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LA CORTE COSTITUZIONALE AVALLA LA FORZA DEL GIUDICE CREATIVO
Una pronuncia storica quella della Corte Costituzionale che avalla la
“potenza legislativa” del giudice a fronte dell’inerzia del Parlamento.
Le avanguardie del diritto esultano!
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ORDINANZA N. 334
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco
BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK
Giudice
- Francesco AMIRANTE “
- Ugo DE
SIERVO “
- Paolo MADDALENA “
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco
GALLO “
- Luigi MAZZELLA
“
- Gaetano SILVESTRI
“
- Sabino
CASSESE “
- Maria Rita SAULLE
“
- Giuseppe TESAURO
“
- Paolo Maria NAPOLITANO “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi per conflitto di attribuzione
tra poteri dello Stato sorti a seguito della sentenza della Corte di
cassazione, n. 21748 del 16 ottobre 2007 e del decreto della Corte di
appello di Milano del 25 giugno 2008, promossi con ricorsi della Camera
dei deputati e del Senato della Repubblica depositati in cancelleria il
17 settembre 2008 ed iscritti ai nn. 16 e 17 del registro conflitti tra
poteri dello Stato 2008, fase di ammissibilità.
Udito nella camera di consiglio dell’8 ottobre
2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo.
Ritenuto che con ricorso depositato il 17
settembre 2008 (reg. confl. poteri amm. n. 16 del 2008), la Camera dei
deputati ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della
Corte di cassazione e della Corte di appello di Milano, assumendo che
tali Autorità giudiziarie abbiano «esercitato attribuzioni proprie del
potere legislativo, comunque interferendo con le prerogative del potere
medesimo»;
che, in particolare, la sentenza della
Corte di cassazione, sez. 1 civile, n. 21748 del 2007 e il decreto della
Corte di appello di Milano, sez. I civile, n. 88 del 25 giugno 2008
avrebbero «creato una disciplina innovativa della fattispecie, fondata
su presupposti non ricavabili dall’ordinamento vigente con alcuno dei
criteri ermeneutici utilizzabili dall’autorità giudiziaria», così
meritando di essere annullate da questa Corte;
che entrambi i provvedimenti menzionati
sono stati adottati a seguito della domanda del tutore di una giovane
donna di interrompere il trattamento (alimentazione con sondino
gastrico) che mantiene in essere lo stato vegetativo permanente in cui
ella giace da numerosi anni, a seguito di un incidente stradale;
che tale domanda, già rigettata dal
Tribunale di Lecco e da altra sezione della Corte di appello di Milano,
è stata infine accolta tramite il decreto impugnato, a seguito della
pronuncia del giudice di legittimità con cui si è annullato il
provvedimento negativo della Corte di appello;
che la Corte di cassazione ha stabilito
che il legale rappresentante che chiede l’interruzione del trattamento
vitale «deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse
dell’incapace; e, nella ricerca del
best interest, deve decidere non “al posto”
dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi,
ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto
prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui
espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella
volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue
inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni
etiche, religiose, culturali e filosofiche»;
che, pertanto, l’interruzione del
trattamento può venire disposta soltanto: «a) quando la condizione di
stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico,
irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli
standard scientifici
riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona
abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile,
recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo
esterno; e b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base
ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del
rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai
suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di
cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona»;
che la Camera
ricorrente ritiene pacificamente ammissibile il conflitto, in quanto
esso non avrebbe ad oggetto un mero
error in iudicando da parte
dell’Autorità giudiziaria: quest’ultima, viceversa, avrebbe colmato il
vuoto normativo assunto a presupposto delle proprie pronunce «mediante
un’attività che assume sostanzialmente i connotati di vera e propria
attività di produzione normativa»;
che sarebbe perciò interesse della Camera
«ripristinare l’ordine costituzionale delle attribuzioni», giacché per
tale via si sarebbe realizzato «il radicale sovvertimento del principio
della divisione dei poteri», in violazione degli artt. 70, 101, secondo
comma e 102, primo comma, della Costituzione;
che il presupposto da cui muove la
ricorrente risiede nel difetto di un’espressa disciplina legislativa
atta a regolamentare la fattispecie, come avrebbe affermato la stessa
Corte di cassazione;
che mentre quest’ultima ha ugualmente
ritenuto di poter accogliere la domanda, la Camera sostiene che ciò
sarebbe precluso al giudice, attesa la «appartenenza della materia alla
sfera tipica della discrezionalità legislativa»: l’autorità giudiziaria
avrebbe invece «proceduto all’auto produzione della disposizione
normativa»;
che tale circostanza troverebbe conferma
in numerosi indici segnalati dalla ricorrente;
che, anzitutto, la Cassazione, traendo
spunti da «una congerie di richiami a soluzioni che al riguardo
sarebbero state adottate in ordinamenti e sentenze straniere» e
spingendosi persino oltre i limiti ivi tracciati, avrebbe essa stessa
confermato «l’impossibilità di reperire nel nostro ordinamento vigente
una apposita disciplina legislativa»; inoltre, «le numerose proposte di
legge avanzate in materia, peraltro pendenti al momento dell’adozione
dei provvedimenti giudiziari impugnati» sarebbero «probanti» del vuoto
normativo che fino ad ora ha accompagnato il cd. “testamento di vita”:
«d’altro canto, è ben comprensibile», aggiunge la Camera, «che
nell’ambito dei campi dell’esperienza umana in cui, come nel caso di cui
si tratta, l’evoluzione medico scientifica sollevi controverse questioni
etico/giuridiche fondamentali, la risposta del legislatore - quale che
ne possa essere il verso - non sia pressoché immediata, ma necessiti di
adeguati tempi di riflessione, ferma restando nelle more l’obbligatoria
applicazione della normativa esistente»;
che in presenza di tali condizioni, per
giustificare l’intervento del giudice non «sarebbe conferente appellarsi
alla impossibilità del “non liquet“,
considerato che la sua ratio
non è certamente quella di consentire la trasformazione del
giudice in legislatore, ma anzi è volta, come si sa, a rendere ancor più
ineludibile il vincolo al rispetto del sistema legislativo vigente»;
che, infatti, alla luce degli artt. 70,
101 e 102 della Costituzione, «nessuno potrebbe disconoscere che nella
Costituzione, conformemente alla nostra tradizione giuridica, opera una
istanza di ripartizione dei compiti tra il potere legislativo ed il
potere giudiziario il cui nucleo essenziale non può subire alterazioni o
attenuazioni di sorta. Tale istanza trova appunto la sua puntuale
espressione nelle disposizioni costituzionali sopra richiamate, le quali
respingono recisamente l’idea, che emerge obiettivamente dalle sentenze
qui impugnate, che tra funzione legislativa e funzione giurisdizionale
vi sia niente di più che una frontiera mobile che ciascun potere
potrebbe liberamente varcare all’occorrenza»;
che, a maggior ragione, tale conclusione
dovrebbe venire ribadita con riferimento alla disciplina dei diritti
costituzionali soggetti a riserva di legge, giacché in tal caso «la
legge è il mezzo “privilegiato” destinato alla conformazione» di tali
diritti;
che, prosegue la ricorrente, l’Autorità
giudiziaria non avrebbe potuto pronunciare ai sensi dell’art. 12 delle
disposizioni sulla legge in generale, poiché, al contrario, gli artt.
357 e 414 cod. civ., in tema di poteri del tutore, già allo stato
avrebbero precluso l’accoglimento della domanda, non potendosi
attribuire al primo, a parere della Camera, la prerogativa di «disporre
della vita del soggetto tutelato»;
che, parimenti, l’art. 5 cod. civ., in
tema di atti dispositivi del proprio corpo, e gli artt. 575, 576, 577,
579, 580 cod. pen., in tema di omicidio, avrebbero imposto all’Autorità
giudiziaria di concludere che nel nostro ordinamento vige «un principio
ispiratore di fondo che è quello della indisponibilità del bene della
vita», tutelato dall’art. 2 della Costituzione, secondo quanto già
apprezzato, in fattispecie che la Camera reputa analoga, dal Tribunale
di Roma, sezione I civile, con sentenza del 15 dicembre 2006;
che, per contro, gli elementi normativi
richiamati dall’Autorità giudiziaria a sostegno delle pronunce appaiono
alla ricorrente «palesemente inidonei»: infatti, sia il decreto
legislativo 24 giugno 2003, n. 211 (Attuazione della direttiva
2001/20/CE relativa all’applicazione della buona pratica clinica
nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso
clinico), sia l’art. 13 della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la
tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della
gravidanza), sia il codice deontologico dei medici, sia l’art. 2 della
CEDU, sia infine la Convenzione di Oviedo sancirebbero l’opposto
principio di tutela del diritto alla vita e alla salute del paziente;
che, infine, neppure gli artt. 13 e 32
della Costituzione varrebbero, secondo la Camera dei deputati, a
sorreggere le conclusioni cui è giunta l’Autorità giudiziaria, posto che
«anche a considerare l’ipotesi che i principi costituzionali siano
suscettibili di applicazione diretta in sede giudiziaria, detta
eventualità non può che risultare circoscritta al caso in cui il loro
contenuto precettivo sia univoco ed auto sufficiente, come tale in grado
di assolvere ex se
alla funzione di criterio esauriente di qualificazione della
fattispecie»;
che, invece, le precitate disposizioni
costituzionali non varrebbero, di per sé, a somministrare al giudice la
regola del giudizio, anche in ragione delle «differenti letture di cui
appare suscettibile l’art. 32 della Costituzione»;
che l’Autorità giudiziaria, per
conseguire il risultato cui è giunta, avrebbe dovuto, secondo la Camera,
prospettare piuttosto una questione di legittimità costituzionale
dell’art. 357 cod. civ.: omettendo tale condotta, essa avrebbe invece
proceduto alla «disapplicazione delle norme di legge che avrebbero
precluso la soluzione adottata», sostituendole con «una disciplina
elaborata ex novo»;
che per tali ragioni, la Camera dei
deputati chiede alla Corte, previa declaratoria di ammissibilità del
conflitto, di dichiarare che non spettava all’Autorità giudiziaria
adottare gli atti impugnati, con conseguente annullamento degli stessi;
che con ricorso depositato il 17
settembre 2008 (reg. confl. poteri amm. n. 17 del 2008) il Senato della
Repubblica ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della
Corte di Cassazione e della Corte di appello di Milano, avente ad
oggetto i medesimi atti impugnati dalla Camera dei deputati, chiedendo a
questa Corte di dichiarare che «non spettava al Potere giudiziario, e in
particolare alla Suprema Corte di Cassazione: a) stabilire il diritto
del malato in stato vegetativo permanente di conseguire l’interruzione
di trattamenti sanitari invasivi che si risolvono in un inutile
accanimento terapeutico cui consegua con certezza il suo decesso; b)
disporre la esercitabilità di tale diritto personalissimo da parte del
tutore alla stregua e nel presupposto di presunte opinioni espresse in
precedenza dall’infermo», con conseguente annullamento della sentenza n.
21748 del 2007 della Corte di cassazione e del decreto del 25 giugno del
2008 della Corte di appello di Milano;
che i presupposti in fatto del ricorso
sono i medesimi già enunciati dalla Camera dei deputati: i provvedimenti
dell’Autorità giudiziaria avrebbero determinato una «interferenza
nell’area della attribuzione della funzione legislativa», fondata su una
«cosciente intenzione supplettiva diretta ad ovviare ad una supposta
situazione di vuoto normativo»; anzi, le proposte di legge vertenti in
argomento attribuirebbero a tale interferenza i caratteri di un
intervento indebito «in un puntuale procedimento di legislazione che il
Parlamento ha in corso»;
che, in punto di ammissibilità, il Senato
osserva che «il proposito del ricorso è unicamente quello di dimostrare
che la sentenza ha fissato un principio di diritto debordando verso le
attribuzioni del Legislativo e superando, quindi, i limiti che
l’ordinamento pone al Potere Giudiziario, e non quello di un invito al
riesame del processo logico seguito dalla Cassazione per giungere alla
sua pronuncia»: non si tratterebbe perciò di rilevare un
error in iudicando, ma
l’esorbitanza dai «confini stessi della giurisdizione»; in tale ottica,
la censura rivolta agli «errori interpretativi dell’organo giudiziario»
costituirebbe «passaggio essenziale al fine di mettere in evidenza il
momento e il modo in cui il giudice» avrebbe ecceduto dalla funzione sua
propria;
che, nel
merito, il Senato ritiene che la Corte di cassazione abbia adottato «un
atto sostanzialmente legislativo», con cui «si
introduce nell’ordinamento italiano l’autorizzazione alla cessazione
della vita del paziente in stato vegetativo permanente», omettendo di
conseguire tale effetto tramite la sola via aperta al giudice in tal
caso, ovvero sollevando questione di costituzionalità sugli artt. 357 e
424 cod. civ., nella parte in cui essi precluderebbero la piena tutela
del diritto alla salute; la Cassazione, in altri termini, avrebbe
«inteso trovare, nelle pieghe dell’ordinamento, un appiglio normativo
che consentisse di formulare il principio di diritto che abilitasse a
determinare la cessazione della vita del paziente»; per far ciò,
prosegue il Senato, «ha dovuto far ricorso a sporadiche sentenze di
giudici appartenenti ad ordinamenti diversi da quello italiano e alla
Convenzione di Oviedo (…) ignorando che in diritto positivo italiano
esistono già norme utilizzabili nel caso di specie e, in particolare,
quelle del codice penale (artt. 579 e 580 cod. pen.)»;
che, per tale via, la Cassazione avrebbe
esorbitato dalla propria funzione nomofilattica, ledendo le attribuzioni
assegnate dall’art. 70 della Costituzione al Parlamento: la fattispecie
avrebbe dovuto essere decisa non già tramite un
non liquet, ma riconoscendo
l’infondatezza della pretesa alla luce del diritto vigente; infatti,
spetterebbe al Parlamento «adottare una soddisfacente disciplina diretta
a regolare le scelte di fine vita»: sostiene il ricorrente che «la
riconduzione della tematica in parola all’interno del circuito della
rappresentanza politica parlamentare consente di assicurare la
partecipazione delle più svariate componenti della società civile, ivi
comprese quelle espressione del mondo scientifico, culturale, religioso.
Secondo una impostazione che appare difficilmente contestabile il
ricorso alla legge permette di rispettare il principio dell’art. 67
della Costituzione nella adozione di scelte di sicuro interesse
dell’intera comunità nazionale», in particolar modo in presenza di una
disciplina dei diritti fondamentali «riservata alla legge»;
che il Senato pone poi in rilievo che
l’Autorità giudiziaria avrebbe articolato i propri provvedimenti su due
punti, entrambi contestabili, ovvero «il diritto del malato di
conseguire l’interruzione di trattamenti sanitari» e «la esercitabilità
di tale diritto da parte del tutore»;
che, quanto al primo punto, il ricorrente
osserva che l’alimentazione e l’idratazione assistita sono solo da
alcuni ritenute trattamento terapeutico, mentre altri li considerano
«cure essenziali doverosamente impartite dal sanitario», che avrebbe,
anche sulla base del documento redatto dal Comitato nazionale di
bioetica del 18 dicembre 2003, il «dovere di procedere»; ad ogni modo,
in difetto di «una normativa intesa a determinare la interruzione di
trattamenti del malato terminale», la stessa Corte di Cassazione in
precedente pronuncia (ordinanza n. 8291 del 2005) ed il Tribunale di
Roma (con sentenza del 15 dicembre 2006) avevano escluso che il giudice
potesse in tale materia espletare «attività sostanzialmente
paranormativa»;
che, piuttosto, sia l’art. 2 della CEDU
(come interpretato dalla Corte EDU con la sentenza Pretty v. Gran
Bretagna del 29 aprile 2002), sia l’art. 3 della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo sottolineano, a parere del ricorrente,
la «essenzialità del principio di tutela della vita», così saldandosi
all’art. 27 della Costituzione e agli artt. 579 e 580 cod. pen., in tema
di omicidio del consenziente e di aiuto al suicidio: «esistono, quindi,
due modi contrapposti di considerare la persona e i suoi diritti
inviolabili che conducono a leggere la decisione sulla interruzione
della alimentazione o come causa del decesso o come manifestazione della
libera determinazione della cessazione di un trattamento terapeutico
inaccettabile in quanto sproporzionato e inutile»;
che per risolvere tale alternativa, il
Senato stima necessario l’intervento del legislatore, al quale soltanto
spetterebbe sciogliere il nodo, stabilendo, tra l’altro, condizioni e
natura dello stato vegetativo permanente, «ancora oggetto di incertezze
e divergenze di opinioni in quanto non coincidente con la morte
cerebrale»: parimenti, è stata la legge 29 dicembre 1993, n. 578 (Norme
per l’accertamento e la certificazione di morte) a stabilire
espressamente che la morte si identifica con la cessazione irreversibile
di tutte le funzioni dell’encefalo;
che la necessità di legiferare troverebbe
conferma in «strumenti internazionali», quali l’art. 5, paragrafo 3,
della Convenzione di Oviedo (la cui attuazione avrebbe richiesto il
decreto legislativo previsto dall’art. 3 della legge 28 marzo 2001, n.
145 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per
la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano
riguardo all’applicazione della biologia e della medicina: Convenzione
sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile
1997, nonché del Protocollo addizionale del 12 gennaio 1998, n. 168, sul
divieto di clonazione di esseri umani) e l’art. 3, comma 2, della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea;
che, quanto ai poteri del tutore, il
Senato afferma «la non esistenza nel nostro ordinamento del puntuale
potere del tutore di intervenire in tema di diritto indisponibile alla
interruzione della vita e il regime costituzionale dei diritti definiti
personalissimi», in assenza di una disciplina di diritto positivo
concernente il cd. testamento biologico;
che, in particolare, sarebbe erroneo il
convincimento espresso dall’Autorità giudiziaria circa l’estensione dei
poteri tutori al di fuori della sfera degli interessi patrimoniali, in
assenza di una specifica norma attributiva di tali poteri: la stessa
Cassazione, in altra pronuncia (ordinanza n. 8291 del 2005) avrebbe
escluso il «generale potere di rappresentanza con riferimento ai
cosiddetti atti personalissimi»;
che, innanzi a tale principio, le ipotesi
contrarie segnalate dagli atti oggetto del conflitto, (art. 4 del d.lgs.
211 del 2003 in tema di sperimentazioni cliniche; art. 13 della legge n.
194 del 1978 in tema di interruzione volontaria della gravidanza; art. 6
della Convenzione di Oviedo) apparirebbero eccezionali ed insuscettibili
di applicazione analogica: l’esercizio del diritto di «disporre del
proprio corpo» e di «decidere sulle proprie cure» non potrebbe perciò
essere affidato al tutore.
Considerato che la Camera dei deputati ed il
Senato della Repubblica con due distinti ricorsi hanno sollevato
conflitto di attribuzione nei confronti dell’Autorità giudiziaria,
deducendo che la sentenza n. 21748 del 2007 della Corte di cassazione ed
il decreto 25 giugno 2008 della Corte di appello di Milano avrebbero
usurpato, e comunque menomato, le attribuzioni legislative del
Parlamento;
che, in particolare, tali provvedimenti,
venendo a stabilire termini e condizioni affinché possa cessare il
trattamento di alimentazione ed idratazione artificiale cui è sottoposto
un paziente in stato vegetativo permanente, avrebbero utilizzato la
funzione giurisdizionale per modificare in realtà il sistema legislativo
vigente, così invadendo l’area riservata al legislatore;
che i ricorsi meritano di essere riuniti,
riferendosi alla medesima vicenda;
che in questa fase del giudizio, a norma
dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87,
questa Corte è chiamata a delibare, senza contraddittorio tra le parti,
esclusivamente se il ricorso sia ammissibile, valutando se sussistano i
requisiti soggettivo ed oggettivo di un conflitto di attribuzione tra
poteri dello Stato;
che non è dubbia la legittimazione attiva
di ciascun ramo del Parlamento a difendere le attribuzioni
costituzionali che gli spettino, quand’anche esercitate congiuntamente;
che spetta parimenti alla Corte di
cassazione ed alla Corte di appello di Milano la legittimazione passiva
al conflitto, in quanto organi competenti a dichiarare in via
definitiva, in relazione al procedimento di cui sono investiti, la
volontà del potere cui appartengono (ex
plurimis, ordinanza n. 44 del 2005);
che la Corte di cassazione, con la
sentenza oggetto dei conflitti, ha enunciato, nel corso di un
procedimento di volontaria giurisdizione, il principio di diritto cui
deve attenersi il giudice di rinvio nella fattispecie sottoposta al suo
giudizio e che la Corte di appello di Milano ha applicato questo
principio al caso concreto, avendo previamente ritenuto manifestamente
infondati gli ipotetici dubbi di legittimità costituzionale;
che, per costante giurisprudenza di
questa Corte, l’ammissibilità di un conflitto avente ad oggetto atti
giurisdizionali sussiste «solo quando sia contestata la riconducibilità
della decisione o di statuizioni in essa contenute alla funzione
giurisdizionale, o si lamenti il superamento dei limiti, diversi dal
generale vincolo del giudice alla legge, anche costituzionale, che essa
incontra nell’ordinamento a garanzia di altre attribuzioni
costituzionali» (ordinanza n. 359 del 1999; nello stesso senso, tra le
più recenti, sentenze n. 290, n. 222, n. 150, n. 2 del 2007);
che la medesima giurisprudenza afferma
che un conflitto di attribuzione nei confronti di un atto
giurisdizionale non può ridursi alla prospettazione di un percorso
logico-giuridico alternativo rispetto a quello censurato, giacché il
conflitto di attribuzione «non può essere trasformato in un atipico
mezzo di gravame avverso le pronunce dei giudici» (ordinanza n. 359 del
1999; si veda altresì la sentenza n. 290 del 2007);
che, peraltro,
questa Corte non rileva la sussistenza nella specie di indici atti a
dimostrare che i giudici abbiano utilizzato i provvedimenti censurati -
aventi tutte le caratteristiche di atti giurisdizionali loro proprie e,
pertanto, spieganti efficacia solo per il caso di specie - come meri
schermi formali per esercitare, invece, funzioni di produzione normativa
o per menomare l’esercizio del potere legislativo da parte del
Parlamento, che ne è sempre e comunque il titolare;
che entrambe le parti ricorrenti, pur
escludendo di voler sindacare
errores in iudicando, in realtà avanzano molteplici
critiche al modo in cui la Cassazione ha selezionato ed utilizzato il
materiale normativo rilevante per la decisione o a come lo ha
interpretato;
che la vicenda processuale che ha
originato il presente giudizio non appare ancora esaurita, e che,
d’altra parte, il Parlamento può in qualsiasi momento adottare una
specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di
equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti;
che, pertanto, non sussiste il requisito
oggettivo per l’instaurazione dei conflitti sollevati.
PER
QUESTI MOTIVI
LA
CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i ricorsi,
dichiara inammissibili, ai sensi dei commi terzo
e quarto dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, i ricorsi per
conflitto di attribuzione sollevati dalla Camera dei deputati e dal
Senato della Repubblica nei confronti della Corte di cassazione e della
Corte di appello di Milano, di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il l’8 ottobre 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l’8 ottobre
2008.
http://www.comunicati.net/comunicati/societa_civile/associazioni/varie/64302.html
http://publishing.yudu.com/Library/Asgtf/Francione/resources/index.htm?referrerUrl=http%3A%2F%2Fwww.google.it%2Fsearch%3Fq%3DLA%2BCORTE%2BCOSTITUZIONALE%2BAVALLA%2BLA%2BFORZA%2BDEL%26ie%3Dutf-8%26oe%3Dutf-8%26aq%3Dt%26rls%3Dorg.mozilla%3Ait%3Aofficial%26client%3Dfirefox-a