La ricerca sull’utopia, approfondendosi lungo
questo secolo dal livello letterario al livello storico e dei
movimenti di popolo, rivela dunque un itinerario che
s’incentra nella giustizia; che matura nel tempo la
costruzione della società di giustizia. Ho parlato sopra di due
grandi filoni di questi movimenti, che si estendono per circa tre
millenni, i "movimenti religiosi di salvezza" e i
"moderni movimenti rivoluzionari". V’è però una fase
precedente e, lungo tutto questo tratto di storia, permanente, che
noi chiamiamo del "progetto popolare implicito"; propria
della condizione popolare, e contadina (ma anche, e in non piccola
parte, cittadina); condizione di duro lavoro, scarsità,
ignoranza, dipendenza, sfruttamento, oppressione, povertà
diffusa; condizione d’ingiustizia, in cui la dignità e diritto
della persona è conculcata. Più oltre condizione servile,
schiavitù. Che contiene in sé una coscienza e una tensione
verso la giustizia, la società di giustizia, il progetto
popolare implicito appunto. La cui esistenza è provata (oltre che
dai miti utopici, sui quali qui non mi trattengo) da tre ordini di
eventi: la rivolta popolare, fenomeno endemico, presente in tutta
la storia umana; i processi di democratizzazione (Atene, Roma, i
Comuni medievali); le rivoluzioni moderne. Non posso ora
sviluppare questi eventi, che ho sviluppato nel libro cit. L’utopia;
in modo particolare le rivoluzioni moderne, anche quelle che sono
dette "borghesi", la cui forza d’urto e il cui più
avanzato progetto è popolare (§§ 9 e 25-29).
Se i due filoni di movimenti di popolo di cui
s’è detto segnano nella storia un itinerario particolare, che
confluisce poi nella civiltà occidentale, l’ambito
ebraico-greco-cristiano, poi europeo, quello del progetto popolare
implicito, e segnatamente la rivolta popolare, è invece un ambito
che potremmo dire planetario, e però ristretto alle civiltà (non
si estende alle culture cosiddette "primitive"), nelle
quali s’instaurano forme di potere oppressivo e dispotico.
La costruzione della società di giustizia ha
dunque il suo antefatto e insieme il suo terreno permanente,
potremmo dire il suo più profondo permanente portatore storico,
nella condizione e coscienza e tensione popolare, nel
"progetto implicito". Nel primo dei "movimenti
religiosi di salvezza", il messianismo ebraico, il
progetto si esplicita, s’imposta, e lungo il profetismo ne
troviamo individuate alcune essenziali strutture: la giustizia
appunto, nei termini descritti, la pace (pace anche col mondo
animale), l’unificazione dei popoli nell’adorazione del Dio e
nella giustizia, la prosperità. E non è più solo progetto ma profezia,
cioè annunzio di una realtà futura, di una giustizia che si
realizzerà, sia pur col sussidio della fede.
Nel millenarismo, movimento poco noto ma
di grande portata storica, poi che muovendo dal II secolo a.C.
percorre poi tutta la cristianità romana e il medio evo e l’evo
moderno, e ha la sua più grandiosa fioritura nell’800
americano; movimento, inoltre, di grande presa popolare; mitico
certo, ma che esprime con mirabile forza la tensione popolare
verso la giustizia (si veda l’acuto e suggestivo lavoro di
N.Cohn, The pursuit of the Millennium, London, 1957;
tr. it., Milano, 19762); nel millenarismo il progetto
utopico è il medesimo del messianismo ebraico da cui evolve;
anche se, spesso, con un più forte accento terreno e materiale:
giustizia, pace, prosperità, unificazione dell’umanità. E però
solo per i giusti ed eletti, che sono poi anzitutto i poveri; gli
empi essendo stati annientati nella battaglia escatologica. Il
forte spirito di risentimento e rivalsa di cui è impregnato.
Nell’annunzio evangelico
(espressione qui preferita a "cristianesimo", fenomeno
troppo complesso e contrastato) che sull’ebraismo s’innesta
pur trasformandolo profondamente, il progetto della società di
giustizia è acquisito; anche se trasceso in un progetto più
avanzato e più alto, la "società fraterna", la legge
dell’amore. La parola giustizia compare di rado, e per lo più
nel trascendente senso biblico di cui s’è detto. Ma il suo
principio e spirito è acquisito ed esaltato. Nell’annunzio
dell’evangelo ai poveri, la beatitudine del povero, ch’è poi
anche la sua redenzione terrena e materiale; come si vede dalla
primitiva comunità apostolica descritta negli Atti degli
apostoli, dove i beni sono in comune, dove quei che posseggono
apportano i loro beni che vengono distribuiti secondo il bisogno
di ciascuno; sì che "nessuno più tra loro era
indigente" (2,42-47; 4,32-35). La redenzione terrena del
povero, la fine della povertà. Così come della ricchezza nel suo
senso espropriativo e discriminativo: il ricco e il povero, il
potente e il debole; sfruttatore e sfruttato, oppressore e
oppresso: i due poli della società ingiusta di sempre.
L’annunzio evangelico demolisce la ricchezza e la potenza;
come forme del male; forme della discriminazione ed oppressione.
La ricchezza è "ingiusta", il ricco non può entrare
nel "regno", cioè nella società di salvezza, società
fraterna; "è più facile che un cammello passi per la cruna
di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio". La
frase famosa. Ma non si tratta solo di una frase, che la
tradizione ideologica ha tentato di sminuire appianare; la
tradizione di una società e chiesa dominata dalla ricchezza; si
tratta di un tema portante dell’annunzio, che lo percorre tutto.
Così la potenza, il potere unilaterale dell’uomo sull’uomo.
Qui l’annunzio è radicale: nessuna forma di superiorità è
ammessa, di prestigio sociale, di potere morale intellettuale
dottrinale (farsi chiamare signore padre maestro; occupare i primi
seggi nelle sinagoghe, i primi posti nelle cene); ogni prerogativa
deve porsi come dono e servizio ai fratelli.
Nel progetto evangelico ha fine ogni forma di
discriminazione umana; a cominciare da quella economica, la grande
discriminazione, che ha fondato e sostenuto ogni altra; tra
ricco e povero, potente e debole, padrone e schiavo, servo,
dipendente (qui anche il contratto salariale, certo); ha fine ogni
forma di discriminazione, religiosa, etnica, sociale, sessuale.
Come spiega Paolo: non v’è più né giudeo né greco, non greco
né barbaro, non schiavo né libero, non maschio né femmina: nel
rapporto fraterno, in cui la più grande giustizia è contenuta.
Se il messianismo ebraico era profezia,
l’evangelo è annunzio e fondazione ("fonderò la
mia ekklesìa", la mia comunità ecclesiale,
assembleare), costruzione della società fraterna in cui si
contiene e trascende la società di giustizia. Una costruzione che
nella sua stupenda realtà altissima, nella sua novità storica
non dura; si aliena rapidamente nelle strutture di potere, di
gerarchia della società in cui s’è immessa, volendola
trasformare; già in età apostolica, come appare dalle Lettere
pastorali, le ultime del corpus paolino. Si aliena poi
in strutture di potenza e ricchezza, e infine nel "modello
imperiale": il papa, un imperatore e superimperatore; i
vescovi, principi; il tutto inquadrato poi per una lunga età nel
sistema feudale; modello che sostanzialmente perdura tuttora.
V’era stato tuttavia un fatto costruttivo, di tipo comunitario.
L’eresia medievale, quella che così
è chiamata, che anche noi provvisoriamente così chiamiamo
(dovremmo parlare, a rigore, di movimenti ecclesiali alternativi;
lasciando per ora il problema dell’ortodossia), è proprio il
tentativo di recuperare l’annunzio evangelico nella sua
autenticità, la comunità ecclesiale nella sua originaria
purezza. Perciò vi ha un ruolo tanto forte la povertà (i poveri
di Lione, i poveri di Arnaldo, i poveri lombardi); o anche lo
"spirito" (in Gioacchino da Fiore e in tutta la corrente
"spirituale); e il laicato. La redenzione del povero, del
popolo. È il tentativo di riprendere la costruzione iniziata dal
Cristo, la società di giustizia e fraterna, la società fraterna
che contiene al più alto grado la società di giustizia. Una
catena di movimenti che si distende per cinque secoli a partire
dal Mille, dal 1056, l’anno in cui si solleva la Pataria
milanese; subito di volta in volta combattuti annientati; si
riformano, si rinnovano, giungono fino a Wyclif, a Hus, al
Bundschuh, al 1517, l’anno delle "tesi" di Lutero;
trapassano nell’eresia moderna, luteranesimo, calvinismo,
anabattismo, puritanesimo, i pilastri di questa; se così si può
dire. Nella molteplicità e complessità dei movimenti il progetto
modula, oscilla sul suo asse. Non si può forse dire che Lutero,
Calvino lottino per una chiesa dei poveri; l’uno appoggiato ai
principi, furioso avversario della "guerra contadina";
l’altro appoggiato alla borghesia; e però ambedue lottano per
una chiesa di popolo. Non importa l’oscillare del progetto;
importa ch’esso giunga sostanzialmente intatto fino al
puritanesimo inglese del ‘600, quando trapassa dal religioso nel
politico, e scatena e informa la prima delle rivoluzioni
moderne; la prima delle rivoluzioni sine addito. Non
v’è rivoluzione prima della modernità, non v’è globale
movimento eversivo di popolo per la sua liberazione; ché tale è
il senso della parola, senso rigoroso.
Parliamo di quattro rivoluzioni:
l’Inglese del Lungo parlamento, 1640-1653, la Francese, la
Russa, la Contestazione degli anni 60-70. Il loro progetto è
sempre la società di giustizia: anche se questa parola non
compare spesso nei dibattiti, nelle "carte"; rispetto ad
altre parole, libertà diritto eguaglianza; che però –lo si è
visto– altro non sono che fattori della giustizia. Compaiono le
strutture della società di giustizia, della sua progressiva
costruzione. Perché se la fase dei "movimenti religiosi di
salvezza" è la fase del progetto, o anche della tentata
costruzione abortiva, nell’alienazione, nella lotta
annientatrice; la fase dei "moderni movimenti
rivoluzionari" è fase decisamente, fors’anche
definitivamente, costruttiva. Inizia la costruzione,
prosegue, giunge a noi, prosegue nella nostra età scettica
sfiduciata.
Pessimismo, scetticismo storico di
questa nostra età; dell’ultima decade in particolare, la
fine del millennio. Per più ragioni. La crisi della coscienza
moderna e borghese, della ragione moderna, dopo il suo
parossistico esaltarsi risolvendo in sé la realtà intera; crisi
che dura da un secolo e mezzo, che ha portato alla "morte di
Dio", dell’uomo, dei valori e vincoli etici, della storia,
alla mitica attesa della fine dell’Occidente e della civiltà e
della storia; al nihilismo. Almeno nell’ambito filosofico e
letterario, intellettuale. Le due guerre mondiali, accanimento di
popoli contro popoli, macello planetario, atrocità, campi di
sterminio; l’instaurarsi di regimi totalitari, comunismo e
nazismo, regimi oppressivi e dispotici; riflusso di barbarie nella
e dalla "civile" Europa. In particolare il perdurare e
l’espandersi per oltre settant’anni del comunismo sovietico
che diventa una costellazione di stati di polizia, tenta
l’asservimento del pianeta; con l’atroce bilancio di cento
milioni di morti (v. in Aa.Vv., Le livre noir du communisme, Paris,
1977, p. 14). Poi, paradossalmente, il crollo del comunismo,
quindi del progetto utopico che pur conteneva, che l’aveva in
certa misura generato: il "regno della libertà", la
fine dell’alienazione ed espropriazione del lavoro umano,
l’elevazione del lavoro e del popolo verso l’"uomo
totale" (la parola di Marx), la radicale eguaglianza quindi
la società senza classi; la speranza la forza che aveva pur dato
all’umanità. Col crollo del comunismo il riflusso del
capitalismo, dello "stato liberale", della società
ingiusta di cui il capitalismo è l’anima perversa; mentre, con
l’integrarsi della classe operaia nei ceti medi, col suo
estinguersi veniva meno quello che negli ultimi due secoli era
stato il portatore storico del processo di liberazione, di
costruzione della società di giustizia.
Il pessimismo storico ha dunque i suoi motivi.
Ma l’ottimismo, la fiducia nel presente-futuro, la speranza
fiduciosa ne ha di più decisivi; ha per sé il processo stesso
della storia così come finora l’ho ricostruito a cominciare dal
messianismo ebraico, circa il 1000 a.C., l’età davidica, i
primi tratti messianici (così l’oracolo di Natan in 2 Sam 7;
1 Cron 17); i movimenti religiosi di salvezza fino al
puritanesimo e alla Rivoluzione inglese del Lungo parlamento. Con
essa inizia la costruzione, la fase costruttiva. Si tratta
ora di rifare sinteticamente il corso di quest’ultima decisiva
fase, ricomporne le strutture.
3. L’itinerario costruttivo: dalla
Rivoluzione inglese al nostro tempo
A cominciare dai grandi principi etici
che giungono a maturazione nella coscienza moderna. Il principio
d’uomo, ch’emerge con l’umanesimo del ‘400 e s’illumina
ed afferma lungo l’evo: dignità dell’uomo, della persona
umana, dignità e diritto. Il principio di libertà e delle libertà
(coscienza, pensiero, parola, stampa, azione, associazione),
d’eguaglianza, di sovranità popolare, che s’afferma nella
Rivoluzione inglese; ma il principio d’eguaglianza è sempre
fortemente avversato dai ceti privilegiati e dai loro ideologi,
dal capitale, dalla borghesia (che nel mio discorso
s’identificano, la borghesia come detentrice del capitale).Il
principio di ragione e interiorità –per cui l’uomo ha
diritto, e dovere, di agire in forza di una ragione interiore–,
che matura nell’ambito della ragione moderna. Il principio
di solidarietà, che va formandosi nell’esperienza di
lotta solidale e fraterna delle rivoluzioni, nell’esperienza
solidale di lotta della classe operaia; e nel processo di
unificazione dell’umanità che parte forse dalle grandi scoperte
geografiche, matura col generarsi e diffondersi di una prassi
politica e tecnologica universale, prassi di comunicazione e
informazione fino all’ubiquità e alla compresenza, al
costituirsi di una comunità internazionale a carattere
planetario, e di un’economia globale. Ho introdotto più sopra,
in qualche misura, il senso della solidarietà.
Il maturare e l’affermarsi di questi principi
trova la sua sanzione storica nelle carte dei popoli.
Ne indico alcune: il Patto del popolo inglese del 1647: la
Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776; la prima
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del l789;
le Carte costituzionali, quella americana e quelle della
Rivoluzione francese anzitutto, quindi le altre costituzioni
democratiche; la Carta atlantica, il Patto dell’Onu, le altre
carte e patti sanciti nell’ambito dell’Onu, in particolare la
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948; infine
la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000.
Qui sta il segno, qui il luogo della coscienza etica moderna, dei
suoi principi. Non nel pensiero e negli scritti dei filosofi,
spesso alienati, aberranti; specie dopo la grande crisi di cui ho
parlato, e che tuttora perdura. Nel rifiuto del fondamento,
nell’impotenza ad una fondazione, nel rifiuto della verità e
della certezza, sia pur finita (ché tale soltanto può essere la
verità umana), il vincolo etico perde il suo carattere
perentorio, "categorico" secondo la parola kantiana;
diventa "debole", valido solo se accettato, sia pur
nella "comunità [supposta] universale del discorso"
(ancora la "prestigiosa" teoria di Habermas). Per cui,
di fronte a questa molteplice incertezza si tratta di capire se
"non uccidere", "non fare schiavo il tuo
simile" sia o no un vincolo perentorio, insuperabile; perché
se è un vincolo debole non astringe insuperabilmente la coscienza
e l’uomo può uccidere; se non è accettato dalla comunità del
discorso, potrà uccidere allo stesso modo; e poi quale forza
insuperabilmente vincolante sulla persona e sulla sua autonomia può
avere la "comunità del discorso"? Se i vincoli etici
non sono categorici prevale l’arbitrio individuo e l’umanità
è abbandonata al caos sociale. Ritorna – ma questa volta non
solo come ipotesi – il bellum omnium contra omnes. Il
filosofo, dunque, continua ad esprimere la sua impotenza e il suo
disfattismo, sui libri, sui giornali; ma fortunatamente i principi
e vincoli etici acquisiti alla coscienza moderna sono solidamente
assicurati nelle carte dei popoli.
Un altro grande passo nella costruzione della
società di giustizia è il modello democratico che nasce
dalla Rivoluzione inglese. Che ha i suoi fondamentali punti nella
legge (non più l’arbitrio del monarca, dell’aristocratico);
nel parlamento come organo della legge eletto dal popolo, sì che
principio della legge sia il popolo stesso attraverso i suoi
rappresentanti, sì che nessuno sia soggetto se non ad una legge
fatta da lui stesso; infine in un apparato giudiziario unico e
valido per tutti. All’inizio la base elettiva del parlamento è
molto ristretta e assai poco popolare; inoltre una delle Camere è
ereditaria nell’ambito dell’aristocrazia. Ma la base elettiva
si allargherà via via fino al suffragio universale; la Camera
alta ereditaria resisterà proprio solo in Inghilterra, ma solo
con un potere limitato. Il modello democratico s’imporrà a
livello planetario.
Un primo grande passo nella restituzione, nella
gestione popolare del potere; che però resta a metà, la democrazia
rappresentativa, la gestione mediata; dove il popolo
interviene solo com’elettore, ogni quattro cinque anni (o anche
nel referendum, laddove esiste); senza possibilità di
un’escussione previa del candidato, di un mandato preciso, di
una valutazione del suo operato. Nella rappresentanza interviene
l’organizzazione partitica che gestisce da sé il fatto
elettorale, manipolando il consenso in modo molteplice, attraverso
le clientele, la suasione massmediale; così come tende a gestire
da sé il potere al di fuori del parlamento; tende ad
appropriarselo in modo polivalente, onnicomprensivo. La cosiddetta
partitocrazia, di cui abbiamo fatto una larga triste
esperienza; e la facciamo tuttora.
Il passo completo è la democrazia diretta,
la gestione popolare diretta del potere politico a tutti i suoi
livelli, gestione assembleare; quella che ha avuto il suo primo e
più alto esempio nell’Atene antica, modello insuperato, punto
luminoso cui va il pensiero e il desiderio sempre. Punto di
tensione del processo democratico moderno già nei progetti
politici della Guerra contadina del 1524-25; poi nella Rivoluzione
inglese, Winstanley in particolare; in quella francese nella
Costituzione del ’93, nelle sezioni rivoluzionarie del Comune di
Parigi, nel movimento di Babeuf; in tutto il filone utopico
francese dell’800 da Fourier a Proudhon; nella Comune di Parigi
del 1871; nella Rivoluzione dei soviet del febbraio
1917, inizio autentico della Rivoluzione russa; nella
Contestazione degli anni 60-70; nel progetto politico della perestrojka.
Questo ritorno insistente è il segno di una tensione
storica ed etica, la sovranità popolare, la sua
realizzazione. I teorici borghesi dicono ch’è impossibile –
già Rousseau – e se ne beffano; sarebbe possibile solo in un
piccolo stato, della misura di un cantone, una provincia; mentre
oggi già le città sono grandi, quando non enormi. Ma l’Atene
antica non era piccola, circa 500.000 abitanti; anche se i
cittadini, i membri di diritto dell’assemblea, erano solo
30.000; una cifra che poi ci spaventa, noi moderni, per un regime
assembleare. In realtà quegli studiosi, nel loro scetticismo, non
hanno mai affrontato seriamente il problema; noi lo abbiamo
affrontato e non lo abbiamo trovato per nulla insolubile. Il
grande si compone del piccolo (v. un progetto in La Russia e la
democrazia. Il riemergere della democrazia diretta, Bari,
l994, pp. 63-153; e G. Schiavone (ed.), La democrazia diretta.
Un progetto politico per la società di giustizia, Bari,
1997). Anche la decadenza del parlamento in preda alla
partitocrazia, alle lobby, alla corruzione, all’avidità
di denaro dei partiti, l’insofferenza e il disgusto della gente
per la politica e i politici sono un segno della tensione storica
verso la democrazia diretta.
V’è una serie di passi ulteriori nella
costruzione della società di giustizia. Con la Rivoluzione
francese l’abbattimento del potere monarchico-aristocratico,
che aveva dominato l’intera storia umana: le monarchie,
gl’imperi, l’inizio epocale della loro fine; dal 1848 il
processo si generalizza, i monarchi cedono il loro potere alla
legge, al parlamento. Poi, con la prima guerra mondiale, la fine
degl’imperi continentali, l’asburgico, il prussiano, il
russo, l’ottomano; l’impero cinese era finito nel 1912,
restava il giapponese che ha fine con la seconda guerra mondiale;
quando hanno fine anche gl’imperi coloniali, si afferma
il principio di autodeterminazione dei popoli. E ancora
nella Rivoluzione francese l’abolizione della schiavitù;
reintrodotta da Napoleone, il grande despota e grande macellaio;
soppressa di nuovo nel 1815, si generalizza lungo il secolo.
L’abolizione della pena di morte lungo l’800, e più
decisamente nel nostro secolo; pur con grosse eccezioni, grossi
ritardi, come gli Usa, che pur pretendono alla guida anche morale
dell’umanità; pretesa meschina. Lo stato non ha il diritto di
uccidere un cittadino: perché il suo potere si genera da una
cessione di diritto dei cittadini stessi ("la sovranità e le
leggi […] non sono che una somma di minime porzioni della
privata libertà di ciascuno", diceva già Beccaria con
singolare forza, Dei delitti e delle pene, 28) e questa
cessione non può essere totale o altrimenti il cedente vien meno;
né l’uomo ha un diritto di vita e di morte su di sé, che possa
cedere.
Un passo di enorme portata, forse il più
grande e decisivo nella storia umana è, lungo l’800 e il
‘900, l‘ascesa della classe operaia e della condizione
popolare: nel lavoro, nel reddito, nella sicurezza sociale,
nell’istruzione e cultura, nel benessere. Un processo ancora in
corso, anche nei paesi economicamente e culturalmente più
avanzati; il lavoro essendo ancora in gran parte dipendente
e sfruttato, e lo sarà fino a che esisterà il contratto
salariale, fino a che non si raggiungerà l’autopossesso e
autogestione dell’impresa. Mentre il reddito è ridotto
dallo sfruttamento, dal profitto unilaterale del padrone; è
falcidiato dal lavoro nero, dal lavoro sottopagato in tutte le sue
forme; per essere poi divorato dal consumismo, dalla suasione e
coazione all'acquisto, spesso superfluo, spesso inutile: la società
opulenta, società di un benessere materiale che si gonfia nello
spreco, con gravi problemi di giustizia, di distribuzione dei beni
al suo stesso interno, di risorse, di ambiente. La sicurezza
sociale, assistenza e previdenza, ha raggiunto un buon livello
almeno nell’ambito europeo-occidentale; e però con grossi
problemi specialmente nell’estensione e nella qualità
dell’assistenza sanitaria, nell’assistenza e redenzione della
povertà, nell’adeguatezza delle pensioni. Un punto chiave è la
sicurezza del posto di lavoro, in questi anni duramente attaccata
dalla disoccupazione tecnologica sotto la tensione del capitale
verso il profitto, in un sistema in cui manca ancora una globale
provvidenza della comunità verso tutti i suoi membri; manca in
particolare quella che noi chiamiamo "società di
quadro", una società nella quale il fatto
produzione-lavoro-ricchezza venga gestito razionalmente (non
mancano oggi gli strumenti) in termini tali da assicurare ad
ognuno il lavoro non solo, ma il "suo" lavoro, quello
che risponde alla sua personalità "formata". L’istruzione
obbligatoria e gratuita, a parte la qualità, è ancora troppo
breve, ridotta per lo più alla scuola elementare e media; mentre
deve raggiungere per tutti almeno il diploma universitario; se si
vuole che la persona pervenga a un possesso adeguato del
patrimonio culturale umano, ch’è suo, le appartiene; pervenga
ad una formazione culturale adeguata, a un reale possesso della
cultura; e abbia fine in questo punto cruciale la disparità di
sempre, l’ignoranza, l’impotenza del popolo di fronte
all’opera d’arte, al tempio ellenico, alla musica classica. Il
benessere, la prosperità è una delle strutture di sempre
del progetto utopico, struttura dell’archetipo (cfr. L’utopia,
cit., § 4); una delle aspirazioni profonde di quell’umanità,
di quella condizione popolare di sempre di cui ho parlato, segnata
dal duro lavoro e dall’indigenza.
L’enorme portata di questo processo di ascesa
economica e culturale, nella costruzione della società di
giustizia, sta nell’aver superato infine e per la prima volta
quella condizione; in cui l’uomo era menomato, nella povertà e
nell’ignoranza, nella dura materialità del lavoro che divorava
le sue energie e il suo tempo, limitava il suo sviluppo mentale e
personale; l’espansione della persona, della sua potenzialità
indefinitamente espansibile, del suo potenzialmente mirabile
mondo. Solo una piccola minoranza di privilegio poteva raggiungere
quell’espansione, quell’umanità, humanitas, homo
humanus; la stragrande maggioranza era prigioniera
nell’inumano. E proprio in regime di civiltà, mentre la
condizione "primitiva" in certo senso era meglio; se
soltanto ricordiamo i resoconti di Cristoforo Colombo, la sua
ammirazione per quei "primitivi". Perciò la portata del
processo, il mutamento epocale, l’inizio di una
"storia" in senso marxiano, non più inumana ma umana.
L’inizio: ho notato via via, sinteticamente, ciò che s’è
costruito e ciò che – ai nostri occhi, alla nostra limitata
visione – ancora manca. Perciò il benessere è intriso di
malessere. Ritornerò su questo.
Alle basi di quest’ascesa, della sua
possibilità, vi sono certo le due grandi invenzioni della
borghesia moderna, la tecnologia e il capitale. La tecnologia,
o meglio la scienza-tecnologia-industria, è la produzione per
modelli universali, che rende possibile la soddisfazione
dell’universale bisogno umano; la "tecnica", la
produzione per modelli e oggetti singoli, non poteva raggiungere
quella soddisfazione, restava bloccata nella scarsità. Il processo
di capitalizzazione attraverso il reinvestimento di una parte
del profitto, quindi la continua espansione, appronta la base
materiale – finanziaria e strumentale – che consente
l’indefinita espansione della produzione tecnologica, della
globale ricchezza umana, della disponibilità dei beni al bisogno
umano. Ma l’ascesa stessa non avviene, non è di fatto avvenuta
se non per la lotta della classe operaia, lotta di oltre un
secolo, lotta e rivoluzione.
Con la Contestazione degli anni 60-70, ch’è
la quarta delle rivoluzioni moderne, anche se atipica, la fine
della società repressiva; di quella società che, anche
quando riconosce i diritti, ne impedisce l’esercizio attraverso
il costume, la pressione ideologica – falsa ragione, falsa
morale –, la legge; per motivi di privilegio e potere: potere
maschile, potere religioso, potere dell’adulto del
"normale", di una razza (parola abitualmente usata,
anche se di incerto significato), un’etnia. E insieme la fine di
ogni forma di discriminazione ed emarginazione. L’affermarsi
della dignità e diritto del figlio, della donna, del giovane, del
diverso, dell’handicappato, del malato (specie mentale, la
riumanizzazione della follia in tutti i suoi gradi); la dignità e
diritto del nero in una società bianca (in America la grande
lotta per i diritti civili), i diritti delle minoranze razziali
etniche religiose; la revisione della morale sessuale. Pure qui un
salto epocale; anche se il processo è ancora in corso.
Con la crisi ecologica che si apre negli anni
70 cade la pretesa di un dominio incondizionato
dell’uomo sulla natura: pretesa insensata perché l’uomo
stesso è un ente di natura e non può vivere e sopravvivere se
non in una natura ambiente che gli corrisponda. L’uso
strumentale incondizionato della tecnologia da parte del
capitale-profitto aveva portato ad una incondizionata
strumentalizzazione della natura, alla sua potenziale distruzione
profittuale. Si riafferma dunque la natura come principio;
non perché sia persona, ma perché sta prima dell’uomo e lo
condiziona; quindi il rapporto corretto (non si tratta di
giustizia ma di un suo analogo), il riconoscimento, il rispetto,
la salvaguardia; la corresponsione in tal senso. In particolare il
rispetto dell’animale come fratello minore dell’uomo
("fratello adolescente", dice Péguy): anche qui in
analogia; nel senso che ha preparato e maturato, attraverso
l’evoluzione delle specie, l’avvento dell’uomo senza
raggiungerlo; e l’uomo lo deve riconoscere, gli deve
riconoscenza, corresponsione.
Con la perestrojka, con la caduta dei
contrapposti blocchi egemonici, non solo ha fine la corsa agli
armamenti, ma –per la prima volta nella storia– ha inizio la
distruzione delle armi, la riduzione degli eserciti permanenti. La
volontà di pace, espressa lungo il secolo dai movimenti,
sancita nella Carta atlantica e nel Patto dell’Onu, si rafforza;
il Consiglio di sicurezza (pur ingiusto nella sua composizione,
nel potere decisionale) si fa più efficace nei suoi interventi di
prevenzione e soluzione dei conflitti locali. Si apre la
prospettiva di un’età di più diffusa pace, dissoluzione degli
eserciti singoli per una forza multinazionale di pace gestita
dalla comunità dei popoli.
Ho così tentato un quadro del grandioso
processo che inizia con la Rivoluzione inglese e giunge a noi ed
è in atto nel nostro tempo, nel presente-futuro: la costruzione
della società di giustizia. Dovendo subito precisare
alcune cose. Che la costruzione è in corso, ancor lontana
dall’adempiersi (né mai si può parlare di adempimento nella
finitudine e storicità delle cose umane); negli stessi paesi in
cui è più avanzata, come raggiunto livello etico politico
economico. Così in Europa occidentale e in Nordamerica. Profondi
scompensi persistono in mezzo a noi: le fasce di povertà, ad
esempio (circa 10 milioni di poveri in Italia, 40 milioni negli
Usa; intendendo per povertà un reddito familiare che non supera
il reddito medio pro capite; inferiore quindi, in Italia,
alle 500.000 lire mensili a persona), di disoccupazione; droga,
nevrosi, criminalità; insufficienze e mediocrità
nell’istruzione, nella sanità, nell’assistenza;
ineguaglianza, differenze talora enormi nel reddito; soggezione e
precarietà del lavoro sotto il capitale; soggezione e precarietà
del lavoro sotto il capitale. Innumeri problemi irrisolti.
Che la costruzione procede ineguale nei
diversi continenti e popoli; v’è un divario politico economico
culturale talvolta abissale, talvolta molto grande: si pensi
all’Africa o all’America latina. Povertà diffusa,
analfabetismo, assenza di servizi; bidonvilles, favelas;
dittature, fondamentalismi, lotte e massacri tribali. Divario che
certo può essere colmato, come già è avvenuto in molti popoli;
ma che intanto perdura, con effetti disastrosi e dolorosissimi.
Che il processo è accidentato,
non lineare, se non forse nella globalità dell’itinerario che
la ricerca e la coscienza ricompone. Una linea spezzata, fratta,
con svolte, soste, rientri, riflussi. Un cammino difficile per la
complessa varietà delle posizioni, le forze che vi si contrastano
e lottano, gli opposti interessi; per il rifluire e premere del
passato sul presente-futuro; per l’incidervi dell’errore,
della trasgressione.
Che non si tratta, propriamente, di un processo
occidentale o europeo; anche se la fase segnatamente
costruttiva, che parte dalla Rivoluzione inglese, si genera e si
sviluppa anzitutto in Occidente; e però la fase prima del
processo, i movimenti religiosi di salvezza, il messianismo
ebraico, il millenarismo, il cristianesimo stesso, sono asiatici,
il vicino Oriente. Ma tutto ciò non ha molto peso perché il
processo è universale, concerne l’uomo come uomo. Non è
che la dignità della persona umana, la libertà e l’eguaglianza
valgano per il Nord e non per il Sud del pianeta; che il vincolo
"non uccidere", "non fare schiavo il tuo
simile" s’imponga alla coscienza europea e non a quella
asiatica. I principi etici, il modello democratico, le strutture
della società di giustizia sono universali; come sono universali
la scienza-tecnologia e l’accumulazione capitalistica che al
processo conferiscono; nel modo che si è visto.
4. Il senso della storia, il fondamento della
speranza
La costruzione della società di giustizia si
presenta dunque come una vicenda che in sé raccoglie l’intera
storia umana, in sé la unifica, prima intenzionalmente, poi di
fatto, attraverso l’adempiersi della sua valenza universale; sì
che l’umanità si raccoglie in una storia una e appunto universale.
Ciò si può dire maturi nel nostro tempo. Si parla per ora
principalmente di "globalizzazione dell’economia"; ma
il processo è più profondo e più comprensivo; è un processo di
universalizzazione che abbraccia l’intero mondo umano a
cominciare dai principi etici, dal modello politico, dalla
scienza-tecnologia; quindi l’industria, il mondo oggettuale e i
comportamenti d’uso; l’economia, la cultura; l’informazione
e la comunicazione fino all’ubiquità e alla compresenza. È
vero che proprio nel nostro tempo vi sono culture storiche che
affermano la loro identità differenziandosi e opponendosi
all’Occidente, prima tra tutte l’islamica; con un patrimonio
etico, e giuridico, in parte arcaico e ingiusto (poligamia,
asservimento della donna in modi molteplici, pena del taglione);
con modelli politici clericali e/o dispotici ingiusti allo stesso
modo. Ma proprio questi punti d’ingiustizia iniziano a farsi
palesi al loro stesso interno.
Il processo, la costruzione della società di
giustizia, raccoglie dunque l’intera storia umana e la risensa,
le dà senso. Quel senso appunto, di costruzione della
società di giustizia, e più oltre della società fraterna. Che
risulta poi più vero e reale dei modelli di senso considerati in
passato. Quello provvidenziale, di una storia umana guidata
e costruita dalla provvidenza (si pensi ai punti nodali
dell’incarnazione e redenzione del Figlio e Cristo, alla
presenza e azione dello Spirito), un principio trascendente, una
storia fatta da Dio e non dall’uomo; accessibile solo alla fede.
Il modello razionale moderno, di una ragione e libertà
indefinitamente espansibile ed espandentesi; un principio
aprioristico, pur nella sua fondamentale verità. O il modello
marxiano e marxista, il materialismo storico–dialettico, una
storia determinata dall’evolvere del modo di produzione, cui
consegue il modo di società coscienza cultura in tutte le sue
forme; un modello che amplificava oltre ogni limite il ruolo della
base economica e pretendeva derivarne l’intera storia umana.
Sulla cui linea si poneva Bloch. Mentre il processo utopico,
il progettarsi e costruirsi della società di giustizia attraverso
movimenti di popolo, movimenti religiosi di salvezza e movimenti
rivoluzionari moderni, si enuclea dalla storia stessa, è
semplicemente storia. Un filo di storia ch’è insieme il senso
della storia intera.
Questa storia è un fondamento di speranza,
il fondamento della nostra speranza per l’umanità. Per il
passato stesso, tanto inumano, che in questo filo di storia si
redime; la sua inumanità trascesa da questa più profonda e
decisiva tensione umana; inumanità portata provocata dai
marginali ceti dominanti ingiusti, mentr’era umana e più
decisiva la tensione popolare verso la società di giustizia,
tensione della stragrande maggioranza, della quasi-totalità;
tensione che diventava progetto, profezia, annunzio, costruzione;
che via via andava abbattendo l’inumano.
Per il presente la consapevolezza di ciò che
negli ultimi tre secoli si è costruito, di ciò che si sta
costruendo; attraverso le rivoluzioni moderne, la lotta della
classe operaia, il suo sacrificio, i movimenti, gli apporti
innumerevoli; di cui noi già ora godiamo. Una condizione
incomparabilmente più umana; pur nella consapevolezza dei
limiti, di quanto resta ancora da compiere. Perciò proprio in
questa nostra età, e proprio tra noi, popoli d’Occidente, il pessimismo
e scetticismo storico diventa difficile a capirsi. Se non,
forse, per una scarsa conoscenza e comprensione della storia; e
per quello stato di crisi e crollo ch’è proprio dei filosofi e
intellettuali postmoderni. E però il timore penetra e
pervade anche la coscienza popolare. Speranza e timore; timore
laddove dovrebb’esserci speranza. I motivi tuttavia non mancano,
anche se sono contingenti, non toccano il grande fondamento
storico della speranza. A cominciare dalla precarietà,
dall’oscillare e tremare dell’esistenza nell’incertezza del
posto di lavoro, incertezza e scarsità del reddito, povertà. E là
dove il posto di lavoro è sicuro e il reddito è buono altri
fattori intervengono, come la criminalità organizzata che
perseguita commercianti e imprenditori, la piccola criminalità in
agguato, droga e prostituzione che molestano il quartiere,
invasione d’immigrati (così purtroppo è sentita). E però
anche nelle zone tranquille, nelle piccole città tranquille il
timore penetra gli animi; più che la speranza. Perché? Chi sono
i portatori del timore? Certamente i mass media, giornali e
televisione, che di timore si nutrono, di crimini incidenti
catastrofi, di ciò che attrae l’attenzione impaurendo;
coltivano il male trascurando il bene, che pensano non faccia
notizia. Più oltre i poteri consolidati –capitale,
partitocrazia, chiesa–, legati alla conservazione; che il timore
favorisce, trattenendo, immobilizzando. È necessario che contro
questi portatori di timore si rafforzi la personalità, la
cultura, la capacità critica e creativa; capacità di resistenza,
di lotta, volontà di libertà. È necessario che si sviluppino
nuovi movimenti di liberazione.
Ma questo percorso storico costituisce anche
una garanzia per il futuro: il percorso di tre millenni, la
costruzione portata innanzi per tre secoli. È quindi il
fondamento della nostra speranza nel presente-futuro, della
nostra fiduciosa certezza. La categoria della speranza è stata
introdotta da Bloch, che le ha consacrato la sua monumentale
pletorica opera Il principio speranza (Frankfurt a.M.,
1953-59). Era una grande intuizione, che compensava l’altra
fondamentale categoria e intonazione esistenziale, l’angoscia,
il risentirsi nella psiche e nella coscienza del nulla d’uomo;
la compensava nel risentirsi dell’essere di questo nulla,
della sua capacità operativa costruttiva redentiva; di quanto di
fatto ha costruito e redento. Questa speranza e fiduciosa certezza
ci conforta nel travagliato cammino dell’esistenza e della
storia, ci dà forza; ci sospinge all’impegno, ci sostiene
nell’impegno. Per la società di giustizia: impegnati a
costruirla, a coedificarla.
II. Il movimento per la società di giustizia e
per la speranza
1. Le sue origini
La prima idea del Movimento si presenta a Lecce
nel gennaio del 1998, al seguito di un dibattito, "La società
di giustizia. Ciò che possiamo e dobbiamo sperare"; uno dei
molti dibattiti che andavo tenendo in quei mesi, dopo l’uscita
del volume L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una
storia; dopo che avevo capito che non si trattava più
soltanto di un libro ma di un messaggio: la società di
giustizia, la sua costruzione, il senso della storia umana,
l’aprirsi di una speranza per l’umanità. Che il messaggio
doveva essere comunicato, portato alla gente, portato ovunque e
comunque. Il volume proveniva da una ricerca di quasi vent’anni,
condotta in una comunità di ricerca, un gruppo che da molto tempo
lavora insieme, luogo di scambio e circolazione d’idee, di presa
critica, di stimolo alla creatività; il Gruppo e Centro
interdipartimentale di ricerca sull’utopia dell’Università
di Lecce.
La prima idea del Movimento si presenta tra la
gente stessa, tra persone che discutevano dopo il dibattito,
avendone percepito la forza. L’idea che il messaggio doveva
anzitutto essere discusso ancora per capirlo a fondo, sentirlo,
viverlo, farne un principio di azione nella società, principio
d’impegno ad ogni livello; e doveva essere poi diffuso affinché
molti potessero capirlo e viverlo, affinché la speranza fosse
partecipata a molti. L’idea di un movimento: fatto di
persone che si riunissero per discutere i problemi della società
di giustizia ai diversi livelli, e per nutrire in sé la speranza
di fronte alle difficoltà; per aiutarsi a operare secondo
giustizia nell’esistenza, nella vita associata, nella
professione; per contribuire a costruire istituzioni di giustizia.
Si riunissero mensilmente, quindicinalmente; in gruppi locali,
nelle città, nei paesi. Questo progetto fu dibattuto in diverse
sedi fino a che si giunse a stendere il documento base del
movimento, ch’è anche documento di adesione. Il cui testo è il
seguente.
2. Il documento di fondazione e di adesione
IL MOVIMENTO PER LA SOCIETÀ DI GIUSTIZIA E PER
LA SPERANZA
Si costituisce al seguito di alcune fondamentali
convinzioni:
che l’intera storia umana persegue, pur tra
tante difficoltà, il progetto di una società di giustizia;
che dalla Rivoluzione inglese in poi, cioè da tre secoli, la
sta costruendo;
che questo cammino della storia costituisce in
certa misura una garanzia che la costruzione continui per il
futuro;
e fonda per l’umanità intera, per tutti noi,
la speranza, una visione del passato, come del presente e
del futuro, che ci conforta, ci dà forza, ci spinge
all’impegno.