Roberta Ronconi
A volte la storia degli uomini, delle donne e delle loro vicende
prende strane pieghe. E tra queste restano incastrati eventi che
poi nessuno trova più per decenni, a volte per secoli. E' il caso
della strage di Balvano, forse il più grande disastro ferroviario
del mondo. Avvenne in Italia, 61 anni fa.
In moltissimi non ne avevamo mai sentito parlare sino
all'uscita, qualche settimana fa, del libro "Balvano
1944" (Mursia, pp. 292, euro 20.00), ricostruzione minuziosa
degli eventi a firma di Gianluca Barneschi, di mestiere avvocato e
per passione storico.
I motivi di tanto silenzio sono diversi. Intricati, confusi, in
parte dovuti a precise volontà politiche in parte al caso e alla
noncuranza, in parte alla voglia di seppellire velocemente quei
morti e dimenticarli. Sono tante le imprecisioni attorno a questa
vicenda. Con il passare dei giorni e poi degli anni di certo è
rimasto pochissimo. Tra questo pochissimo, il numero del treno, il
merci 8017 e il totale dei morti: seicento.
Due sole certezze, che combinate tra loro ci offrono già uno
spunto di cronaca importante: quelli erano anni in cui anche i
merci servivano per il trasporto delle persone che avevano pochi
altri mezzi per spostarsi da un punto all'altro dell'Italia. Anche
quel giorno del marzo '44 in tanti erano saliti al volo su quel
treno che da Napoli avrebbe dovuto raggiungere Potenza e poi
Catanzaro dove avrebbe dovuto fare carico di legname. La linea
era, dalla fine del '43, in mano alle Forze alleate che l'avevano
sequestrata per fini militari tutta la settimana, tranne il
mercoledì. Chi perdeva il "giorno passeggeri" era
costretto o ad incamminarsi o ad attendere sette giorni. Per
molti, un'attesa impossibile. Anche perché quella linea serviva a
molti scopi, primo fra tutti quello di fornire scorte di cibo a
una Napoli distrutta e affamata. A cercarlo, il cibo, si andava a
Potenza dove l'agricoltura era rimasta salva e si poteva
acquistare dai contadini ancora una buona varietà di generi
alimentari. Si prendevano, si pagavano alla bell'e meglio e poi si
portavano a Napoli, dove servivano ad incrementare il giro di
borsa nera alimentare, che di fatto sfamava l'intera città.
Le cronache (del resto, scarsissime), anche quelle ufficiali,
bollarono l'intera presenza umana sull'8017 come gruppo di «contrabbandieri
e viaggiatori di frodo» (queste le parole usate anche dalla
relazione sul disastro del governo Badoglio), contribuendo così
ad abbassare l'impatto emotivo sulla tragedia. In realtà su quel
treno molti viaggiavano con tanto di biglietto (si comprava per la
tratta e poi si saliva sul primo treno che l'avrebbe percorsa. Era
normale in tempi in cui le ferrovie non garantivano nulla) e molti
non avevano niente a che fare con la borsa nera, ma viaggiavano
per raggiungere parenti o famigliari, o anche per motivi di
lavoro. Come il professor Vincenzo Jura, chirurgo e professore
universitario che prese quel treno nel tentativo di raggiungere in
un qualche modo Bari dove avrebbe dovuto tenere delle lezioni. Con
lui forse viaggiavano alcuni suoi studenti. C'erano anche diversi
militari allo sbando e un gruppo di sette soldati italiani con il
loro uffciale, gli unici ad aver avuto regolare permesso dagli
alleati per viaggiare su quel treno. Poi le donne, tante, oltre un
centinaio con i loro bambini, famiglie intere, studenti,
lavoratori e avventurieri. C'era insomma tutto quel genere umano
sbandato e provato dalla guerra che abitava il nostro paese in
quegli anni.
Da Napoli erano partiti nel tardo pomeriggio. A Balvano
arrivarono a sera inoltrata, dopo aver attraversato montagne,
gallerie, stazioni (ad ognuna, qualcuno riusciva ad aggiungersi al
carico umano del treno) in un percorso ferroviario tra i più
belli ma anche tra i più aspri delle ferrovie italiane. A
quell'epoca i treni viaggiavano a vapore e le locomotive venivano
alimentate con palate di carbone. Il carbone degli Alleati sembra
fosse di qualità peggiore di quello dei tedeschi, pieno di zolfo
e residui tossici. Il percorso dell'8017 da Napoli a Potenza era
accidentato e affollato di gallerie. Il treno era un merci, ovvero
molti dei 47 vagoni che lo componevano erano scoperti. E questi
sono gli elementi principali della tragedia.
A Balvano, stazioncina di montagna in provincia di Potenza, la
sera del 2 marzo il treno si era fermato per più di mezz'ora, poi
verso le 23.40 era ripartito verso la prossima stazione di
Bella-Muro, a 8 chilometri di distanza. Tra le due stazioni, la
galleria delle Armi, lunga meno di due chilometri. Il treno vi
entrò, ne percorse nemmeno la metà, poi si fermò.
Da qui in poi le ricostruzioni sono tutte contrastanti e
caotiche, anche se Gianluca Barneschi ha potuto, per primo,
mettere le mani su materiale desecretato dell'esercito americano.
In testa al treno c'erano le due locomotive, a carbone. La
galleria aveva una leggera inclinazione in salita che i ferrovieri
spesso affrontavano irrobustendo un po' le caldaie con qualche
palata aggiunta prima di entrare. I pochissimi che poterono
raccontare cosa successe quella notte, dissero di aver sentito il
treno frenare, poi tornare indietro, poi di nuovo avanti, quindi
fermarsi definitivamente. Il capotreno, forse nel tentativo di
dare un'accelerata o comunque di sbloccare la situazione, aprì la
leva del vapore al massimo. Il monossido di carbonio lo uccise
prima di poter completare la manovra. Il gas venefico non deve
aver impiegato molto a saturare l'intera galleria, bassa e priva
di sfiatatoi. Il fumo usciva dalle caldaie e rientrava nelle
carrozze, compresa quella della locomotiva, compiendo un
brevissimo giro. I macchinisti furono probabilmente tra i primi a
morire. Gli altri impiegarono solo qualche minuto in più.
Morirono tutti nel più assoluto silenzio, molti nel sonno, alcuni
presi dalla morte tanto di sorpresa da essere rimasti lì -
raccontarono poi i soccorritori - chi con la sigaretta in bocca,
chi con il gomito poggiato su un asse di legno, un uomo
addirittura ancora nell'atto di bere un uovo, una donna nel sonno
abbracciata al figlio. Probabilmente, molti di loro si erano già
intossicati nelle gallerie precedenti, dove comunque il monossido
ristagnava a lungo dopo il passaggio dei treni.
Della tragedia nessuno si accorse per molte ore. Del resto, non
c'era nulla da stupirsi in quei tempi se un treno impiegava anche
diverse ore per coprire pochi chilometri. Solo nella prima
mattinata un frenatore accompagnato da un militare riuscì a
raggiungere la stazione di Balvano e a gridare disperato che «lì
sono tutti morti».
La tragedia continuerà ancora, e per diversi giorni. Riportare
il treno in stazione, accatastare quelle centinaia di corpi lungo
le banchine, aspettare i parenti per i riconoscimenti, cercare un
luogo dove seppellirli per tempo, riportarli dove possibile nei
cimiteri dei propri paesi... Fu un vero disastro, un lutto
profondo per migliaia di persone ma di cui nessuno per molto tempo
si prese carico. Anzi, sia gli alleati che il governo Badoglio a
lungo tentarono di tenere le cose sotto silenzio. I primi per non
«deprimere ulteriormente il morale degli italiani» ("The
Times", articolo del 1951), i secondi per vago disprezzo nei
confronti di questo popolo di poveri alla ricerca di cibo.
Ma ancora più sorprendente il silenzio dei decenni successivi,
un silenzio che arriva quasi sino ad oggi, con pochissime rotture:
un'inchiesta del settimanale "Europeo" nel 1956 di
Giulio Frisoli; il romanzo di Alessandro Perissinotto "Treno
8017"; un testo di ricostruzione attraverso testimonianze
pubblicato a tiratura limitata dal giornalista Mario Restaino nel
1994. Pochissimo altro, sino all'uscita di questa ultima
dettagliata ricostruzione di Barneschi. Che dopo più di
sessant'anni recupera dalle pieghe del tempo e della noncuranza un
pezzo di storia anche nostro.