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Balvano
3 marzo 1944,
la strage del silenzio
Roberta Ronconi
A volte la storia degli uomini, delle donne e delle loro vicende prende strane pieghe. E tra queste restano incastrati eventi che poi nessuno trova più per decenni, a volte per secoli. E' il caso della strage di Balvano, forse il più grande disastro ferroviario del mondo. Avvenne in Italia, 61 anni fa.

In moltissimi non ne avevamo mai sentito parlare sino all'uscita, qualche settimana fa, del libro "Balvano 1944" (Mursia, pp. 292, euro 20.00), ricostruzione minuziosa degli eventi a firma di Gianluca Barneschi, di mestiere avvocato e per passione storico.

I motivi di tanto silenzio sono diversi. Intricati, confusi, in parte dovuti a precise volontà politiche in parte al caso e alla noncuranza, in parte alla voglia di seppellire velocemente quei morti e dimenticarli. Sono tante le imprecisioni attorno a questa vicenda. Con il passare dei giorni e poi degli anni di certo è rimasto pochissimo. Tra questo pochissimo, il numero del treno, il merci 8017 e il totale dei morti: seicento.

Due sole certezze, che combinate tra loro ci offrono già uno spunto di cronaca importante: quelli erano anni in cui anche i merci servivano per il trasporto delle persone che avevano pochi altri mezzi per spostarsi da un punto all'altro dell'Italia. Anche quel giorno del marzo '44 in tanti erano saliti al volo su quel treno che da Napoli avrebbe dovuto raggiungere Potenza e poi Catanzaro dove avrebbe dovuto fare carico di legname. La linea era, dalla fine del '43, in mano alle Forze alleate che l'avevano sequestrata per fini militari tutta la settimana, tranne il mercoledì. Chi perdeva il "giorno passeggeri" era costretto o ad incamminarsi o ad attendere sette giorni. Per molti, un'attesa impossibile. Anche perché quella linea serviva a molti scopi, primo fra tutti quello di fornire scorte di cibo a una Napoli distrutta e affamata. A cercarlo, il cibo, si andava a Potenza dove l'agricoltura era rimasta salva e si poteva acquistare dai contadini ancora una buona varietà di generi alimentari. Si prendevano, si pagavano alla bell'e meglio e poi si portavano a Napoli, dove servivano ad incrementare il giro di borsa nera alimentare, che di fatto sfamava l'intera città.

Le cronache (del resto, scarsissime), anche quelle ufficiali, bollarono l'intera presenza umana sull'8017 come gruppo di «contrabbandieri e viaggiatori di frodo» (queste le parole usate anche dalla relazione sul disastro del governo Badoglio), contribuendo così ad abbassare l'impatto emotivo sulla tragedia. In realtà su quel treno molti viaggiavano con tanto di biglietto (si comprava per la tratta e poi si saliva sul primo treno che l'avrebbe percorsa. Era normale in tempi in cui le ferrovie non garantivano nulla) e molti non avevano niente a che fare con la borsa nera, ma viaggiavano per raggiungere parenti o famigliari, o anche per motivi di lavoro. Come il professor Vincenzo Jura, chirurgo e professore universitario che prese quel treno nel tentativo di raggiungere in un qualche modo Bari dove avrebbe dovuto tenere delle lezioni. Con lui forse viaggiavano alcuni suoi studenti. C'erano anche diversi militari allo sbando e un gruppo di sette soldati italiani con il loro uffciale, gli unici ad aver avuto regolare permesso dagli alleati per viaggiare su quel treno. Poi le donne, tante, oltre un centinaio con i loro bambini, famiglie intere, studenti, lavoratori e avventurieri. C'era insomma tutto quel genere umano sbandato e provato dalla guerra che abitava il nostro paese in quegli anni.

Da Napoli erano partiti nel tardo pomeriggio. A Balvano arrivarono a sera inoltrata, dopo aver attraversato montagne, gallerie, stazioni (ad ognuna, qualcuno riusciva ad aggiungersi al carico umano del treno) in un percorso ferroviario tra i più belli ma anche tra i più aspri delle ferrovie italiane. A quell'epoca i treni viaggiavano a vapore e le locomotive venivano alimentate con palate di carbone. Il carbone degli Alleati sembra fosse di qualità peggiore di quello dei tedeschi, pieno di zolfo e residui tossici. Il percorso dell'8017 da Napoli a Potenza era accidentato e affollato di gallerie. Il treno era un merci, ovvero molti dei 47 vagoni che lo componevano erano scoperti. E questi sono gli elementi principali della tragedia.

A Balvano, stazioncina di montagna in provincia di Potenza, la sera del 2 marzo il treno si era fermato per più di mezz'ora, poi verso le 23.40 era ripartito verso la prossima stazione di Bella-Muro, a 8 chilometri di distanza. Tra le due stazioni, la galleria delle Armi, lunga meno di due chilometri. Il treno vi entrò, ne percorse nemmeno la metà, poi si fermò.

Da qui in poi le ricostruzioni sono tutte contrastanti e caotiche, anche se Gianluca Barneschi ha potuto, per primo, mettere le mani su materiale desecretato dell'esercito americano. In testa al treno c'erano le due locomotive, a carbone. La galleria aveva una leggera inclinazione in salita che i ferrovieri spesso affrontavano irrobustendo un po' le caldaie con qualche palata aggiunta prima di entrare. I pochissimi che poterono raccontare cosa successe quella notte, dissero di aver sentito il treno frenare, poi tornare indietro, poi di nuovo avanti, quindi fermarsi definitivamente. Il capotreno, forse nel tentativo di dare un'accelerata o comunque di sbloccare la situazione, aprì la leva del vapore al massimo. Il monossido di carbonio lo uccise prima di poter completare la manovra. Il gas venefico non deve aver impiegato molto a saturare l'intera galleria, bassa e priva di sfiatatoi. Il fumo usciva dalle caldaie e rientrava nelle carrozze, compresa quella della locomotiva, compiendo un brevissimo giro. I macchinisti furono probabilmente tra i primi a morire. Gli altri impiegarono solo qualche minuto in più. Morirono tutti nel più assoluto silenzio, molti nel sonno, alcuni presi dalla morte tanto di sorpresa da essere rimasti lì - raccontarono poi i soccorritori - chi con la sigaretta in bocca, chi con il gomito poggiato su un asse di legno, un uomo addirittura ancora nell'atto di bere un uovo, una donna nel sonno abbracciata al figlio. Probabilmente, molti di loro si erano già intossicati nelle gallerie precedenti, dove comunque il monossido ristagnava a lungo dopo il passaggio dei treni.

Della tragedia nessuno si accorse per molte ore. Del resto, non c'era nulla da stupirsi in quei tempi se un treno impiegava anche diverse ore per coprire pochi chilometri. Solo nella prima mattinata un frenatore accompagnato da un militare riuscì a raggiungere la stazione di Balvano e a gridare disperato che «lì sono tutti morti».

La tragedia continuerà ancora, e per diversi giorni. Riportare il treno in stazione, accatastare quelle centinaia di corpi lungo le banchine, aspettare i parenti per i riconoscimenti, cercare un luogo dove seppellirli per tempo, riportarli dove possibile nei cimiteri dei propri paesi... Fu un vero disastro, un lutto profondo per migliaia di persone ma di cui nessuno per molto tempo si prese carico. Anzi, sia gli alleati che il governo Badoglio a lungo tentarono di tenere le cose sotto silenzio. I primi per non «deprimere ulteriormente il morale degli italiani» ("The Times", articolo del 1951), i secondi per vago disprezzo nei confronti di questo popolo di poveri alla ricerca di cibo.

Ma ancora più sorprendente il silenzio dei decenni successivi, un silenzio che arriva quasi sino ad oggi, con pochissime rotture: un'inchiesta del settimanale "Europeo" nel 1956 di Giulio Frisoli; il romanzo di Alessandro Perissinotto "Treno 8017"; un testo di ricostruzione attraverso testimonianze pubblicato a tiratura limitata dal giornalista Mario Restaino nel 1994. Pochissimo altro, sino all'uscita di questa ultima dettagliata ricostruzione di Barneschi. Che dopo più di sessant'anni recupera dalle pieghe del tempo e della noncuranza un pezzo di storia anche nostro.


http://www.liberazione.it/giornale/050626/IS12D6A1.asp

http://prc.rifondazione.co.uk/Notizie05/06giugno05/05M2532.htm