Nulla esiste di più
umano del riso, come ben già sapeva il filosofo greco Aristotele.
Già per lui l'uomo si distingue da tutti gli esseri viventi per la
propria capacità di ridere. Se un qualcosa riesce a ridere, quello
è un uomo. E essere uomo significa poter ridere. Vale quindi la
pena riflettere sul riso, se vogliamo comprendere l'uomo.
Ma la
cosa più umana dell'uomo, il suo riso, è nello stesso tempo la
cosa più enigmatica. Gli uomini possono, infatti, ridere con uno
spirito molto diverso. Esiste il riso gioioso, disteso, spensierato,
così come esiste il riso maligno, disperato o cinico. Si ride per
la semplice gioia di vivere e si ride perché amareggiati dalle
delusioni. Esiste il riso di chi approva qualcosa e se ne
entusiasma, ed esistono il riso di chi ride di qualcuno e la
derisione al limite della canzonatura e dello scherno. Esistono il
riso borioso e quello contagioso, il riso morboso e quello benefico.
Il riso non conosce confini, tabù, riguardi, dal momento che si
ride delle cose più eccelse e di quelle più meschine, delle cose
più sante e di quelle più banali. Il riso abbraccia perciò tutta
la gamma della vita e degli atteggiamenti di fondo: dalla bontà
all'infamia, dal senso di umanità alla barbarie. Ridendo l'uomo può
diventare un enigma per se stesso…
Questa
breve descrizione mostra già una cosa: una fenomenologia del riso
somiglia alla danza su un vulcano. Non facciamo a tempo a pensare di
avere un solido terreno sotto i piedi che già lo sentiamo franare.
Non è possibile imbrigliare il riso così come non è possibile
imbrigliare la vita, cosa che aumenta ancor di più il suo fascino.
Nessuna teoria scientifica e nessun potere ecclesiastico o politico
è mai riuscito realmente a inquadrarlo in una serie di categorie o
addirittura a controllarlo. Chi ha cercato di farlo s'è esposto
automaticamente al ridicolo; non si ride mai tanto di cuore come
quando si ride alle spalle di chi cerca di controllare il riso.
Perciò ogni tentativo di mettere ordine nel campo del riso ha già
in sé qualcosa di ridicolo e somiglia al tentativo di imbottigliare
il mare o di impacchettare il vento. Già il filosofo francese Henri
Bergson, autore all'inizio del XX secolo di un brillante saggio sul
riso, sapeva che il riso non è comprensibile e che si
sottrae a ogni conoscenza concettuale. Il riso sarebbe come la
cresta di schiuma di un'onda marina, e il teorico del riso come un
bambino che afferra la schiuma con la mano e si meraviglia di veder
subito dopo scorrere solo poche gocce d'acqua tra le sue dita, gocce
molto più salate e molto più amare dell'acqua dell'onda che aveva
portato la schiuma sulla spiaggia. Tra le molte dimensioni del riso
ne prendo in considerazione due d'importanza decisiva: la sua forza
distruttiva e sprezzante e la sua forza liberante, incoraggiante e
benefica.
La forza distruttiva
del riso
Qualcuno racconta una barzelletta, fa una battuta a proposito di un
vecchio, di un disabile, di uno straniero o di un ebreo. Le sue
parole sono in un primo momento assai divertenti e fanno venir
voglia di ridere. Ma appena abbiamo capito dove esse vogliono
parare, ci sentiamo morire il riso in bocca: “Chi potrebbe mai
ridere di una cosa del genere!?”. Innumerevoli volte abbiamo fatto
questa esperienza e siamo stati testimoni di barzellette su
minoranze o disabili. Tali motti di spirito degenerano molto
velocemente in quello che chiamiamo "macabro".
Il
termine "macabro" deriva dal francese "macabre",
che risale a sua volta al racconto biblico dei fratelli maccabei
(narrato nei libri dei Maccabei), che morirono martiri per la
loro fede. Il macabro ha perciò sempre a che fare con la morte e
indica qualcosa di raccapricciante, di sinistro, di orribile e di
opprimente. Di più ancora: "macabro" significa scherzare,
fare dello spirito sulla morte, sulla malattia, su persone disabili.
Giustamente ci si domanda perciò se non debba esistere una specie
di auto-obbligazione etica a non ridere, un pudore del riso, una
rinuncia consapevole a ridere. Questo rifiuto di ridere avrebbe la
sua importanza in un tempo come il nostro, in cui esiste una
attrezzatissima industria del riso nel settore del divertimento. La
schiera degli uomini di spettacolo, degli animatori, dei comici di
professione, degli intrattenitori di pubblico si è attualmente
ingigantita. Il riso è diventato il condimento degli spettacoli,
che svolge l'auspicata funzione sotto il profilo della psicologia di
massa, in quanto serve a distendere, a distrarre, a far dimenticare
agli ascoltatori, agli spettatori o ai lettori le preoccupazioni
quotidiane.
Ma
questa forma di allegria artificiosamente suscitata e riprodotta in
serie cessa di essere divertente perlomeno a partire dal momento in
cui essa si automatizza e la necessaria distensione diventa il
narcotico, che non ci permette più di guardare con occhio critico
alle contraddizioni di una società, che soffoca la sensibilità per
il bisogno degli altri e paralizza lo slancio della solidarietà.
Allora ci procuriamo il nostro buon umore ormai solo distogliendo lo
sguardo. "Divertirsi" è diventato la formula che
giustifica tutte le possibili forme di soddisfacimento; la soglia
del pudore si è abbassata.
Il riso
ha perso la propria innocenza almeno a partire dall'industria del
divertimento resa funzionale politicamente nella Germania fascista.
“Faccia in modo che il popolo tedesco impari di nuovo a ridere”,
avrebbe detto una volta Adolf Hitler assegnando questo compito
all'organizzatore della "Kraft durch Freude" [forza
attraverso la gioia], l'opera nazista per il tempo libero. Con le
barzellette sugli ebrei, con giochi antisemitici di società, con
caricature, e non da ultimo con l'aiuto di film comici, pure i
fascisti seppero infatti sfruttare il riso come droga psichica. Una
determinata Germania si divertiva "da morire" mentre al
fronte centinaia di migliaia di uomini crepavano, centinaia di città
erano rase al suolo durante i bombardamenti notturni e nei campi di
concentramento centinaia di migliaia di ebrei venivano sterminati
con il gas. Le barzellette sugli ebrei avevano, infatti, preparato
anche i pogrom; il riso aveva preventivamente abbassato la
soglia del pudore e demolito le inibizioni lì dove esse avrebbero
ancora potuto esser presenti. Tanto più facile divenne poi l'opera
dei carnefici…
In
questi casi deve esistere una specie di pudore del riso, un rifiuto
di ridere che equivale a una protesta, che si dirige soprattutto
contro un riso dall'alto verso il basso, a spese semplicemente dei
deboli, degli emarginati e dei socialmente disprezzati; contro un
riso a spese della dignità umana, contro un riso quale atto di una
ulteriore emarginazione e del declassamento. Un riso del genere, che
ha perso ogni legame con il senso di umanità e con l'éthos, non
è affatto espressione di una cultura del ridere, bensì di una
incultura della freddezza di sentimenti.
Proprio
i cristiani hanno qui motivo di essere particolarmente sensibili.
Gli autori del Nuovo Testamento non dicono mai che Gesù abbia riso,
però parlano spesso di un'altra cosa, e cioè del fatto che il
Nazareno fu deriso. Egli fa evidentemente parte di quegli uomini che
attirarono su di sé il riso degli altri e precisamente già durante
la loro vita. Gesù, quando dice che la figlia morta di Giairo, capo
della sinagoga, è solo addormentata, viene sbeffeggiato dalla gente
(Mc 5,35-40). Questo racconto è il pendant gesuanico
del racconto di Abramo e Sara. Come l'annuncio dato da Dio della
nascita di un figlio dovette far ridere i vecchi Abramo e Sara (Gn
17,17; 18,12-25), così l'annuncio di Gesù fa ridere la gente
che staziona attorno alla sinagoga. Ridicolo Abramo e Sara trovarono
il fatto che Dio avrebbe suscitato nuova vita attraverso di essi;
ridicolo suona agli orecchi degli ascoltatori di Gesù il fatto che
egli possa richiamare in vita cose morte. Gesù appare qui come la
stoltezza incarnata di Dio, come il predicatore deriso del regno di
Dio.
Pure
alla fine della storia di Gesù troviamo il quadro di un pazzo
deriso. Alla fine c'è il riso soffocato, la gioia uccisa; alla fine
troviamo il grido dell'appeso alla croce e la perfidia dei
carnefici. Qui il cristianesimo ha qualcosa di specifico da mostrare
rispetto alle altre religioni, perché in nessuna delle grandi
religioni la realtà più profonda e quella comica, il sublime e il
ridicolo, la fede e lo scherno stanno così direttamente uno accanto
all'altro come nel cristianesimo, e precisamente secondo le sue
stesse fonti. Per esempio, nel racconto della passione
dell'evangelista Matteo (27,39-44) le grandi parole di Gesù, anzi
le profonde professioni di fede, sono immerse nella penombra del
frivolo e dello scherno. Figlio di Dio, salvi se stesso; re
d'Israele, scenda dalla croce; fiducia in Dio, allora adesso lo
salvi.
In un
unico e medesimo testo stanno perciò l'uno accanto all'altro il
commovente e il ridicolo. Il Figlio di Dio in croce, quale scherno;
il re d'Israele sul legno, quale scherzo; la fiducia in Dio del
predicatore di Nazaret, come appare comica di fronte a una simile
fine. In nessun testo comparabile delle grandi religioni troviamo un
collegamento del genere tra fede e perfidia, tra professione di fede
e riso.
La qual
cosa, però, viceversa significa: la fede cristiana nella sequela
di Gesù è sempre una fede insidiata, una fede che si afferma
in mezzo alla perfidia, allo scherno e alla derisione. Non è
possibile credere a minor prezzo. La contestazione segue la fede
come la sua ombra. La fede cristiana nel Crocifisso come il
Risuscitato non può sussistere e perseverare senza lo scherno, bensì
solo in mezzo al riso di coloro che la mettono in dubbio e la
deridono. I cristiani in quanto derisi staranno perciò sempre dalla
parte delle vittime dello scherno, saranno sempre solidali con i
derisi e i dileggiati. Essi non dimenticheranno mai che pure il loro
Maestro di Nazaret fece parte dei derisi e che Dio stesso si fece
attraverso di lui pazzo per nostro amore.
La forza liberante
del riso
Il riso
non presenta naturalmente solo un lato distruttivo, bensì anche un
lato liberante. Di questo lato fa parte il motto di spirito. Già Sigmund
Freud aveva richiamato l'attenzione su questo fatto nella sua
ricerca epocale del 1905 sul Motto di spirito e la sua relazione
con l'inconscio: l'uomo ridendo si libera – anche se
solo per breve tempo – da inibizioni e rimozioni, si dischiude in
modo giocoso nuove fonti di piacere e mette temporaneamente a tacere
l'istanza della censura presente nel suo intimo. Il motto di spirito
può portare alla luce i suoi desideri più segreti, fargli prendere
in qualche misura coscienza dei tabù e dei riguardi sotto cui vive
e soffre, può procurargli quel sollievo senza il quale spesso non
sopporterebbe la pressione, può servire da valvola di sfogo
dell'aggressione, senza la quale forse egli finirebbe per indulgere
alla violenza.
Detto
in altre parole, il motto di spirito aiuta a coesistere con un
mondo, le cui contraddizioni ci fanno soffrire senza che le possiamo
realmente cambiare. Esso può ridurre l'angoscia senza eliminarla
completamente, può esprimere cose proibite senza rompere del tutto
con le strutture dominanti, può distendere l'animo senza
banalizzare tutto. Il motto di spirito mette acutamente in luce la
discrepanza tra essere e apparenza, realtà e finzione, e può
essere il mascheramento di cui ci serviamo per dire ad altri senza
pericolo la verità. Ridendo è, infatti, possibile affrontare
meglio la serietà autoritaria di un gruppo o di una società.
Ridendo gli uomini si rendono liberi all'istante. In breve, il motto
di spirito è un brano della messinscena narrativa del dolore
serenamente accettato per le contraddizioni e gli abissi
dell'esistenza, che non possiamo cambiare. Raccontando una
barzelletta ci liberiamo dalla fissazione su ciò che è solo
problematico e dimostriamo la capacità di svelenire con una risata
una situazione opprimente e di dominarla così psichicamente.
Il
fatto che i motti di spirito siano atti di liberazione
narrativamente inscenati rimanda a un'importante dimensione del
riso, a una dimensione che infonde speranza e che è benefica.
Nessuno è capace di ridere in maniera più libera di una madre che
ha appena dato al mondo un figlio. Il riso della madre: esso è
espressione della sua felicità per una nuova vita, per un nuovo
inizio. Questo riso è stato conservato nel mito e nella poesia:
il riso per il piacere della vita. Il poeta romano Virgilio (70-19
a.C.) parla nella sua celebre quarta Egloga di un figlio di
dio, la cui nascita annuncia una nuova età. E questo neonato ride e
tradisce così la sua origine soprannaturale: egli è della stirpe
di Helios, del dio Sole, della stirpe del dio che ride. Questo
linguaggio sopravvive sino ad oggi, allorché diciamo che il sole
ride; rimanda alla propria origine mitica e collega il sole con una
nuova vita, con una nuova creazione e con un nuovo tempo.
Il riso
e una nuova vita: conosciamo
questo nesso in base a scritti della primitiva cristianità, ai
cosiddetti Apocrifi. Questi testi parlano, infatti –
diversamente dal Nuovo Testamento –, di Maria come di una madre
che ride. Anzi, essi raccontano addirittura che pure il neonato Gesù
avrebbe non solo pianto, come fanno gli altri bambini, bensì anche
"riso" e con un "sorriso amabilissimo". La
stessa cosa viene raccontata anche a proposito di Zoroastro,
fondatore della religione persiana, che sarebbe stato l'unico
uomo a ridere il giorno della propria nascita. Il sole sta, infatti,
al centro del culto zoroastriano e significa anche qui fine
dell'oscurità, nuovo inizio, nuova creazione. Similmente conosciamo
questo fatto anche da fonti greco-egiziane, dove in un
racconto della creazione leggiamo: “Dio rise sette volte, e al suo
riso nacquero i sette dèi che abbracciano il mondo. […] la
settima volta egli rise lacrime di gioia, e nacque Psyche”. Infine
lo conosciamo dall'Egitto, dove in un grande inno del Nilo si
parla del riso. Quando dopo tempi di carestia e di fame le
inondazioni del Nilo raggiungono di nuovo la debita altezza, quando
cioè il Nilo si innalza, la terra giubila e tutti gioiscono.
“Tutte le mascelle si mettono a ridere e mettono a nudo tutti i
denti”.
Parallelamente a queste fonti troviamo il riso come espressione
della fecondità, della pienezza della vita e della resistenza
contro la morte anche in favole e canti popolari. Bisogna far
ridere il dio della pioggia, se vogliamo che egli lasci scorrere
l'acqua; riso e pioggia, riso e fecondità vanno di pari passo. Nel
dramma cultuale orientale esistono salvatori che ridendo fanno
fiorire la terra. E il riso per la pienezza della vita può essere
nello stesso tempo concepito come rimedio contro tutti i nemici
della vita. Di questo parlano canti popolari della Serbia: la madre
ridendo fa di nuovo tornare in vita il figlio defunto; oppure il
padre uccide su comando divino il proprio figlio, ma ecco arrivare
Gesù che ride con tutte le forze e riporta in vita il bambino.
Oppure le usanze: quando muore un figlio, i genitori ridono per
difendere gli altri dalla morte.
Non è
perciò un caso che per secoli nella cristianità si sia riso
durante le funzioni pasquali. Il "riso pasquale": lo si è
praticato per secoli nelle chiese. Infatti, in certi paesi di lingua
tedesca, durante la messa di Pasqua, i predicatori solevano incitare
il popolo concelebrante a ridere sonoramente, anche ricorrendo a
pantomime oscene e a storielle ambigue. Risus pascalis, riso
pasquale, veniva chiamata questa usanza.
Questo
riso è espressione della gioia per la forza di Dio, che può
vincere anche la morte. Il risuscitamento di Cristo va perciò
concepito come espressione del riso di Dio sulla morte, un riso che
contagia gli uomini. Già l'apostolo Paolo aveva scritto in
una delle sue prime lettere un versetto di giubilo sulla morte della
morte: “La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov'è, o
morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?” (1
Cor 15,54s.). Queste parole erano già un segnale del giubilo
pasquale, del riso pasquale. E pure nella liturgia cristiana
pasquale si cominciò a recitare fin dai primi tempi il versetto di
un salmo, che venne riferito al giorno della risurrezione di Cristo:
“Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo
in esso” (Sal 118,24).
Questo
riso del cristiano è espressione della capacità di defanatizzare
ogni accanimento religioso o politico in fatto di verità. Esso è
anche espressione di una capacità spirituale di sopravvivenza nelle
condizioni del cattolicesimo o del protestantesimo realmente
esistenti. Nel riso gioioso per lo stato del mondo e della chiesa,
il cui repertorio presenta da secoli sempre le stesse tragicommedie,
riusciamo a prendere criticamente coram Deo le distanze da
noi stessi, in modo da riuscire a scorgere nelle faccende religiose
o ecclesiastiche un'opera umana senza cedere all'arroganza o
abbandonarci alla rassegnazione. Il riso è anche nell'ambito della
chiesa una valvola di sfogo dell'aggressione, anzi una profilassi
del cinismo. Ridere significa trovare una forma di coesistenza
riconciliata con le contraddizioni e con gli abissi del mondo senza
rimuoverli o senza lasciarsi fatalisticamente opprimere da essi. Chi
partecipa al riso pasquale di Dio sulla morte dice con questo che
non ci siamo ancora sbarazzati delle realtà del mondo e che le
storie dolorose di questo mondo non avranno l'ultima parola. Chi
ride così confida nella forza del cambiamento. Invece la
rassegnazione non può diventare nuova vita. La depressione non può
diventare una speranza concreta. Il cinismo non può diventare
solidarietà fattiva.
Karl-Josef Kuschel,
da Concilium 4/2000, 706-715