Il verro di
Baragiano
di Gennaro
Francione |
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Il verro di Baragiano ha vinto il 1° premio
della sezione Narrativa del concorso letterario Il
Telescopio.
Il racconto è tratto dal romanzo Calabuscia
(La fuga dopo l'armistizio lungo tutto la penisola di
due napoletani, padre e figlio, alla ricerca di una salvezza
che si rivela una mera chimera. La vita è un'eterna
Calabuscia, una gabbia.
Dopo che miracolosamente un'intera famiglia è uscita
intatta dalla guerra, nel sud liberato accade la tragedia
che uccida nonna Giulia) - Aetas Internazionale - Roma,
ottobre 1994.
Così va l'Italia in guerra. Si dibatte come un serpe
colpito a morte per cercare con guizzi finali di risorgere e
scampare alla tragedia finale che si annida passo dopo
passo.
Intanto dopo un gelido febbraio il paesaggio sembra
ridestarsi, con le prime forme floreali colorate pronte a
dare i primi spruzzi della nuova gioia solare.
In questo tempo, quando gli uccelli tornano sui tetti delle
case crollate a cantare il loro canto di rinascita, mia
madre viene ancora e se ne va. Una sera, una maledetta sera,
una come tante, donna Giulia parte per non fare più
ritorno. Tutto è accaduto.
Oggi è venerdì 3 marzo. Donna Giulia sarebbe dovuta
partire ieri per Baragiano, ma un negozio era sfornito di
biancheria, per cui ha dovuto rimandare a oggi la partenza.
Papà l'accompagnerà. Per questo stamattina vado da solo a
lavorare al porto e già nella pallida luce dell'alba bacio
mia madre che fa capolino tra i cuscini, sussurrandole: "Mammà,
ve voglio tanto bbene!"
"Pur'io figlio mio! Và và, ce vedimmo tra quinnece
juorne!"
A queste parole dal lettone si leva la mano di papà che mi
carezza tra i capelli, bisbigliandomi con la voce impastata
di sonno: "Ce vedimmo stasera Vicié. Bona jurnata!"
Li bacio tutti e due, i miei amati, e volo via. Mentre il
tram sferragliando avanza verso Napoli, fermando a ogni
stazione per prendere gli assonnati lavoranti, sono immerso
tra immagini oniriche e pensieri strani.
Talora apro gli occhi e mi lascio abbagliare dall'alba che là
fuori è chiara chiara.
Sembra proprio che oggi sarà bello. E infatti quando le ore
del giorno si affacciano sul porto, dopo che già ho
cominciato a scaricare da una nave, il mondo è inondato da
un tempo che di prima mattina è decisamente uno schianto.
Ha cominciato con una gran sole che spaccava le pietre e
l'aria tiepida come se si fosse a maggio. Poi in coperta,
mentro trascino casse di liquori, qualcosa cambia.
Vedo l'aria invasa da stormi di gabbiani che gracchiano come
impazziti e, a questo sinistro presagio, si aggiunge laggiù,
oltre il faro, una massa di nuvolaglia scura e minacciosa.
Improvvisamente si leva un gran vento di mare e provoca
ondate talmente forti che la nave su cui sto lavorando
sbatte furiosamente contro il molo, e quasi sembra che
voglia spezzare gli ormeggi.
Tutto questo ribaltamento della natura mi dà un senso
d'inquietudine crescente, che cerco invano di spiegare col
fatto in sé della repentina bufera. Presto saprò cosa ho
letto nello scatenarsi degli elementi sulla mia testa. Da
questo momento come in un incubo ricostruisco, volando
simile a un fantasma sugli avvenimenti cui non ho
partecipato in prima persona, tutto quanto è accaduto.
È quasi l'una. Don Gennaro e la moglie reggendo le mappate
di cose scendono dal tram.
Facendosi strada tra il diluvio d'acqua che si sta
abbattendo sulla città, corrono per quello che possono con
tutto quel carico ed entrano trafelati nella stazione di
Napoli.
Don Gennaro è intriso d'acqua comm' a nu purpetiell' e va
bestemmiando: "Mannaggia 'o pataturco! Isso e ll'acqua!"
Mia madre si è coperta bene con il lenzuolone imbottito di
biancheria che ha messo sulla testa, e ha subìto meno
danni.
Il treno sta appena appena per partire. Lo vedono laggiù
col capotreno che già serra alcune porte.
"Curre Giulia! Curre!" fa papà, tirandole
via anche l'ultima mappata di roba e lasciando che la
compagna corra verso l'ultimo carro merci, dove alcune mani
si protendono ad aiutare il passeggero ritardatario.
Arrancando con le sacche che lo sballonzolano di qua e di là,
e che sono tante da farlo sembrar avere non due ma cento
mani, trafelato arriva anch'egli sotto il treno col
capotreno che invita: "Ampressa, facite ampressa!".
Mammà da là sopra aiuta papà a scaricare la roba
all'interno del convoglio. Indi anche lui si arrampica ed
entra. Ha ancora il tempo di aiutarla a sistemarsi in un
posto libero tra il fieno, facendosi strada tra la ressa di
viaggiatori accaldati e puzzolenti per accalcare la roba in
un angolo.
Fiii, fiii! È il fischio del capotreno che assale
l'alzata dell'ultimo carico, tanto che donna Giulia invoca: "Gennà
fa' subbeto! Ca 'o treno parte!" "Vaco, vaco".
Mio padre getta le braccia al collo di mamma la bacia, la
stringe, scappa via, e salta giù che già il treno comincia
a muoversi. Poi da laggiù prende a salutarla e a lanciarle
un bacio nascosto, mentre lei sporgendosi dalla porta con
gli occhi lucidi agita, in mezzo a mille altri mani
vorticanti, il fazzoletto del giorno delle nozze.
Ciuf, ciuf, ciuf. La locomotiva a carbone ansimando
trascina il pesante convoglio sul binario e lancia il suo
fumo che penetra acre nei carri merci, andando a infilarsi
negli spazi d'aria liberi lasciati dai nugoli di
viaggiatori. Si tratta di maschi adulti, ma soprattutto di
donne, vecchi, bambini con accanto i loro mucchietti di cose
personali o da contrabbandare. Ancora il destino tesse le
fila dei poveri mortali. Questo treno, uno dei pochi messi a
disposizione dei civili, segue la routine e viene
sovraccaricato per le necessità del trasporto militare.
Come se non bastasse il peso già eccessivo di cose, mezzi
bellici e uomini, a Salerno vengono aggiunti altri carri
merci al convoglio, alcuni anch'essi ricolmi di passeggeri.
A seguito di queste manovre la carrozza di mia madre che
fortunatamente per il ritardo era l'ultima diventa centrale.
Donna Giulia pensa al marito, a me, al giorno in cui tutta
la famiglia si riunirà a Torre e quando assiste
all'aggiunta di vagoni quasi ringrazia il Signore. Stando al
centro potrà scendere a Potenza sulla banchina, e con tutta
quella roba ingombrante e pesante non dovrà fare un lungo
tratto a piedi sui binari. Ahimè cara mamma come le cose
s'intrecciano in assurdi grovigli per cui, come il tempo di
marzo, tutto si trasforma repentinamente, il male in bene e
il bene in male.
Tutto quello che era scritto accade nella galleria di
Balvano.
Là si ferma il treno, nel buio della notte che è ancora più
cupa nel tunnel della morte eterna.
La locomotiva allo stremo si arresta per l'eccessiva zavorra
di uomini e cose trasportate, che impedisce di montare in
salita. Il fuochista, in minuti di follia che coinvolge
anche il macchinista, non fa che alimentare il mostro
infernale, il quale invece di sprizzare energia continua a
sputare fuoco e fumo tanto da invadere sempre più la
galleria.
Sulle prime nei vagoni tutti i passeggeri si sono accorti
che il convoglio si è fermato e sono inquieti, anche se non
sanno bene cosa stia succedendo.
Nell'oscurità totale degli antri metallici ricolmi di
uomini e cose volano borbottii, commenti, lamenti,
bestemmie.
Solo alla fine, quando il fumo invade l'ambiente in maniera
sempre più fitta e la gente prende a tossicchiare, il
panico comincia a diffondersi, anche se ancora nessuno osa
muoversi. Il non sapere cosa stia succedendo impedisce
d'intuire il cosa fare.
Giulia nel suo cantuccio si afferra al fazzoletto e lo
stringe alla bocca fino a farsi male, mentre tra sé e sé
barbuglia: "Madonna mia! Nun voglio murì! Damme a
Gennaro ancora!" Le zaffate di fumo divengono
sempre più spesse. Ora tutti tossiscono, le donne si
disperano e gridano: "Ch' è succieso?"
"Che sta venenno?" "Scappamme! Chist' è
bbeleno!" urla alla fine un vecchio.
"Fuimme genta gè!" fa eco una popolana.
Come una valanga, sbraitando, spingendo, coi bambini
piangenti che strillano nel buio "Oi mà!Mammà!",
tutti si avviano verso il varco ligneo e si buttano giù.
Donna Giulia ha un attimo d'indecisione e si schiaccia
contro la parete mentre bisbiglia: "'A rrobba!"
Svelta si accuccia per terra, ma invano si allunga cercando
di aggrapparsi almeno al manico del sacco con la biancheria.
Viene subito travolta dalla massa e, sospinta via, cade giù
dal treno, andando a finire su una pietra.
Con la gamba dolorante, con le labbra attaccate al
fazzoletto, prende ad avanzare insieme agli altri che ora si
sono sparpagliati in fila indiana. I giovani più veloci
corrono avanti, ma molti di loro sono rallentati proprio per
dare aiuto ai loro vecchi e ai bambini.
Si avanza al buio palpando con le mani ora il ferro freddo
del convoglio ora il muro umido della galleria, mentre il
fumo diventa sempre più intenso e acre e ha ormai
completamente invaso lo spazio, che sembra nello scurore
immane l'antro stesso dell'inferno.
Molta gente tossisce in rigurgiti sempre più spasmodici, e
presto i primi fuggiaschi cominciano a cadere, sicché
urlando e piombando giù quelli che vengono dietro si
trovano innanzi, nuovi ostacoli, i corpi delle prime vittime
asfissiate e falciate dai gas venefici. E allora nel
contatto ecco elevarsi nuovi sinistri ululati di donne e
pianti di bimbi.
Donna Giulia ha appena il tempo d'intravedere laggiù
lontano uno spiraglio minuscolo macchiato da un raggio
bluastro e di pensare: "Chella è a luna!",
che piomba a terra in mezzo ad altri corpi per non più
rialzarsi.
Dopo la galleria della strage c'è la stazione di Balvano. Là
invano il capostazione e alcuni parenti di passeggeri stanno
in attesa del treno notturno.
Quando il ritardo diventa preoccupante il dirigente fa
scattare l'allarme e invia una locomotiva di soccorso.
Quale spettacolo orrendo si para innanzi agli occhi del
macchinista! Davanti alla sua motrice spunta ancora fumante
la testa del convoglio, sinistramente immota.
Sotto di lui sbucano da chissà dove i conducente del treno
che, agitando le mani, gridano: "Aiutateci! È una
tragedia!"
Sceso rapido con gli uomini del soccorso armati di torce, il
macchinista, con l'aria che è tornata appena respirabile,
li guida all'interno del tunnel, dove presto si parano
davanti agli occhi, tra i fasci di luce, i nugoli di
cadaveri riversi, anneriti, con le bocche spalancate alla
vana estrema ricerca di quell'aria che non c'era più.
Molti, i più vecchi, neppure si sono mossi dai loro
giacigli notturni sui convogli.
Li trovano là attaccati alle loro cose, immoti tra quella
marea fuggiasca di commercianti di guerra, con la testa
appoggiate ai loro lenzuoli, alle valigie, aggrappati alle
cose della sopravvivenza nel baratto.
Che macabro spettacolo! Sono quasi tutti morti i passeggeri
della miseria in quella grigia alba tra le montagne brulle.
Solo quelli che, in coda, erano vicini all'uscita della
galleria, sono riusciti a salvarsi.
Li trovano là fuori allo sbocco opposto della galleria
urlanti, piangenti, con la bocca piena di parole di grazia
ricevuta dalla Madonna e dal Signore.
Capite allora la mia rabbia, il mio dolore per un destino
beffardo che pose mia madre prima in coda al convoglio, per
poi farla ritornare al centro del treno maledetto?
Presto arrivano sul posto altri soccorsi. Accorrono i
Carabinieri, ma anche volontari, venuti fuori dalla gente
comune che è stata risvegliata dal suono sinistro delle
campane, lanciato nel sinistro dilucolo da preti e
sacrestani nelle un dì placide chiesette di campagna.
Qualcuno ha temuto attonito un implausibile attacco aereo.
Alla fine tutti si prodigano a recarsi sul luogo del
disastro. Qui non rimane che attuare l'opera pietosa di
ricaricare i nugoli di corpi sul treno della morte, che solo
nell'alba avanzata viene trascinato come una lunga
inesauribile bara nella stazione di Balvano.
Sulle ali di un vento che reca con sé ancora la puzza dei
fumi e dei cadaveri arriva orrenda la notizia.
È la voce popolare che la trasmette, non la radio che tace,
né i giornali che non ci sono ancora.
Come un seme una voce singola che avrà attinto la notizia
dal posto della sciagura, ha cavalcato su un treno, su una
corriera, su un tram arrivando infine a Napoli, dove il
germe dell'informazione dilaga come la peste, arrivando a
colpire i nostri orecchi e trafiggendo i nostri cuori.
"Sapite?" annuncia la gente. "S'è
ffermato nu treno della linea Napoli-Potenza sotto 'a
galleria 'e Balvano e so' morte 600 persone soffocate dai
gas venefici".
600 persone. Maledizione! La mamma, dov'è la mamma? Si sarà
salvata. Stiamo scaricando roba quando la notizia ci arriva.
Mio padre è pallido come un cencio; io mi sento quasi
svenire. Don Gennaro va a parlare col marinaio americano, il
quale gli dice con un gesto della mano contrito: "Oooh!go!go!".
Poi papà mi viene accanto e con durezza, mentre lo fisso
negli occhi come imbambolato, mi sussurra:"Vicié,mammete
è bbiva! E' bbiva l'haje capito! L'avimme 'a credere...è
bbiva!".
"Sì papà è bbiva...".
"Tu và a casa pe' oggi. Pensa a nonna e cunzulala
si ha saputo 'a nutizia. O si no nun dicere niente. I' vaco
a Balvano".
"Voglio venì pur'io".
"No, fa' cumme t'aggio ditto. Pens' 'a nonna. Pensa
a faticà pe' cchelle povere creature che stanno sole a
Baraggiano e hann' 'a mangià".
Si è controllato, ma ora non ce la fa più e gli vengono le
lacrime. "Và Vicié,và".
Mi vede andar via e lui sta sul molo, piangente. Mi volto e
sta ancora là. Procedo mi volto di nuovo e già lui si
muove, ora, prima lento e poi a passo sempre più veloce. Su
quel vento che ha portato la fera notizia vorrebbe volare
per raggiungere la sorte della sua amata. Ed eccolo don
Gennaro che con mezzi di fortuna: camion, macchine,
carrette, il pomeriggio inoltrato è già alla stazioncina
di Balvano. Nella saletta d'attesa c'è gente che piange,
con urla strazianti, consolata da parenti e amici. Quando
papà intravede i corpi ammassati sulla banchina, rigira la
testa verso i vivi che operano poco distante. Sì, là
vuole, là deve cercare perché Giulia "dev'essere
viva"!
Corre verso i carabinieri che stanno stendendo i rapporti e
chiede informazioni sui sopravvissuti: "S'è salvata
na certa Giulia Francione?" chiede a un capitano
dei militi, che controlla la scarna lista scuotendo la
testa.
"Vedite bbuono capità..." insiste,
cercando egli stesso di mettersi con la testa nel foglio per
leggerci chissà cosa, egli che è semianalfabeta. L'altro
lo fissa con tristezza, riprende a scorrere con cura la
lista, indi rialza gli occhi e sussurra: "No, non c'è
proprio. Mi dispiace...".
Con le spalle cascanti l'uomo di Torre si lascia indirizzare
da quello sguardo velato dell'autorità e si avvia mogio
mogio verso la zona della morte, seguito da un gruppo di
giovani carabinieri.
Eccolo là ora accanto alle cataste di corpi.
I cadaveri sono stati ammassati a formare tre montagne,
dividendo con gran coraggio le femmine dai maschi,
distribuiti a loro volta in due mucchi per il loro maggior
numero.
I militi invitano papà, com'essi fanno, a indossare una
mascherina sulla bocca, indi lo aiutano a cercare
naturalmente tra le donne, ma Giulia non si trova.
"Cercamme! Cercamme bbuono" fa ai giovani
aiutanti che continuano a spostare corpi. L'operazione è
lunga e dura una buona mezz'ora, ma Giulia non c'è proprio.
Per un attimo il volto gli si illumina: è possibile che si
sia salvata. Ma allora dov'è?
"Nun ce sta! Nun ce sta! Fosse gghiuta 'o spitale?".
"È possibile" risponde un giovane con
accento nordico. "Può darsi che è saltata nella
lista perché l'hanno portata subito via".
Senza frapporre indugio papà esce dalla stazione e si porta
direttamente dall'appuntato che coadiuva il capitano
dirigente le operazioni. Ponendolo a parte del problema
ottiene di essere portato immediatamente in caserma con la
camionetta. Là s'incolla al graduato che s'è attaccato al
telefono. Chiamano due, tre, cinque ospedali della zona,
compresi quelli di Potenza. Niente da fare...Di Giulia non
c'è traccia. "Muglierema! Addò sta muglierema".
L'appuntato, un pagnottone dall'aria buona, si alza dal suo
posto, depone la cornetta e prende per le spalle il
pover'uomo suggerendogli con un sospiro: "Mi
dispiace. Ma c'è un posto dove non avete ancora
cercato".
"Addò..." soggiunge Gennaro terreo,
fissando in quegli occhi grandi una luce di speranza che non
c'è. "Tra i cadaveri dei maschi".
Ed eccolo di nuovo sulla banchina approssimarsi con una
morsa al cuore alla prima catasta di corpi maschili. Questa
volta la ricerca è breve. Solito rituale della mascherina,
coi carabinieri che ora vengono aiutati dallo stesso
appuntato che ha preso a cuore il caso. Sposta di qua, tira
via di là, i cadaveri con gli occhi sgranati sulla morte
tra le masse scure di fuliggine vengono rimossi a uno a uno.
Ed ecco che d'un tratto papà vede spuntare una testa
avvolta da un fazzoletto. Il suo cuore ha un sussulto. È
una donna! E il fazzoletto è quello delle nozze che la
povera donna si è stretta al capo, quasi per cingersi
idealmente in quella stoffa nell'ultimo abbraccio di
Gennaro.
E Gennaro si getta su quel fazzoletto, su quel viso
abbracciandolo. Come un forsennato si toglie la mascherina,
bacia il nero fumo e le labbra ancora belle, e il naso
regolare, mentre già i carabinieri lo tirano via e
l'appuntato lo consola.
Papà piange coprendosi il volto con le mani, mentre i
giovani provvedono a tirare via prima lui e poi il corpo,
che ricompongono devotamente nello spiazzo poco oltre. Ora
Giulia è là ai suoi piedi. E l'amato ancora si getta su di
lei e l'abbraccia e piange. Stavolta nessuno osa toccarlo.
Vanno via i militi, in silenzio. Lasciandolo solo col suo
dolore, col suo amore senza confini chiuso per sempre in
quel fazzoletto di nozze che la madonna, per una strana
grazia pur nella morte, ha lasciato incredibilmente bianco.
Tutti i corpi sono stati trasportati fuori del piccolo
cimitero di Balvano.
Dopo l'estremo saluto, un prete è venuto a officiare nella
cappelletta adiacente al camposanto la santa messa per i
defunti.
Ora mio padre neppure sente più gli strazi degli altri
parenti, lui da solo là col suo dolore, incollato con gli
occhi al corpo che già viene tumulato insieme a tutti
quanti gli altri.
Hanno scavato tre fosse comuni a forma di pi greco: ai lati
gli uomini e in capo le donne. Ora la terra gettata giù a
forza con le pale già cade a ricoprire le spoglie di questi
compagni di sventura.
Ora il vento agita il fazzoletto che papà stringe tra le
mani e un canto lontano si leva nel suo cuore a modulare
nell'eterno tre parole, note per una musica del paradiso: "Addi'
donna Giulia. Addi'".
Al lamento del papà, solo mi unisco, e anch'io elevo col
flicorno un canto silente che si fa parole d'infinito amore.
"Aspettami, mamma, aspettami. Ci rivedremo da
qualche altra parte. Aspettami".
Pà-pà-pà. Pà-pà-pà. Pà-pà-pà.
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Un pensiero per mia nonna. "Mia
nonna portava i pantaloni, ecco
perché fu messa nella fossa dei maschi. Un pantalone d'amore
per nascondere la sua femminilità. Quel pantalone era
il burka dei poveri" (G. Francione, S. Valentino,
14 febbraio 2007) |
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