non è che ci fu una deficienza, perché il frenatore di coda stando
sempre al nostro regolamento non poteva lasciare la coda, ma la doveva
proteggere quando il treno si fermava… quindi anche lui purtroppo, dopo
questo periodo, a lui arrivava il fumo ma non gli dava fastidio,cioè non
è morto… allora quando poi Palo è andato a Balvano, loro hanno mandato
questo treno 8025. Quando poi questo guardalinee è arrivato a
Bella-Muro, disse: là non si può entrare perché c’è il fumo. Allora io
mi peritai di chiedere a Potenza delle maschere antigas, perché io avevo
19 anni ed ero novello di scuola, e pensai forse si sarà formato il
grisù, il gas e come facciamo ad entrare… Infatti cercai di avvisare
Bella-Muro di non far entrare con la lanterna ad olio, dato che prima
non c’erano le pile, perché entrando con la fiammella può scoppiare col
grisù; erano problemi che noi ci creavamo, io ero il più giovane ed
avevo due anni di servizio, questo che stava a Balvano aveva sui 55
anni, quest’altro 40. E allora vista tutta questa difficoltà, chiedemmo
a Potenza e dissero che non potevano mandare le maschere antigas. Allora
verso le ore otto siamo partiti noi con una locomotiva, la 476 che
tenevamo là di spinta, con a bordo io, un capostazione bagaglio che si
chiamava Giovanni, Mario Nocera, il macchinista Giacomino Battagliese e
l’altro è Barbaro Rosario, forse.E siamo partiti e siamo arrivati sotto
la Galleria…poi che cosa è successo…loro hanno tirato il treno da
dietro. Sotto la galleria, in un pozzetto d’acqua trovammo questo aiuto
macchinista, Ronca, che stava col viso nell’acqua, lo prendemmo io e
Mario Nocera e ci facemmo la famosa “seggiulella” (una specie di barella
umana) e lo mettemmo sopra. Lui tremava perché faceva freddo, io gli
diedi il mio cappotto e lo accompagnammo alla stazione di Balvano, cioè
quasi 3 km a piedi, facemmo un buon sacrificio a portarlo fino a là. Se
non che lungo il percorso, mentre il treno retrocedeva, c’erano sopra 16
cadaveri maciullati perché evidentemente essendo stati storditi dal fumo
sono caduti sui binari, e quando quelli da là hanno tirato il treno
nessuno conosceva la situazione e quindi questi corpi sono stati
maciullati, che poi non ricordo se furono conteggiati perché là erano
626, e poi questo non metto mai carne a cuocere perché una volta ho
avuto una polemica con un giornalista del nord e poi mi sono scocciato
dico ma voi volete solo vendere giornali e libri. E allora trovammo
questa gente maciullata che nessuno sapeva e quindi furono recuperati
dopo, in un secondo momento perché poi intervennero da Potenza. Quando
siamo arrivati alla stazione il treno 8017 stava lungo la stazione, e su
tutti questi carri c’erano queste persone, chi stava cosi, chi
appoggiato etc. Noi eravamo in sette e pensammo di individuare chi dava
segni di vita perché non potevamo assistere tutta quella massa; allora
chi dava segni di vita si prendeva, si scaricava dal treno e si faceva
la respirazione, e pure ne salvammo 96, che naturalmente poi se ne
andarono, non risultavano nemmeno registrati perché molti di loro erano
abusivi sul treno ma non erano contrabbandieri, stavano sul treno perché
sul treno non c’era la scorta, perché ogni treno aveva la scorta
militare che controllava, perché poi si rubava allora ed era tutta una
situazione di arrangiamento. Quando poi abbiamo fatto, e abbiamo
collocato… non c’era spago, non c’era cartoncino… abbiamo cercato di
individuare e ci mettevamo il nome, il cognome e che cosa contenevano.
Premesso che ciascuno di loro teneva soldi, scarpe, vestiti, ma tutta
roba cosi, non di lusso. Tanto è vero che si dice che la piccola
velocità della stazione di Balvano, cioè il deposito merci dove venne
depositata tutta questa roba qua, fu saccheggiata proprio dal
maresciallo dei carabinieri di Balvano, si dice cosi poi non so se è
vero. Quindi quando poi questi corpi sono stati messi in stazione, è
successo che si è divulgato questo fatto e parecchi sono venuti da fuori
e i morti se li sono portati a casa. Poi sono rimasti un due giorni e
mezzo qui, faceva freddo, e poi vennero dei camion americani da Potenza
che li caricavano e li portavano al cimitero di Balvano, dove fecero
delle cataste che poi venivano rimosse a seconda a che arrivavano ancora
i congiunti: come il caso di Franciosa che trovò sua madre tra gli
uomini, e la riconobbe dal fazzoletto, “o maccatur” che portava sulla
testa. E quindi chi ha fatto questa suddivisione, perché io non ho
partecipato a questa operazione perché ero in servizio, ha collocato
questa donna tra gli uomini. Quindi questi morti qua… risulta tutto
aleatorio. Però quando è successo questa cosa qua, io tenevo un
capostazione titolare con gli attributi, il quale la prima cosa che mi
disse: Ugo, prendi i registri e mettili in cassaforte. Perché erano
documenti ufficiali che io tenevo; perché se il treno fosse stato
pesante e occorreva un’altra locomotiva, io ero obbligato a mandare da
Baragiano una di queste locomotive per far spingere il treno. Però
siccome le prestazioni delle due locomotive erano sufficienti per
portare il treno a Baragiano, io non ero tenuto a farlo; e poi ci stava
la zona, cioè era tutto trascritto, che io avevo trascritto, perché poi
c’erano dei protocolli in cui si registravano tutti i telegrammi che
arrivavano, e poi feci un bel rapporto di come erano avvenuti i fatti,
ogni cosa. Non fui nemmeno interrogato perché intervenne il procuratore
della repubblica di Potenza, e anche qui ho visto una quantità di
notizie di responsabili, dei capostazione …ma non è vero, perché a noi
non ci hanno rotto proprio le scarpe, furono dichiarati dopo siccome
c’erano delle responsabilità degli americani in quanto erano carri che 8
di quelli pesavano anziché 8 tonnellate, pesavano 44 tonnellate; più poi
tutti i viaggiatori che erano quasi 800, a 50 kg ciascuno erano altre
400 tonnellate, quindi il treno era 900 e rotte tonnellate. Quindi noi
nella buona fede, cioè era un caso che fu infatti dichiarato un caso di
forza maggiore, e il carbone non era buono ed era americano. Invece,
molti giornalisti che volevano sapere se i capostazione erano stati
arrestati, gli dissi: voi parlate, ma interrogate almeno le persone che
erano sul posto. Noi che eravamo là, vigeva allora il regolamento che
non potevamo andare, perché solo sul doppio binario poteva andare
un’altra locomotiva in perlustrazione, quindi sul semplice binario non
la puoi mandare; e il capotreno, mica a sapere che il capotreno era
morto, ed erano morti tutti quanti. E fu dichiarato un caso di forza
maggiore perché responsabilità nostre non ce n’erano, e noi osservammo
pienamente il regolamento circolazione… è vero che è stata a lunga cosa,
però ripeto , potemmo dimostrare che altri treni in precedenza sostavano
due, tre ore per fare l’accudienza. Per giunta tutti questi ferrovieri
che erano morti, erano tutti amici nostri, e a volte si mangiava anche
insieme.
D. Quindi tutto questo si sarebbe potuto evitare?
R. No, evitare no… si poteva evitare se non fossero salite tutte quelle
persone
(Interviene Pietro Rossini)
Oppure si poteva mettere una locomotiva in coda al treno.
R. Nemmeno, non c’erano i presupposti perché noi (da Baragiano) non è
che mandavamo una locomotiva in più, cioè ogni locomotiva per esempio la
480 portava 300 tonnellate, la 476 ne portava 250 tonnellate, la 625
portava 180 tonnellate. E quindi ogni locomotiva aveva una sua
prestazione da portare, a seconda dei tratti acclivi. In tutto questo la
responsabilità è dei funzionari delle ferrovie, perché due o tre mesi
prima morì un macchinista tra Baragiano e Franciosa, un certo Vincenzo
Abate, perché il fumo che aveva creato questo carbone, gli aveva creato
un’intossicazione e lui pensò di mettersi tra il tender, dove c’era il
carbone, e la locomotiva. Tra il tender e la locomotiva c’era una specie
di lamiera, un portellone che si ribaltava e che serviva per coprire la
giuntura tra il tender e la locomotiva; lui alzò questo portellone e si
mise in mezzo, se non che il treno fece mossa, il tender e la locomotiva
si sganciò e gli schiacciò la testa…
D. Quindi se fosse stato utilizzato un carbone di buona qualità, magari
questi due inconvenienti, e dunque queste tragedie non sarebbero
avvenute?
R. Si, si... Sarebbe bastato il carbon fossile buono e non sarebbe
successo tutto quello che è successo! Ma anche con qualche
giornalista…cioè hanno fatto una quantità di roba senza, senza…per
esempio hanno intervistato il telegrafista di Potenza il quale disse un
sacco di fesserie, perché il telegrafista non faceva altro che ricevere
i telegrammi e passarli al capostazione, quindi lui non aveva diretti
contatti con la circolazione treni! Lo stesso, io tenevo il telegrafista
a Baragiano, e il telegrafista non fa altro che ricevere, e poi ti
portava il protocollo e tu firmavi, e se aveva sbagliato a ricevere era
lui il responsabile…
D. Quindi per quanto tempo i cadaveri sono rimasti alla stazione di
Balvano?
R. Ma due, due giorni e mezzo… forse alla stazione sono stati circa tre
giorni, perché è stato tutto il giorno 4, il 5 e forse il 6 mattina sono
stati portati al cimitero. Poi un’altra cosa è che alle persone che
davano segni di vita gli davamo il latte per provocare il vomito, e si
mettevano con la testa in giù.
D. E poi è arrivato anche il medico Pacella di Balvano?
R. Si, poi è arrivato anche il medico Pacella di Balvano, ma non teneva
iniezioni, non teneva niente, povero figlio, non c’era niente… pure noi
tenevamo qualche iniezione di canfora, ma niente più.
D. E poi, dopo sono arrivati gli americani da Potenza?
R. Si, gli americani sono venuti verso mezzogiorno, verso l’una del
mattino, ma non è che fecero qualcosa di…di…
D. Però il dottor Pacella racconta che gli americani fecero allontanare
tutti, anche a lui?
R. Si, perché bisogna dire anche una cosa onesta: iniziarono a fare il
saccheggio e al povero professor Iura di Baragiano tagliarono il dito
per asportare l’anello col brillante, che poi l’hanno smentito, ma io lo
so perché lui partiva da Baragiano e veniva in ufficio a trovarmi. Poi
che cosa succedeva… che arrivavano tutti dalle campagne e buttavano e
buttavano la roba al di sotto della stazione di Balvano, dove passa il
fiume, e poi si andavano a prendere la roba di tutta questa gente.
Insomma ci fu uno sciacallaggio a non finire… in un primo momento tutti
quanti che dicevano poveri, ma poi come tutte le cose. Però anche questo
non risulta, c’è una deficienza su tutto. Poi anche sul sito internet ho
messo il mio numero di telefono per chi volesse dei chiarimenti, ma
nessuno mi ha telefonato.
Intervista a Pino Turco, Regista della rappresentazione teatrale “O
cunt r’o quatt e copp”
D. Come sei venuto a conoscenza della misteriosa tragedia del treno
8017?
R. Nel corso di Scuole Aperte presso l’I.C. Giulio Cesare Capaccio di
Campagna (Sa), il giorno 3 marzo 2008 è accaduto che… Vincenzo
(Esposito, antropologo) ci ha narrato una storia terribile che noi
abbiamo messo nel nostro contenitore “cose da non dimenticare”. E’ la
storia, di cui ieri è caduto l’anniversario, di un disastro ferroviario
avvenuto in una galleria presso il paese di Balvano, in Basilicata, in
cui un treno merci, ma stracarico di passeggeri (alcuni paganti), a
causa delle sue locomotive a carbone ha causato la morte di più di
seicento persone. Abbiamo ascoltato Vincenzo, facendo ogni tanto delle
domande e cercando di capire insieme cosa abbia causato lo spegnersi
delle caldaie del treno, alimentate a carbone, e delle vite di tante
persone colpevoli solo di aver fame. Abbiamo fatto un esperimento con un
lumino ed un bicchiere con cui abbiamo visto come una combustione abbia
bisogno di aria per alimentarsi e durare. Una galleria, in cui il treno
si è fermato, ha agito come il bicchiere sul lumino: ha consumato in
breve tempo tutto l’ossigeno presente e, senz’aria e per lo sviluppo del
gas velenoso le persone presenti sono morte quasi tutte. L’inchiesta che
è seguita ai tragici fatti non ha rilevato nessuna responsabilità del
governo o delle autorità e tutto è stato affossato per essere
dimenticato al più presto: noi vogliamo invece che questo orribile
episodio venga ricordato e per questo lo metteremo nei nostri racconti
da presentare al pubblico. Dopo il racconto abbiamo subito disegnato su
dei fogli di cartoncino ciò che più ci aveva colpito della narrazione:
il Treno, la Morte, la Fame, la Guerra, l’Aria, le Persone, la Galleria…
con l’aiuto di Vincenzo che ha risposto alle nostre domande anche mentre
stavamo mettendo giù questi appunti grafici, anzi ci ha promesso di
essere con noi quando narreremo questa storia al pubblico… Ci siamo
salutati ed abbiamo rinnovato il nostro appuntamento… ringraziando
Vincenzo, e da quel momento la Storia tragica del treno 8017 è diventata
Memoria con cui si sono confrontati i bambini delle classi seconda e
terza della scuola primaria ed oggi è uno dei temi trattati dai
componenti del gruppo “Uommene&Tambure” nato nella struttura dell’ICATT
(Istituto Carcerario a pena Attenuata Trattamento Tossicodipendenti) di
Eboli (Sa).
D. Come mai, perché hai scelto un tema cosi oscuro e intricato per la
tua rappresentazione teatrale?
R. Credo che il tema abbia una consistenza ed una ripercussione sulla
vita contemporanea di tutto rilievo. Le “morti annunciate” sono di
grande attualità tanto che le notizie di morte sul lavoro non “fanno più
notizia” da tempo. “Oscuro” perché non ne è stato dato il peso
necessario ed “Intricato” solo in apparenza. Se fossero state seguite
delle semplici norme di sicurezza il “disastro” (leggi “ecatombe”) non
sarebbe accaduto.
D. Quali sono gli aspetti che hai voluto maggiormente evidenziare nella
rappresentazione teatrale?
R. a), lo stupore della gente comune davanti ai “fatti” ed alle “parole”
che hanno (o non hanno) descritto questi fatti. (Non a caso il primo
intervento dell’attrice è in americano, lingua incomprensibile agli
“abitanti del luogo” che hanno subito la tragedia); b), la facilità con
cui le autorità del tempo (e tutte quelle avvicendatisi al potere fino
ad oggi) hanno liquidato il caso; c), la disperazione nel riconoscersi,
per analogia di ceto sociale, condizioni di vita, mancanza di “cibo”
assenza di possibilità di riscatto, nelle vittime che hanno il solo,
tragico, difetto, di essere nati povera gente (a questo proposito ti
rimando all’opera Wozzeck di Alban Berg dove il protagonista parla al
Capitano che lo accusa di aver avuto un figlio illeggittimo: Noi povera
gente! Vede, signor Capitano, denaro, denaro! E chi non ha denaro?! Come
si fa a mettere al mondo in modo morale un proprio simile! Siamo anche
noi di carne e ossa! Sì, se io fossi un signore, e avessi un cappello e
un orologio e un occhialetto e sapessi parlare fino, allora sì che
saprei essere virtuoso! Dev’essere una bella cosa la virtù, signor
Capitano. Ma io sono un povero d i a v o l o ! Noi siamo infelici sia in
questo che nell’altro mondo! Credo che se andassimo in paradiso, saremmo
costretti a dare una mano per far tuonare !)
D. Secondo te, questa esperienza cosa ha trasmesso e cosa ha lasciato ai
detenuti?
R. Credo che per i “temporaneamente detenuti” il discorso sia
maggiormente articolato: in breve, provenendo tutti dal mondo della
tossicodipendenza, sostituiscono (e questo è l’effetto dell’Arte per la
Salute che io pratico) il personaggio negativo dell’Io drogato che loro
“rappresentano” nel mondo, con il personaggio positivo del Teatro a cui
danno rabbia e dolcezza e amore. E questo li fa crescere, giorno per
giorno. La scelta di far narrare la Memoria del Treno 8017 ai ragazzi
dell’ICATT non è casuale: la maggior parte di loro proviene dai luoghi
di origine delle seicento vittime della tragedia ed il loro status si
avvicina molto a quello dei vinti dalla vita che compongono quella
moltitudine brulicante che sembra non avere nessuna collocazione nella
Storia e viene alla ribalta solo per tragedie, come quella del treno o
per morti sul lavoro o disastri imputabili alla miseria cronica in cui
sono costretti a vivere.
D. Hai condotto anche delle interviste ai familiari delle vittime?
No, ma sto prendendo dei contatti e questo sarà il prossimo lavoro che
inserirò nella performance, sotto forma di intervento diretto.
D. Grazie per la collaborazione
R. Grazie a te per l’attenzione… sei il primo, in due anni, che si
mostra interessato alla vicenda… se vuoi posso tenerti aggiornato sui
prossimi sviluppi…
BIBLIOGRAFIA