Riso liberatorio
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Sulla forza distruttiva e liberante del 

riso

aspetti antropologici e teologici


di Karl-Josef Kuschel

 

     Nulla esiste di più umano del riso, come ben già sapeva il filosofo greco Aristotele. Già per lui l'uomo si distingue da tutti gli esseri viventi per la propria capacità di ridere. Se un qualcosa riesce a ridere, quello è un uomo. E essere uomo significa poter ridere. Vale quindi la pena riflettere sul riso, se vogliamo comprendere l'uomo.

   Ma la cosa più umana dell'uomo, il suo riso, è nello stesso tempo la cosa più enigmatica. Gli uomini possono, infatti, ridere con uno spirito molto diverso. Esiste il riso gioioso, disteso, spensierato, così come esiste il riso maligno, disperato o cinico. Si ride per la semplice gioia di vivere e si ride perché amareggiati dalle delusioni. Esiste il riso di chi approva qualcosa e se ne entusiasma, ed esistono il riso di chi ride di qualcuno e la derisione al limite della canzonatura e dello scherno. Esistono il riso borioso e quello contagioso, il riso morboso e quello benefico. Il riso non conosce confini, tabù, riguardi, dal momento che si ride delle cose più eccelse e di quelle più meschine, delle cose più sante e di quelle più banali. Il riso abbraccia perciò tutta la gamma della vita e degli atteggiamenti di fondo: dalla bontà all'infamia, dal senso di umanità alla barbarie. Ridendo l'uomo può diventare un enigma per se stesso…

   Questa breve descrizione mostra già una cosa: una fenomenologia del riso somiglia alla danza su un vulcano. Non facciamo a tempo a pensare di avere un solido terreno sotto i piedi che già lo sentiamo franare. Non è possibile imbrigliare il riso così come non è possibile imbrigliare la vita, cosa che aumenta ancor di più il suo fascino. Nessuna teoria scientifica e nessun potere ecclesiastico o politico è mai riuscito realmente a inquadrarlo in una serie di categorie o addirittura a controllarlo. Chi ha cercato di farlo s'è esposto automaticamente al ridicolo; non si ride mai tanto di cuore come quando si ride alle spalle di chi cerca di controllare il riso. Perciò ogni tentativo di mettere ordine nel campo del riso ha già in sé qualcosa di ridicolo e somiglia al tentativo di imbottigliare il mare o di impacchettare il vento. Già il filosofo francese Henri Bergson, autore all'inizio del XX secolo di un brillante saggio sul riso, sapeva che il riso non è comprensibile e che si sottrae a ogni conoscenza concettuale. Il riso sarebbe come la cresta di schiuma di un'onda marina, e il teorico del riso come un bambino che afferra la schiuma con la mano e si meraviglia di veder subito dopo scorrere solo poche gocce d'acqua tra le sue dita, gocce molto più salate e molto più amare dell'acqua dell'onda che aveva portato la schiuma sulla spiaggia. Tra le molte dimensioni del riso ne prendo in considerazione due d'importanza decisiva: la sua forza distruttiva e sprezzante e la sua forza liberante, incoraggiante e benefica.

 

 

La forza distruttiva del riso

 

   Qualcuno racconta una barzelletta, fa una battuta a proposito di un vecchio, di un disabile, di uno straniero o di un ebreo. Le sue parole sono in un primo momento assai divertenti e fanno venir voglia di ridere. Ma appena abbiamo capito dove esse vogliono parare, ci sentiamo morire il riso in bocca: “Chi potrebbe mai ridere di una cosa del genere!?”. Innumerevoli volte abbiamo fatto questa esperienza e siamo stati testimoni di barzellette su minoranze o disabili. Tali motti di spirito degenerano molto velocemente in quello che chiamiamo "macabro".

   Il termine "macabro" deriva dal francese "macabre", che risale a sua volta al racconto biblico dei fratelli maccabei (narrato nei libri dei Maccabei), che morirono martiri per la loro fede. Il macabro ha perciò sempre a che fare con la morte e indica qualcosa di raccapricciante, di sinistro, di orribile e di opprimente. Di più ancora: "macabro" significa scherzare, fare dello spirito sulla morte, sulla malattia, su persone disabili.

   Giustamente ci si domanda perciò se non debba esistere una specie di auto-obbligazione etica a non ridere, un pudore del riso, una rinuncia consapevole a ridere. Questo rifiuto di ridere avrebbe la sua importanza in un tempo come il nostro, in cui esiste una attrezzatissima industria del riso nel settore del divertimento. La schiera degli uomini di spettacolo, degli animatori, dei comici di professione, degli intrattenitori di pubblico si è attualmente ingigantita. Il riso è diventato il condimento degli spettacoli, che svolge l'auspicata funzione sotto il profilo della psicologia di massa, in quanto serve a distendere, a distrarre, a far dimenticare agli ascoltatori, agli spettatori o ai lettori le preoccupazioni quotidiane.

   Ma questa forma di allegria artificiosamente suscitata e riprodotta in serie cessa di essere divertente perlomeno a partire dal momento in cui essa si automatizza e la necessaria distensione diventa il narcotico, che non ci permette più di guardare con occhio critico alle contraddizioni di una società, che soffoca la sensibilità per il bisogno degli altri e paralizza lo slancio della solidarietà. Allora ci procuriamo il nostro buon umore ormai solo distogliendo lo sguardo. "Divertirsi" è diventato la formula che giustifica tutte le possibili forme di soddisfacimento; la soglia del pudore si è abbassata.

   Il riso ha perso la propria innocenza almeno a partire dall'industria del divertimento resa funzionale politicamente nella Germania fascista. “Faccia in modo che il popolo tedesco impari di nuovo a ridere”, avrebbe detto una volta Adolf Hitler assegnando questo compito all'organizzatore della "Kraft durch Freude" [forza attraverso la gioia], l'opera nazista per il tempo libero. Con le barzellette sugli ebrei, con giochi antisemitici di società, con caricature, e non da ultimo con l'aiuto di film comici, pure i fascisti seppero infatti sfruttare il riso come droga psichica. Una determinata Germania si divertiva "da morire" mentre al fronte centinaia di migliaia di uomini crepavano, centinaia di città erano rase al suolo durante i bombardamenti notturni e nei campi di concentramento centinaia di migliaia di ebrei venivano sterminati con il gas. Le barzellette sugli ebrei avevano, infatti, preparato anche i pogrom; il riso aveva preventivamente abbassato la soglia del pudore e demolito le inibizioni lì dove esse avrebbero ancora potuto esser presenti. Tanto più facile divenne poi l'opera dei carnefici…

   In questi casi deve esistere una specie di pudore del riso, un rifiuto di ridere che equivale a una protesta, che si dirige soprattutto contro un riso dall'alto verso il basso, a spese semplicemente dei deboli, degli emarginati e dei socialmente disprezzati; contro un riso a spese della dignità umana, contro un riso quale atto di una ulteriore emarginazione e del declassamento. Un riso del genere, che ha perso ogni legame con il senso di umanità e con l'éthos, non è affatto espressione di una cultura del ridere, bensì di una incultura della freddezza di sentimenti.

   Proprio i cristiani hanno qui motivo di essere particolarmente sensibili. Gli autori del Nuovo Testamento non dicono mai che Gesù abbia riso, però parlano spesso di un'altra cosa, e cioè del fatto che il Nazareno fu deriso. Egli fa evidentemente parte di quegli uomini che attirarono su di sé il riso degli altri e precisamente già durante la loro vita. Gesù, quando dice che la figlia morta di Giairo, capo della sinagoga, è solo addormentata, viene sbeffeggiato dalla gente (Mc 5,35-40). Questo racconto è il pendant gesuanico del racconto di Abramo e Sara. Come l'annuncio dato da Dio della nascita di un figlio dovette far ridere i vecchi Abramo e Sara (Gn 17,17; 18,12-25), così l'annuncio di Gesù fa ridere la gente che staziona attorno alla sinagoga. Ridicolo Abramo e Sara trovarono il fatto che Dio avrebbe suscitato nuova vita attraverso di essi; ridicolo suona agli orecchi degli ascoltatori di Gesù il fatto che egli possa richiamare in vita cose morte. Gesù appare qui come la stoltezza incarnata di Dio, come il predicatore deriso del regno di Dio.

   Pure alla fine della storia di Gesù troviamo il quadro di un pazzo deriso. Alla fine c'è il riso soffocato, la gioia uccisa; alla fine troviamo il grido dell'appeso alla croce e la perfidia dei carnefici. Qui il cristianesimo ha qualcosa di specifico da mostrare rispetto alle altre religioni, perché in nessuna delle grandi religioni la realtà più profonda e quella comica, il sublime e il ridicolo, la fede e lo scherno stanno così direttamente uno accanto all'altro come nel cristianesimo, e precisamente secondo le sue stesse fonti. Per esempio, nel racconto della passione dell'evangelista Matteo (27,39-44) le grandi parole di Gesù, anzi le profonde professioni di fede, sono immerse nella penombra del frivolo e dello scherno. Figlio di Dio, salvi se stesso; re d'Israele, scenda dalla croce; fiducia in Dio, allora adesso lo salvi.

   In un unico e medesimo testo stanno perciò l'uno accanto all'altro il commovente e il ridicolo. Il Figlio di Dio in croce, quale scherno; il re d'Israele sul legno, quale scherzo; la fiducia in Dio del predicatore di Nazaret, come appare comica di fronte a una simile fine. In nessun testo comparabile delle grandi religioni troviamo un collegamento del genere tra fede e perfidia, tra professione di fede e riso.

   La qual cosa, però, viceversa significa: la fede cristiana nella sequela di Gesù è sempre una fede insidiata, una fede che si afferma in mezzo alla perfidia, allo scherno e alla derisione. Non è possibile credere a minor prezzo. La contestazione segue la fede come la sua ombra. La fede cristiana nel Crocifisso come il Risuscitato non può sussistere e perseverare senza lo scherno, bensì solo in mezzo al riso di coloro che la mettono in dubbio e la deridono. I cristiani in quanto derisi staranno perciò sempre dalla parte delle vittime dello scherno, saranno sempre solidali con i derisi e i dileggiati. Essi non dimenticheranno mai che pure il loro Maestro di Nazaret fece parte dei derisi e che Dio stesso si fece attraverso di lui pazzo per nostro amore.

 

 

La forza liberante del riso

 

   Il riso non presenta naturalmente solo un lato distruttivo, bensì anche un lato liberante. Di questo lato fa parte il motto di spirito. Già Sigmund Freud aveva richiamato l'attenzione su questo fatto nella sua ricerca epocale del 1905 sul Motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio: l'uomo ridendo si libera – anche se solo per breve tempo – da inibizioni e rimozioni, si dischiude in modo giocoso nuove fonti di piacere e mette temporaneamente a tacere l'istanza della censura presente nel suo intimo. Il motto di spirito può portare alla luce i suoi desideri più segreti, fargli prendere in qualche misura coscienza dei tabù e dei riguardi sotto cui vive e soffre, può procurargli quel sollievo senza il quale spesso non sopporterebbe la pressione, può servire da valvola di sfogo dell'aggressione, senza la quale forse egli finirebbe per indulgere alla violenza.

   Detto in altre parole, il motto di spirito aiuta a coesistere con un mondo, le cui contraddizioni ci fanno soffrire senza che le possiamo realmente cambiare. Esso può ridurre l'angoscia senza eliminarla completamente, può esprimere cose proibite senza rompere del tutto con le strutture dominanti, può distendere l'animo senza banalizzare tutto. Il motto di spirito mette acutamente in luce la discrepanza tra essere e apparenza, realtà e finzione, e può essere il mascheramento di cui ci serviamo per dire ad altri senza pericolo la verità. Ridendo è, infatti, possibile affrontare meglio la serietà autoritaria di un gruppo o di una società. Ridendo gli uomini si rendono liberi all'istante. In breve, il motto di spirito è un brano della messinscena narrativa del dolore serenamente accettato per le contraddizioni e gli abissi dell'esistenza, che non possiamo cambiare. Raccontando una barzelletta ci liberiamo dalla fissazione su ciò che è solo problematico e dimostriamo la capacità di svelenire con una risata una situazione opprimente e di dominarla così psichicamente.

   Il fatto che i motti di spirito siano atti di liberazione narrativamente inscenati rimanda a un'importante dimensione del riso, a una dimensione che infonde speranza e che è benefica. Nessuno è capace di ridere in maniera più libera di una madre che ha appena dato al mondo un figlio. Il riso della madre: esso è espressione della sua felicità per una nuova vita, per un nuovo inizio. Questo riso è stato conservato nel mito e nella poesia: il riso per il piacere della vita. Il poeta romano Virgilio (70-19 a.C.) parla nella sua celebre quarta Egloga di un figlio di dio, la cui nascita annuncia una nuova età. E questo neonato ride e tradisce così la sua origine soprannaturale: egli è della stirpe di Helios, del dio Sole, della stirpe del dio che ride. Questo linguaggio sopravvive sino ad oggi, allorché diciamo che il sole ride; rimanda alla propria origine mitica e collega il sole con una nuova vita, con una nuova creazione e con un nuovo tempo.

   Il riso e una nuova vita: conosciamo questo nesso in base a scritti della primitiva cristianità, ai cosiddetti Apocrifi. Questi testi parlano, infatti – diversamente dal Nuovo Testamento –, di Maria come di una madre che ride. Anzi, essi raccontano addirittura che pure il neonato Gesù avrebbe non solo pianto, come fanno gli altri bambini, bensì anche "riso" e con un "sorriso amabilissimo". La stessa cosa viene raccontata anche a proposito di Zoroastro, fondatore della religione persiana, che sarebbe stato l'unico uomo a ridere il giorno della propria nascita. Il sole sta, infatti, al centro del culto zoroastriano e significa anche qui fine dell'oscurità, nuovo inizio, nuova creazione. Similmente conosciamo questo fatto anche da fonti greco-egiziane, dove in un racconto della creazione leggiamo: “Dio rise sette volte, e al suo riso nacquero i sette dèi che abbracciano il mondo. […] la settima volta egli rise lacrime di gioia, e nacque Psyche”. Infine lo conosciamo dall'Egitto, dove in un grande inno del Nilo si parla del riso. Quando dopo tempi di carestia e di fame le inondazioni del Nilo raggiungono di nuovo la debita altezza, quando cioè il Nilo si innalza, la terra giubila e tutti gioiscono. “Tutte le mascelle si mettono a ridere e mettono a nudo tutti i denti”.

   Parallelamente a queste fonti troviamo il riso come espressione della fecondità, della pienezza della vita e della resistenza contro la morte anche in favole e canti popolari. Bisogna far ridere il dio della pioggia, se vogliamo che egli lasci scorrere l'acqua; riso e pioggia, riso e fecondità vanno di pari passo. Nel dramma cultuale orientale esistono salvatori che ridendo fanno fiorire la terra. E il riso per la pienezza della vita può essere nello stesso tempo concepito come rimedio contro tutti i nemici della vita. Di questo parlano canti popolari della Serbia: la madre ridendo fa di nuovo tornare in vita il figlio defunto; oppure il padre uccide su comando divino il proprio figlio, ma ecco arrivare Gesù che ride con tutte le forze e riporta in vita il bambino. Oppure le usanze: quando muore un figlio, i genitori ridono per difendere gli altri dalla morte.

   Non è perciò un caso che per secoli nella cristianità si sia riso durante le funzioni pasquali. Il "riso pasquale": lo si è praticato per secoli nelle chiese. Infatti, in certi paesi di lingua tedesca, durante la messa di Pasqua, i predicatori solevano incitare il popolo concelebrante a ridere sonoramente, anche ricorrendo a pantomime oscene e a storielle ambigue. Risus pascalis, riso pasquale, veniva chiamata questa usanza.

   Questo riso è espressione della gioia per la forza di Dio, che può vincere anche la morte. Il risuscitamento di Cristo va perciò concepito come espressione del riso di Dio sulla morte, un riso che contagia gli uomini. Già l'apostolo Paolo aveva scritto in una delle sue prime lettere un versetto di giubilo sulla morte della morte: “La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?” (1 Cor 15,54s.). Queste parole erano già un segnale del giubilo pasquale, del riso pasquale. E pure nella liturgia cristiana pasquale si cominciò a recitare fin dai primi tempi il versetto di un salmo, che venne riferito al giorno della risurrezione di Cristo: “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso” (Sal 118,24).

   Questo riso del cristiano è espressione della capacità di defanatizzare ogni accanimento religioso o politico in fatto di verità. Esso è anche espressione di una capacità spirituale di sopravvivenza nelle condizioni del cattolicesimo o del protestantesimo realmente esistenti. Nel riso gioioso per lo stato del mondo e della chiesa, il cui repertorio presenta da secoli sempre le stesse tragicommedie, riusciamo a prendere criticamente coram Deo le distanze da noi stessi, in modo da riuscire a scorgere nelle faccende religiose o ecclesiastiche un'opera umana senza cedere all'arroganza o abbandonarci alla rassegnazione. Il riso è anche nell'ambito della chiesa una valvola di sfogo dell'aggressione, anzi una profilassi del cinismo. Ridere significa trovare una forma di coesistenza riconciliata con le contraddizioni e con gli abissi del mondo senza rimuoverli o senza lasciarsi fatalisticamente opprimere da essi. Chi partecipa al riso pasquale di Dio sulla morte dice con questo che non ci siamo ancora sbarazzati delle realtà del mondo e che le storie dolorose di questo mondo non avranno l'ultima parola. Chi ride così confida nella forza del cambiamento. Invece la rassegnazione non può diventare nuova vita. La depressione non può diventare una speranza concreta. Il cinismo non può diventare solidarietà fattiva.

Karl-Josef Kuschel,
da Concilium 4/2000, 706-715

 

 
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Last updated: maggio 08, 2005.