Scarpe incarcerate
Home Up Onu Utopico L'Angelo di Temi Iusentropia Liberazione Arte Tookie Deadman talking E-mail dal carcere Cella liscia G6 Angelo Maso Chico Forti Scarpe incarcerate Tamburi sanzionatori Riforma Sharia Frontiera Droga Frontiera Prostituzione Gogna mediatica Pacchetto sicurezza Giudice di Quartiere Macchina scopridelitti Nuova Gogna

 

Fila di scarpe incarcerate*

 

Dormono i prigionieri.

Una vecchia coperta di illusioni

copre il loro corpo spento.

 

Ecco le loro scarpe appisolate in fila

con fedeltà infangata di cani.

 

Ecco le opinghe. Non ti ricordano le zolle dei campi?

Stivali screpolati

che continuano ad essere ostili

agli stivali militari.

Pantofole morbide, morbide

e si comportano

con eccessiva educazione in carcere

 

Scarpe cittadine

che avete conosciuto scarpe di donne

negli appuntamenti,

che avete danzato,

che avete sfavillato nei boulevards,

che siete entrate nei drammi,

ora abbandonate,

siete l’epilogo del dramma più grande.

 

Ecco le scarpe del delatore

con le stringhe penzolanti come la calunnia in bocca.

Meglio scalzo

e senza piedi alla fin fine,

non con queste scarpe,

non posso guardarle

non posso sopportarle.

 

Ma ci sono anche scarpe enigmatiche, fiere

(come anche ripugnanti)

scarpe che nell’anima,

e forse nella storia,

lasceranno le loro impronte.

 

Scarpe prigioniere,

la più sventurate del mondo,

stanche

bucate.

Quando la vita vi calza

torna indietro, solamente indietro.

 

 

Il sonno di chi è stato privato della libertà non è lo stato fisico provocato dalla normale stanchezza, anche se lo comprende. E’ un sonno anch’esso prigioniero, cui è impedito di sognare, di fare progetti per il futuro, di riordinare il flusso dei pensieri correnti. E’ il sonno dettato dalla necessità di sopravvivere; è la risposta all’impulso vitale, irrefrenabile, proveniente dalle cellule; è il prevalere dei bisogni della materia su ogni altra istanza proveniente dallo spirito. E’ il sonno del danno e della vergogna, direbbe Michelangelo:

“Grato m’è il sonno e più l’esser di sasso,

mentre che’l danno e la vergogna dura”.

L’esser di sasso del Buonarroti è il “corpo spento” dei prigionieri di Visar Zhiti, appena protetto da una vecchia, metaforica coperta che assorbe le illusioni di uomini che invece inseguono il sogno per realizzare l’utopia; si nutrono del sogno per raggiungere la dimensione dell’essere, dove regna assoluta la libertà insieme alla gioia di vivere, di conoscere, d’amare; si rifugiano nel sogno per farne un ultimo baluardo contro la prepotenza, l’arroganza, il dispotismo. La qualità del sogno dei prigionieri si evince dal modo in cui le loro scarpe sono “appisolate in fila”: in un ordine imposto da chi, avendo già tolto ai prigionieri la libertà, ancora li minaccia di attentare, in modo brutale, alla loro stessa vita.

Strano come delle scarpe infangate, segnate anch’esse dalle fatiche quotidiane dei lavori forzati, possano divenire così espressive, così animate, così fedeli di una fedeltà simile a quella del cane!

Dice Konrad Lorenz: “Non c’è patto che non sia stato rotto, non c’è fedeltà che non sia stata tradita, fuorché quella di un cane veramente fedele”. Tra i prigionieri e le loro scarpe “appisolate” c’è un patto segreto, che traspare soltanto a chi sa vederlo, a chi sa comprenderlo nella sua celata pienezza. Quelle scarpe sono legate alle cose intime della vita e della natura: basta guardare come le opinghe ci riportano alle zolle dei campi e a quel mondo bucolico pieno di significati di libertà, di parsimonia, di realizzazione della simbiosi col resto dell’universo. Sono scarpe condannate, torturate e per giunta screpolate: sono stivali che portano il segno della lotta, della fierezza della resistenza nei confronti dei loro cinici giustizieri; stivali che non si arrendono, ma che sanno bene mimetizzare l’ostilità che nutrono nei confronti degli altri stivali indossati dalla casta militare al potere. Per Visar Zhiti, la lotta contro il regime dittatoriale di Enver Hoxha non coinvolge soltanto la mente e la coscienza degli uomini liberi; essa è una lotta totale, a 360 gradi: coinvolge anche le scarpe, che possono così trasformarsi in pantofole “mordide, morbide, e si comportano con eccessiva educazione in carcere”.

Sono scarpe “educate” perché segnate dalla loro storia, dalle loro esperienze, dalla loro cultura. Hanno un’anima cittadina, hanno conosciuto le donne e la danza, la vita spensierata nei boulevards: sono scarpe “sociali”.

L’ingiustizia sociale ora le ha catapultate in un girone infernale, fatto di umiliazioni e di catene, di frustrazioni e di perversità, facendole divenire l’epilogo del dramma più grande che a un uomo libero possa mai capitare: l’internamento in un gulag.

Questa grande sofferenza però, questo immenso dolore, possono essere affrontati anche con dignità, come costo da pagare per la propria crescita personale, come prova per accedere a livelli di percezione più elevati. Dice Longfellow nella sua opera “Evangelina”: “Dolore e silenzio sono forti, e la paziente sopportazione è divina”. Ma c’è chi non ce la fa; c’è chi trova questo cammino insopportabile e, non potendo sfuggire al proprio destino, trova per se stesso delle difese difficili per gli altri da approvare: è la strada della delazione, che passa attraverso “le scarpe del delatore con le stringhe penzolanti come la calunnia in bocca”.

E’ la sovrapposizione di un altro grande dramma dentro lo stesso dramma. Montaigne ci dice che “la vigliaccheria è madre della crudeltà”.

Shakespeare fa dire a Giulio Cesare che “i vigliacchi muoiono molte volte innanzi di morire; mentre i coraggiosi provano il gusto di morire una volta sola”.

Visar Zhiti è chiaro su questo punto:

“Meglio scalzo

e senza piedi alla fine,

non con queste scarpe,

non posso guardarle

non posso sopportarle”.

 

Petrarca nella sua canzone “Chi vuol veder quantunque po natura” afferma: “Ch’un bel morir tutta la vita onora”.

Meglio affrontare con serenità, dunque, anche la morte, piuttosto che vivere sotto il peso della delazione e del disonore.

Quante cose, ci dicono le scarpe incarcerate del poeta albanese; e quante non ce ne dicono!

Sì, perché talune di esse sono “enigmatiche, altre fiere, altre ancora ripugnanti”. Esse segnano il cammino di ogni uomo; talvolta le loro tracce si evidenziano nell’animo umano e nella stessa Storia.

Per Visar Zhiti dunque la Storia diviene un’intrecciarsi di scarpe.

 

“Scarpe prigioniere

le più sventurate del mondo,

stanche

bucate.

Quando la vita vi calza,

torna indietro, solamente indietro.

 

Il grande filosofo Henri Bergson insegna: “La vita non procede per associazione e addizione di elementi, ma per dissociazione e divisione”.

La vita che si dissocia dalle scarpe di Visar Zhiti è dunque un processo naturale, quasi fisiologico: dissociandosi crea nuova vita.

Oltre non si può più andare: oltre c’è Dio.

 

 

Roma 10 – ottobre 2003                                                                         Costanzo D’Agostino

 

 

 

 

* La traduzione dall’albanese è stata curata da Elio Miracco, direttore della cattedra di letteratura  

   albanese all’università “La Sapienza” di Roma