Il giornalista che non volle più scrivere
di Piero Antonio Toma
Forse se le ricorda ancora quelle quattro
cifre:“8017” a distanza di 63 anni, giusto il 3 marzo di quest’anno.
Quella notte perirono asfissiati in una galleria sul tratto
Napoli-Salerno-Potenza 516 passeggeri. Fu la più grande catastrofe
ferroviaria del mondo, commentò dieci anni dopo su L’Europeo
ricostruendone in tre puntate magistrali il tragico epilogo.
Ma fu anche il disastro meno “raccontato”. A quei
tempi la guerra era ancora il fiato che alitava sul collo di tutti, ma
erano i suoi postumi fra città distrutte e ponti crollati a rallentare
il ritorno alla normalità. Se ne occupò di sfuggita soltanto il
quotidiano Il Risorgimento di Napoli (che per disposizione degli
Alleati era stato fondato per sostituire i tre storici giornali,
colpevoli di connivenze col fascismo, Il Mattino, il Roma
e il Corriere di Napoli). A leggerle quelle pagine del
settimanale si rimane ancora come soggiogati dall’acutezza delle
descrizioni tanto che al lettore pare di assistere a un agghiacciante
documentario cinematografico. La sua penna aveva questo di eccezionale,
agile e immediata, come poche.
Di articoli ne ha firmati a migliaia su importanti
quotidiani italiani (da La Nazione di Firenze a Il Messaggero
di Roma)). Ma i suoi tempi per le numerose inchieste li aveva trascorsi
con i grandi settimanali, da Panorama a Oggi a Famiglia
Cristiana. Compresa Epoca della Mondadori nel cui ufficio
napoletano al primo piano all’angolo fra via Cervantes e via dei
Fiorentini, egli batteva elegante e forsennato sulla Olivetti 22, quella
che lo seguivanei suo viaggi di inviato. Lo conobbi lì, mentre
tambureggiava senza levare il viso dalla tastiera. Stetti a osservarlo
divertito. Scrisse tre cartelle difilato. Non perse tempo nemmeno a
rivederle spedendole con un fattorino alla Posta centrale dove, al
secondo piano, presso l’Emeroteca Tucci (la biblioteca-archivio dei
giornali) esisteva una postazione di Radiostampa, la stazione
radiotrasmittente direttamente collegata con i giornali. A metà degli
anni ‘70 lo rividi al Corriere di Napoli, diretto da Albo Bovio.
Era quest’ultimo il periodo in cui c’incontravamo
spessissimo al Circolo. Credo che sia riferibile a lui la paternità
dell’espressione “Villa al mare”: alla quale invitava, gloriandosene,
i colleghi giornalisti di passaggio a Napoli. Un conversatore pari al
giornalista, di classe, arguto, brillante, non perdeva mai il gusto
della battuta. Ma sotto la patina dell’umorismo si celava ben
mascherata quella dell’ipocondria. Combinazione peraltro usuale presso
i napoletani di un certo rango intellettuale. Aveva un’aria tutta
“understatement” del “tombeur de femmes”. Al Circolo, per quanto ne
sappia io, la sua presenza era ed è una di quelle piacevolmente
condivise da tutti. Una di quelle figure che arricchiscono un sodalizio.
Il quale, pour dovendo e volendo vivere di sport, si è spesso ornato di
qualche accessorio culturale.
Non so a quale epoca, dopo la pensione, risalga la
sua rinuncia a rimettersi davanti alla macchina per scrivere (o al
computer). Cioè un paio di decenni fa. E non ne ho mai capito il senso.
Ricordo che agli inizi degli anni ’90 uscì Il tridente un volume
che Vittorio Paliotti gli editò e che venne presentato al Circolo della
Stampa. Era una silloge di racconti e di poesie, i primi ebbero anche
il pubblico riconoscimento di Elio Vittorini. Il quale addirittura
sembra ne abbia pubblicato uno sulla sua leggendaria rivista “Il
Politecnico”, fondata a Milano nel 1954. Giornalista, dunque, e anche
uomo di lettere. L’anno scorso ha festeggiato il suo mezzo secolo di
iscrizione all’Ordine professionale.
Non se so se l’avete capito, ma sì che lo avete
capito, sto parlando di Giulio Frisoli. Un collega che porta lustro alla
professione e alla cultura. E alla “Villa al mare. Ciao, Giulio.