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Balvano 1944, I
binari dimenticati di Alberto Alfredo Tristano
TITANIC FERROVIARIO. Il dramma di Viareggio riporta alla memoria la più
grande sciagura di sempre sui binari. Siamo in piena Seconda guerra
mondiale. Il treno merci 8017 Napoli-Bari si blocca nella potentina
Galleria delle Armi. Il monossido di carbonio miete 626 vittime. Una
strage cancellata dagli archivi italiani. Ma ricordata da un libro di
Gianluca Barneschi.
In questi giorni di dolore nazionale per la tragedia ferroviaria di
Viareggio, è ritornato di sfuggita il ricordo di un dramma lontano, su
cui per anni si è esercitata una sbalorditiva rimozione e che non è mai
entrato davvero nella memoria collettiva per la sua infinita gravità. È
il disastro di Balvano. Un autentico Titanic ferroviario: 626 persone
morte in una lunga galleria, la Galleria delle Armi, dove un treno,
l’8017, carico e lungo (quasi 500 metri) e appesantito di vagoni ben
oltre il consentito, di colpo si bloccò. I passeggeri, imprigionati nel
tunnel, furono avvelenati dal monossido di carbonio prodotto dal pessimo
carbone pieno di zolfo, usato per alimentare il convoglio. Fu la più
grande sciagura mai avvenuta sulle strade ferrate del mondo. Un fatto
grave, inserito però (ed ecco forse il motivo primario del silenzio) nel
più grave dei fatti: la guerra. La seconda guerra mondiale. Eravamo nel
Mezzogiorno sbandato dei mesi del post-armistizio, con il Governo
Badoglio installato a Salerno e i sovrani a Ravello, sotto la tutela
degli Alleati (che gestivano in toto il servizio ferroviario nel
Meridione). Eravamo nel marzo del 1944. A Balvano. Provincia di Potenza.
Italia.
Su quel che successe non sono state spese molte parole, anche per la
difficoltà di reperire materiale documentario utile alla ricostruzione
dei fatti. Un sasso nello stagno della censura, di origine
sostanzialmente militare prima che politica, è stato gettato qualche
anno fa dal libro Balvano 1944 (editore Mursia) scritto da Gianluca
Barneschi, avvocato nel campo delle radiodiffusioni e telecomunicazioni,
esperto di storia dei trasporti. Il libro è frutto di un decennio di
ricerche svolte tra archivi italiani ma soprattutto esteri, in
particolare inglesi. Racconta al Riformista l’avvocato Barneschi:
«L’unico atto ufficiale di fonte italiana che si occupa della tragedia è
quello di un Consiglio dei ministri del Governo Badoglio, prodotto pochi
giorni dopo il disastro, che si regge su due grosse inesattezze dai
contenuti infamanti e profondamente offensivi verso le vittime. Perché
si parla di loro come di “contrabbandieri” e “viaggiatori di frodo”.
Naturalmente non va escluso che a bordo ci fossero anche
contrabbandieri: molti di questi viaggiatori lasciavano Napoli, Salerno
e i comuni delle loro cinte urbane per raggiungere la Basilicata e la
Puglia alla ricerca di cibo, che veniva scambiato con capi
d’abbigliamento, lenzuola, coperte, posate. Probabile che una parte di
queste merci provenissero dal mercato nero. E tuttavia a bordo c’erano
bambini, donne incinte, militari, perfino un professore universitario.
Non è proprio l’immagine di chi vive di contrabbando. Quanto poi
all’altra inesattezza, quella del frodo, il Governo semplicemente disse
il falso: molti dei viaggiatori furono trovati in possesso di titoli di
viaggio, che venivano emessi pur trattandosi di un treno merci».
Proprio la presenza di questi biglietti fu decisiva per ottenere almeno
l’indennizzo per i familiari delle vittime: «Il disastro di Balvano
venne compreso tra quelli indennizzabili dalle legge 10 del 1951, “per
danni immediati e diretti causati da atti non di combattimento, dolosi o
colposi delle Forze armate alleate”: per capirci, la legge che risarciva
le donne vittime di stupri da parte dei soldati marocchini». Fu l’unica
nota positiva della vicenda. Per il resto, sofferenza, perdita. E oblio.
Che sin da subito cadde (e fu fatto cadere) intorno alla storia (nel
frattempo ogni responsabilità, anche di tipo penale, è prescritta), e di
cui Barneschi ha avuto cognizione appena ha cominciato le sue ricerche.
«La documentazione italiana è stata distrutta o sottratta con accurata
precisione. In Italia qualunque fonte d’archivio consultabile presenta
vuoti là dove sarebbe stato inevitabile trovare documentazione. Ne ho
avuto conferma quando ho consultato l’archivio ufficiale di sinistri
ferroviari: la rubrica dei fascicoli confermava la presenza della
pratica, ma il faldone non c’era più. C’era il precedente, c’era il
successivo, ma proprio quello no». E così il viaggio a Londra, presso il
Public Record Office, l’archivio di Stato inglese: «Prima trovai la
segretissima relazione ufficiale della commissione d’inchiesta nominata
dai vertici alleati. E poi, soprattutto, la documentazione microfilmata
e finalmente desecretata che chiarisce quanto accadde nella galleria».
Il treno 8017 partì da Napoli nel pomeriggio del 2 marzo. Era diretto a
Bari. Anche quel giorno, come accadeva da mesi, quel treno, adibito al
trasporto delle merci, divenne il mezzo su cui montavano diverse
centinaia di persone che dalle zone urbane intendevano raggiungere
l’entroterra per rifornirsi di provviste. Il servizio viaggiatori era
residuale perché le linee, che erano sotto il controllo degli Alleati,
venivano utilizzate soprattutto per esigenze belliche. L’unica maniera
per viaggiare era ricorrere ai vagoni merci. I convogli perciò si
muovevano ricolmi, oltre che di cose, anche di persone. E ogni
superficie era utile per stare su quei treni: le locomotive, i carri, i
tender, i predellini, l’imperiale delle carrozze, perfino i
respingimenti. Postazioni quasi sempre scomode, spesso pericolose,
talvolta letali.
L’8017 nella tarda serata del 2 marzo attraversava la linea
Battipaglia-Potenza con un grosso carico di donne e di uomini. Alle 0.50
di venerdì 3 marzo lasciava la stazione di Balvano, sul confine tra la
Campania e la Lucania. Avrebbe dovuto raggiungere la stazione di
Bella-Muro in 20 minuti. Non ci arrivò mai.
Nella Galleria delle Armi, la più lunga della Battipaglia-Potenza con i
suoi quasi 2 chilometri, dovette affrontare una pendenza mai incontrata
prima: 14 per 1000. Poco dopo essere entrato nel tunnel, rallentò
progressivamente. La potenza di trazione non era sufficiente. Per via
della forte umidità, il treno cominciò a scivolare all’indietro. Furono
azionati i freni. L’arresto fu definitivo. L’8017 era bloccato nella
galleria. Solo i due carri finali ne rimanevano fuori: e questo
significò la salvezza per chi si trovava in quelle vetture. Perché
intanto nella galleria le persone già cominciavano a morire. A segnarne
la sorte fu l’aria avvelenata dal monossido di carbonio che in breve
occupò lo spazio lungo e non ventilato del tunnel. Lentamente, in
silenziosa agonia, furono come ingessate dalla morte in gesti e pose del
tutto naturali: chi con la sigaretta tra le dita, chi succhiando un
uovo. Qualcuno si salvò dai vapori tossici grazie a una sciarpa o una
mantellina. I superstiti furono meno di 100 su più di 700 passeggeri.
Per gli altri, molti dei quali mai identificati, la vita finì in quella
notte lucana.
Fu così per Francesco Arte, salito a Napoli: a Picerno la moglie
attendeva lui e la nascita dell’ultima figlia. Fu così per i coniugi
Natale Monti e Raffaella Barone, diretti alla caserma di Taranto perché
non avevano avuto più notizie del figlio militare. Fu così per Rosario
Amato, arruolato in marina, che da Torre del Greco tornava alla base
tarantina. Fu così per Giuseppe e Antonietta Uccheddu, fratelli: la
madre li attendeva a Muro Lucano. Fu così per il professor Vincenzo
Jura, medico, docente universitario a Bari, dove si stava recando per
una sessione di esami. Fu così per più di 600 persone.
Ma in questa Spoon River meridionale non giocò soltanto il gas velenoso.
Anche l’imperizia dei soccorsi. Che arrivarono tardissimo, praticamente
a mattina già fatta. E a tragedia si sommò tragedia, perché nel portare
fuori il treno dalla galleria non si fece attenzione ai corpi ammassati
intorno e chi non morì di gas morì, per quanto debilitato, sotto le
rotaie. Il disastro non voleva smettere. Quella massa enorme di cadaveri
e di corpi fu ammassata sul marciapiede della stazione di Balvano e sui
pianali dei camion. Drammatica fu la testimonianza di Oreste Pacella,
medico condotto di Balvano, resa a Famiglia Cristiana nel 1979: «Avevo
cento fiale di adrenalina. Saltavo da una vettura all’altra, cercavo un
cenno di vita nei riflessi oculari, poi facevo l’iniezione al cuore. Poi
arrivarono le autorità da Potenza con una dottoressa americana.
Allontanarono tutti, anche me. Ne avevo salvati 51, mi restavano 49
fiale, avrei potuto salvarne altri. Protestai. Mi cacciarono. E questo è
il tormento che mi accompagna da quel giorno».
I militi inglesi avrebbero voluto bruciarli, quei cadaveri. Per fortuna
non ebbe luogo lo scempio. Ma quelli erano i morti della miseria, da far
sparire, da dimenticare in fretta. Morti scomodi: il Governo Badoglio
non manifestò neppure il cordoglio per le vittime del disastro. Si
procedette alla loro sepoltura in quattro fosse comuni, ricavate in un
terreno accanto al cimitero di Balvano donato quel giorno stesso dal
signor Francesco Di Carlo. E a un altro galantuomo, Salvatore
Avventurato, si deve una cappella, unico segno che commemori tutte
quelle morti. Perché non esistono targhe o monumenti per quella strage.
Vale la pena ricordarli, soprattutto oggi, che si piange a Viareggio.
lunedì, 6 luglio 2009
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