Cella liscia G6
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   ANTICELLA 

       LISCIA 

           G6

                   di 

             Gennaro Francione

I SOLITI IGNOTI onlus in collaborazione con l’ASSOCIAZIONE TEATRO PATOLOGICO di Dario D’Ambrosi ha presentato al Teatro Colosseo Ridotto di Roma CELLA LISCIA G6 di PAOLO D'AGOSTINO, l'attore della banda della "Uno Bianca". In scena con Paolo D'Agostino, l'ottimo Lucio Patanè che ha partecipato all'allestimento del "Tito Andronico" di Dario D’Ambrosi al Teatro Vascello. Il disegno delle luci,  realizzato da Danilo Facco.

  Paolo D'Agostino ha  trascorso la maggior parte della sua giovinezza in carcere. Dopo varie esperienze con Dario D'Ambrosi e il Teatro Patologico, dopo aver lavorato in vari film come "Il Compagno" di Citto Maselli e "Terra di nessuno" di G. Giagni, rappresenta il dramma che ha vissuto in prima persona nella cella liscia ovvero la cella d'isolamento, prospettandoci gli esiti della sua ricerca  su una diversa percezione del tempo: per l'uomo libero il tempo è vita, è spazio, il significato di tutto; il tempo è ridotto all'essenza, alla sua limitatezza schiacciante, senza nessuna finzione, per l'uomo rinchiuso.

Dopo l’originaria versione monologante, rappresentazione di una solitudine assoluta, D’Agostino nella sperimentazione antiartistica dell’opera riapribile all’infinito, ha ora proceduto a costruire lo spettacolo su due solitudini. Due uomini da anni vivono rinchiusi dentro in una cella liscia, di cui si sono perdute sinanche le chiavi, dove niente è a portata di mano e non è permesso nessun tipo di colloquio con altri detenuti: un posto insomma dove lo Stato gioca al gatto e al topo con i più duri.

   E del topo ingabbiato D'Agostino ha le movenze. Impressionante il suo zigzagare come alla ricerca perenne di una via d'uscita che non c'è. Ci ha raccontato che quell'azione cinetica non è stata creata per la scena, ma è frutto degli anni di cella e dello spazio limitato in cui è stato  costretto a vivere. Ancora oggi a casa sua, pur avendo spazio a disposizione, si trova a fare movimenti automatici coatti, come se avesse attorno solo uno spazio ristretto e irrefragabile.

Nella pièce la ricerca di una libertà fisica che non c'è  si trasforma presto in una vana caccia a  una libertà spirituale che il carcerato cerca col compagno di cella liscia, usando le  uniche armi a disposizione: l'emozione e il sogno.

Naturalmente il carcere è una metafora della vita umana. Vivere a uno o a due, sempre il soma, il corpo, come aveva descritto Platone, è un carcere che c’incastra. C’ingabbia il corpo fisico ma anche  quello sociale che nel bene  e nel male tende a comprimere la nostra libertà, le nostre emozioni, le nostre passioni.

Ecco allora il canto dell’artista che, schiavo comunque, fuori o dentro il carcere, tenta il suo inno di libertà e di riscatto attraverso l’arte, nel caso di Paolo antiarte drammaturgica.

Ecco allora il canto di Paolo che fora la cella liscia della sua schiavitù per librarsi come un uccello verso il cielo, pur avvertendo il peso reale del suo essere pesce, preso nella rete con occhi grandi e senza ali.  Il pesce si ricollega al messaggio di Cristo in croce, allegoria che nel riadattamento D'Agostino usa  a piene mani(originariamente la pièce monologava sul destino), raccontando della crocifissione del Salvatore e identificandosi col peggiore dei ladroni laterali. "Fare rapine è come portare una croce" urla il dannato, identificandola poi trasgressivamente col "cesso di cella" che si porta in spalla, in linea con Dostojevsckij il quale, carcerato in Siberia, ebbe  a rilevare che la prima vittima del delitto è proprio chi lo ha commesso.

Leggiamo nel dépliant: “Affrontare un tema così complesso e interessante come la percezione del tempo all'interno del carcere, ha dato modo all'autore di  aprire uno spiraglio verso la realtà all'interno della vita di un detenuto. Il tempo, che caratterizza la condanna, diventa un elemento drammaticamente presente nella quotidianità della detenzione. Da una parte il carcere è l'immaginario costruito intorno ad un luogo per definizione separato dal vivere sociale, al quale si riesce a pensare solo al negativo, per sottrazione di tutto: dalla libertà all'identità, al tempo. Insomma il carcere come l'altro mondo, privo di sensazioni, di movimento, di ore. Dall'altro lato la "società" e l'immaginario che si è costruito intorno ad un luogo dove tutto assume il carattere della fretta, della frenesia e dell'urtarsi scomposto della folla”.

   L’uscire fuori da se stessi, dalla propria solitudine, anche nel vivere civile è sempre arduo.

     Impresa disperata per chi si è posto ai margini del sociale.

     Impresa riuscita a D’Agostino che,  dopo le amare vicissitudini del crimine, della prigione, della cella liscia ha cercato il suo riscatto nell’antiarte, trovandolo a pieno.

    L’Antiarte e l’Eugius(Unione Europea dei Giudici Scrittori) plaudono a Paolo che dà la forza di continuare nel discorso sulla rifondazione del sociale attraverso un nuovo dialogo coi devianti. Le associazioni  portano avanti nel vivere civile un progetto primario di Diritto  medicinale - in linea con l'emenda prevista dalla Costituzione – contro  l'attuale diritto penitenziale, considerando i devianti come deboli da  curare, da aiutare,  soprattutto con l’antiarte salvifica, in uno spirito che fu proprio di san Francesco d'Assisi che andò a  mani nude nella foresta per incontrare il lupo e farlo fratello.  

  Nella pièce D'Agostino lamenta che il Salvatore un criminale ha salvato e un altro l'ha spedito all'inferno. Accogliamo il suo urlo di dolore e riavviamo l'uomo verso una strada di redenzione degli sfortunati, con la pratica di un'autentica, francescana, fratellanza.

     "Cella Liscia G.6". Una mis en scène   da vedere, un testo da  da meditare, un’impresa umana da elogiare.