di Marco Caponera
(No Copyright per usi non commerciali, deve essere riconosciuta la
paternità dell’opera.)
Copyright e No Copyright
Questo scritto intende inserirsi nell’attuale dibattito su copyright,
copyleft e no copyright, animato da numerosi interventi di esperti di
informatica e recentemente anche da autori di letteratura e saggistica.
Per questo motivo mi limiterò a presentare le ragioni del no al copyright
argomentandone le fondamenta, in dialettica con le altre forme di rifiuto
totale o parziale della protezione del diritto d’autore.
Iniziamo da alcuni chiarimenti sintetici per passare successivamente al
vaglio critico di ciascuna affermazione.
- L’assenza di diritto d’autore in materia di editoria cartacea e
telematica non è: dannosa per l’autore stesso, poiché il copyright non
esiste per tutelare l’autore ma altri soggetti.
- Non è: copyleft, o almeno non necessariamente, perché non è
necessario dotare il proprio lavoro di una speciale licenza per permettere
gli usi non commerciali, basta semplicemente non chiedere il rispetto del
copyright, per uno o più aspetti dello stesso.
- Non è: opera collettiva, o non soltanto. Conta poco ai fini del
copyright il fatto che siano uno o più autori a voler abolire detta norma
per i propri testi, la scelta del no copyright non è scelta collettiva,
ma personale.
- Non è open source: perché i meccanismi che sono alla base della
cooperazione informatica per la realizzazione di software sono differenti
da quelli che portano alla realizzazione, anche collettiva, di un libro o
di una produzione artistica.
Molti, alcuni in buona fede, credono che si debbano imporre dei paletti
alla libera circolazione delle scritture e delle idee. Ciò a mio avviso
è errato e per una lunga teoria di motivi tutti facilmente argomentabili,
vediamone alcuni:
1) Chiunque pensi qualcosa lo fa all’interno di una cultura e a
partire dal proprio bagaglio di conoscenze. Cultura e conoscenza derivano
dalle idee e dalle azioni di altri, a prescindere dal diritto d’autore
sulle stesse. Ciascuno deriva da altri il proprio pensiero, anche se
indirettamente. Direttamente derivato, invece, è il bagaglio di strumenti
letterari che l’autore usa nei suoi testi: lo stile, i riferimenti, le
citazioni, le suggestioni che utilizza fanno sempre parte di una
tradizione dello scrivere e del pensare, anche quando l’intenzione è l’abbattimento
di questa tradizione, il riferimento è comunque presente come avversario
cui ci si confronta.
La citazione in particolare è un vero e proprio “furto”
autorizzato. Non ci dovrebbe poter essere copyright di sorta per
interviste, antologie, letture critiche perché il debito nei confronti
degli autori coinvolti è troppo grande per essere eventualmente risolto
attraverso il pagamento di pochi centesimi di royalties. Interpretare le
idee di qualcuno è già “rubarle”. Non che io abbia qualcosa contro
questi “furti” s’intende, purché si abbia l’onestà intellettuale
di riconoscerlo.
2) L’autore sa, quando scrive, che le proprie idee saranno lette. La
preoccupazione di qualunque autore onesto non è quella di vendere
migliaia di copie, ma avere dei lettori, meglio se migliaia. A questo
scopo l’assenza di un copyright non è l’assenza di qualcosa, perché
l’autore non è affatto tutelato dal copyright. Il no copyright è una
scelta che libera dall’impostura della “proprietà” intellettuale.
Un “diritto” che può decadere non è tale. È soltanto uno strumento
di protezione economica, non intellettuale. Questo testo, ad esempio, è
privo di copyright per usi non commerciali, ma chiunque, dopo questa
pubblicazione, vorrà confrontarsi su questo tema dovrà, se è onesto,
prendere atto delle posizioni espresse in queste pagine, se non lo fa l’eventuale
copyright, che io avessi voluto applicare, non avrebbe aiutato di una
virgola. E tanto meno mi avrebbe consentito di controllare l’uso di
questo scritto da parte dell’editore. Ora è vero che chiunque può
utilizzare questo testo nei modi che riterrà opportuni, ma non potrà
prescindere dal riconoscere al sottoscritto la paternità dei contenuti,
poiché Marco Caponera, quando leggerete questo testo, lo starà facendo
circolare quanto più gli è possibile per far conoscere le proprie idee
mettendole in connessione con quelle di altri.
Il copyright, proseguendo, non protegge l’autore, poiché non riesce
a proteggerlo nemmeno dal proprio editore, primo interlocutore di chiunque
scriva qualcosa che intenda pubblicare. Quando scrissi “Transgenico NO”
per la Malatempora Editrice di Roma, proposi di inserire la dicitura “No
Copyright”, non “copyleft” una definizione post moderna che non amo.
Il no copyright mi da l’impressione di un opposizione a un modello di
pensiero dominante e calcolante, il copyleft mi sembra la concessione di
una “grazia” di cui invito i lettori a fare a meno.
L’editore nel colophon del libro spiegò l’assenza di copyright con
la motivazione che i testi erano frutto di lavoro collettivo. Un po’ per
mettersi la coscienza a posto nei confronti dei testi di altri che aveva
utilizzato in alcuni box d’approfondimento, un po’ per frainteso
significato della scelta ideologica che stavamo facendo. Scrivo questo per
dovere nei confronti di chi lesse quel libro e lo ritenne privo di
copyright per i motivi suddetti, anziché per il fatto che l’autore del
90% del testo non volesse il copyright. Ricordo però a lato di questo
discorso che mi fece un piacere enorme vedere, in occasione di una
presentazione nella città di Firenze, che gli squattrinati studenti di
Filosofia dell’Università erano tutti presenti, chi con il libro sotto
braccio, chi con le fotocopie dello stesso. Se un autore è onesto ha
piacere che le proprie idee circolino, se non lo è si prepari perché
soffrirà le pene dell’inferno, poiché il copyright non lo tutela in
nessun modo.
3) Ma perché non lo tutela? Presto detto: perché la definizione “diritto
d’autore” è demagogica, la definizione corretta sarebbe “diritto d’editore”.
La definizione che emerge, ad esempio, analizzando l’ultima riforma
legislativa italiana in questo settore evidenzia chiaramente come
beneficiario, e fine, della riforma l’editore (o la casa discografica, o
l’azienda di software) e soltanto questo.
Come ogni autore sa bene è difficilissimo sapere dall’editore quante
copie sono state vendute del proprio amato libro. Questo perché, il più
delle volte, il compenso a lui spettante è stabilito in percentuale
rispetto al venduto. Fingere che non si sia venduto è il modo migliore, e
più facile, per frodare l’autore. Ma, qualcuno dirà: l’autore ha un
arma infallibile per verificare i dati di vendita, la SIAE. Certo, la SIAE
vende dei contrassegni agli editori (si usano sempre meno perché troppo
cari) da apporre su ciascuna copia, al fine di verificare ogni passaggio
fatto dal libro, dall’editore al compratore finale. Spesso però accade
che nemmeno la SIAE sia aggiornata sui dati, e quando li ha funge soltanto
da base statistica, non operativa. Sarà l’autore che con i dati SIAE in
mano dovrà andare a rivalersi dall’editore. Il più delle volte,
insomma, se non si vuole interrompere precocemente la carriera di
scrittore, si deve fare buon viso a cattivo gioco, ingoiando il boccone
amaro. Il tutto sotto l’austera e imparziale egida del diritto d’editore!
4) La presente legge punisce chi copia alla stregua di chi trae un
utile nel farlo. Ciò è ridicolo, preferisco essere “derubato” che
essere responsabile di aver mandato in tribunale uno studente perché non
aveva i soldi per comprare un mio libro.
Certo non si può regalare un libro a chiunque ne abbia bisogno, ma
sicuramente si può auspicare fortemente che ciascuno lo fotocopi per sé
e per coloro che possono essere interessati. Questo meccanismo non
manderà mai in crisi il sistema editoriale, non quello basato sulla
cooperazione, sulla calmierazione dei prezzi e sull’antagonismo nei
confronti di un modello politico-economico-culturale, che non appartiene
alla maggioranza della popolazione. Poiché coloro che acquistano un libro
di questo tipo sanno che i propri soldi stanno andando in una direzione
“sana”. Purtroppo non danneggia nemmeno l’editoria di costo elevato
(e scarso livello culturale), perché avere le fotocopie del pregiatissimo
cartonato dell’ultimo libro di Bruno Vespa è poca cosa, e sicuramente
il gentile signore che intenderà acquistarlo per farne omaggio - mai per
leggerlo - non troverebbe vantaggioso per la sua immagine il far dono di
un mazzetto di fotocopie.
Copyleft
Tra i fautori del copyleft ci sono alcuni critici nei confronti del no
copyright. A mio avviso c’è molta confusione su questi temi e la
confusione è dovuta soprattutto ad un atteggiamento intellettuale. Molti
pensano che anziché puntare il dito si debba “lottare dall’interno”,
ma così facendo non riescono a rendersi conto che hanno iniziato a
lottare con le stesse armi e con le stesse strutture concettuali del
potere cui intendevano precedentemente opporsi o contestare. La struttura
delle licenze, propria del copyleft, ad esempio, rappresenta un’istituzione
che intende sostituirne un’altra, ma la storia ci ha insegnato puttosto
bene cosa accade quando a un potere se ne è voluto sostituire un altro.
Gli errori che tale impostazione corrotta porta con sé sono almeno di due
tipi:
- Il primo è la confusione del concetto di “proprietà”
intellettuale con quello ben differente di “paternità” (o “maternità”,
fa lo stesso) intellettuale. Questa distinzione mostra come siano
differenti i retroterra ideologici delle due definizioni: la prima mostra
apertamente i suoi legami con mentalità economicistiche e calcolanti, il
secondo invece coglie il dato di fatto sulla paternità (o maternità) di
un opera. Faccio un esempio: se io oggi volessi inserire in un mio testo,
appropriandomene, il concetto di oltreuomo (meglio noto forse come
superuomo) di F. Nietzsche, a rigor di normativa internazionale in materia
di diritto d’autore potrei farlo, poiché sono trascorsi più di 70 anni
dalla morte dell’autore. Ma questo non mi metterebbe comunque al riparo
dall’essere messo in ridicolo da tutta la vasta comunità dei
conoscitori del pensiero di Nietzsche. E dire che io potrei ritradurre,
ristampare, estrapolare dei passi senza che nessuno mi possa imputare
alcunché. Ancora tutto ciò non mi eviterebbe il pubblico scherno, se non
facessi un lavoro all’altezza dell’autore e intellettualmente onesto.
Questo esempio mi pare che illustri meglio di mille dotte metafore ciò
che intendo per paternità e proprietà delle idee. Se un diritto può
decadere allora è evidente che l’intento non è quello di sancire
definitivamente delle protezioni intorno alle opere, ma semplicemente di
garantirne lo sfruttamento economico da parte di chi detenga il copyright
sulle stesse… e più spesso di quanto s’immagini non è l’autore. La
paternità invece ci sarà sempre e sarà sempre dell’autore a
prescindere dalla forma con cui la si vuol tutelare, copyright, copyleft o
no copyright. Il problema della proprietà dell’opera si può risolvere,
a mio modo di vedere, con una semplice formula da anteporre al testo,
magari nello spazio del colophon ed è: no copyright ad esclusione degli
utilizzi per fini di lucro (o commerciali che dir si voglia). Se è chiara
la distinzione di cui sopra allora si potrà capire perché sono inutili
lunghe e argomentate licenze che si pongono l’arduo compito di tutelare
qualcosa che non può essere tutelato, lasciando scoperto qualcosa che
può essere invece tenuto in considerazione.
- Il secondo tipo è la presunzione di aver inventato qualcosa di
nuovo.
Mi spiego meglio. Questa epoca - ma forse tutte - è piena di soggetti
che pensano di aver inventato qualcosa, semplicemente perché non
informati che quel qualcosa esisteva già, magari in forme leggermente
differenti, a loro insaputa. Ebbene, i fautori del copyleft sarebbero gli
inventori della condivisione dei saperi, che appunto il copyleft avrebbe
liberato dalle strette maglie del diritto d’autore. La presunta
innovazione del copyleft starebbe nella possibilità di far circolare le
idee e di perfezionarle collettivamente grazie alla possibilità data all’autore
di inserire, al posto del solito copyright, una licenza disegnata ad hoc
per consentire questi usi, generalmente escludendo i fini commerciali.
Credo fortemente che ci troviamo di fronte a soggetti che hanno un
retroterra culturalr meramente informatico, altrimenti non avrei scuse,
poiché chiunque sa che ad aver inventato la libera circolazione delle
idee e il reciproco intervento per migliorarle sono le “culture orali”.
Altro che Internet, software e file sharing, la libera circolazione delle
idee esiste da quando l’uomo, e la donna, hanno iniziato a raccontarsi
delle storie vere o di fantasia, poco conta. Chiunque conosca un Mito o
abbia ascoltato il proprio nonno raccontare storie intorno a un fuoco sa
che in ciascun racconto c’è una parte fedelmente riportata e un’altra
fatta propria e rielaborata da chi racconta, ciò è assolutamente
naturale. In tutti i Miti ci sono letture e interpretazioni che
differiscono anche di molto, tanto che ancora oggi si studiano
approfonditamente per svelarne gli intimi segreti. Tutto quello che oggi
contraddistingue la cooperazione informatica o letteraria (questa in
misura certamente minore) è pratica millenaria.
Se si dice che l’open source e il copyleft aiutino a combattere il
monopolio informatico di Bill Gates sono d’accordo, se mi si vuole
convincere del fatto queste forme siano indispensabili per la libera
circolazione delle idee trovo che si stia facendo della demagogia.
Insieme questi due tipi di errore forniscono un’idea distorta e
controproducente dell’idea di protezione, creazione, condivisione e
collaborazione intellettuale. Non vorrei esser apparso pedante nel
riportare alla mente addirittura il Mito e la cultura orale, ma sarebbe
ora che non si smettesse di usare le stesse armi del nemico che si
combatte per affermare delle verità che vere non sono.
Open Source e No copyright
Concludo questo flusso di idee sul tema marcando una distinzione che
non vuol essere una presa di distanza, ma sicuramente vorrebbe essere una
precisazione di merito su cosa è l’informatica e cosa è la letteratura
e la parola scritta. La carta stampata in generale non può, a mio avviso,
acquisire tout court le argomentazioni e gli strumenti che gli avversari
del copyright si sono dati in ambito informatico. Poiché sono due cose
completamente differenti. I programmatori cooperano per realizzare un
software che se realizzato da uno soltanto porterebbe con sé mille
difetti e scarsa utilità. Quindi la collaborazione incentivata e
auspicata dall’open source funziona a meraviglia, molto semplicemente
però non è applicabile a tutti i processi di pensiero e alle forme d’arte.
Il “fine” software è differente dal “fine” saggio, poesia,
racconto, novella, ecc. Non è sufficiente far leggere ad un altro le
proprie idee perché questi le “migliori”, le potrà certamente
modificare, ma difficilmente potrà eliminare dei bug, ammesso che ve ne
siano. Diversamente la logica di molti software definiti “freeware” si
avvicina moltissimo alla logica del no copyright poiché stabilisce
chiaramente che l’utilizzo potrà essere gratuito e libero a patto che
il determinato software non venga utilizzato per fini commerciali, in quel
caso spesso è previsto un pagamento, che se non effettuato genererà una
violazione delle clausole per l’uso. Ma anche qui sono possibili
confusioni e vie di fuga.
Fintanto che i software freeware e open source toglieranno mercato alle
multinazionali dell’informatica non potremo che caldeggiare ogni nuova
iniziativa. Se invece si vuole dare una scossa generale a tutto il mondo
del copyright ci si dovrà sedere attorno a un tavolo, anche virtuale, per
discutere di analogie ma soprattutto di differenze, riconoscendo a tutte
le parti in causa autonomia di giudizio e di movimento. Con i “minestroni”
non si affrontano i problemi, al più ci si mette la coscienza a posto.
Infine, e non vuole essere né la sintesi né la morale di questo scritto,
auspico che nel futuro siano sempre più gli autori che decideranno di
avere a cuore le proprie idee e i propri lettori-interlocutori e non
soltanto il proprio portafogli, dicendo NO AL COPYRIGHT.