Giustizia e Investigazione
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Ferdinando Imposimato
*La giustizia e l’investigazione*

http://www.scienzeinvestigazione.it/univ/lezioni/2004_2005/istituzione_diritto_penale/1/1.pdf.


Nel momento in cui inizio le mie lezioni presso la Università degli
Studi di L'Aquila,
affido agli studenti, ed ai docenti che mi hanno concesso la loro
fiducia — primi tra
tutti il professor Francesco Sidoti ed il preside Claudio Pacitti, che
hanno avuto il
coraggio di osare – queste mie brevi riflessioni, rivolgendo lo sguardo
verso il
passato, al ricordo di Maestri da cui ho cercato di attingere utili
insegnamenti per la
mia vita. Ma i miei limiti sono enormi. Per questo, sul mio tentativo di
trasmettere le
mie conoscenze ai giovani, non posso accampare alcuna pretesa di
autorevolezza. Da
profano, ho preso il coraggio di esporre opinioni unicamente fondate
sull'esperienza
personale e sulle convinzioni personali.
L'Università è sempre stata il mezzo più importante per tramandare da una
generazione all'altra la ricchezza della tradizione. Oggi questo è
ancora più vero che
nel passato perché, con il moderno sviluppo della vita economica, la
famiglia, come
portatrice della tradizione e dell'istruzione, si è indebolita. La
continuazione e la
salute della società umana dipendono quindi in grado più elevato che in
passato
dall'insegnamento.
Il mio desiderio è non soltanto suscitare l’amore per il diritto penale
e per la ricerca
della verità, ma anche di sviluppare nei giovani quelle qualità e
capacità umane che
sono utili al benessere della comunità. Il mio sogno è quello di
concorrere con gli
altri docenti alla formazione di individui che pensino ed agiscano in modo
indipendente, pure avendo nel servizio della comunità il proprio più
alto compito
ideale. Ma dovrei sforzarmi di conseguire questo ideale con discorsi
moralistici?
Niente affatto. Le parole sono e restano vacui suoni, e la strada per la
perdizione è
stata sempre accompagnata da false proclamazioni di devozione ad ideali. La
personalità non si forma con quello che si sente e si dice, ma con
l'applicazione e
l'azione.
Altro obiettivo che desidero raggiungere è quello di persuadere i
giovani che essi non
debbono avere come scopo o come scopo prevalente della vita, il
successo. Perché
l'uomo di successo è di regola quello che riceve moltissimo dal proprio
prossimo, in
genere molto più del servizio da lui prestato al prossimo. Il valore di
un uomo,
invece, va valutato in ciò che da, non in ciò che riesce a farsi dare.
La motivazione più importante per chi studia e per chi insegna è il
piacere del lavoro,
il piacere dei suoi risultati e la consapevolezza del valore di tali
risultati per la
comunità: /Ars gratia artis/. L'insegnamento deve destare e consolidare
tali forze
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psicologiche nei giovani, temprandoli e suscitando l'amore per la
ricerca e per la
verità. Solo un tale fondamento psicologico conduce ad un gioioso
desiderio dei più
alti beni umani: la conoscenza e la capacità artistica. Ed ecco alcune
considerazioni
sulla giustizia e sulla legge, cui ho dedicato gran parte della mia vita.
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*Giustizia ed etica*
La giustizia generalmente viene considerata dal punto di vista morale.
Essa è intesa
come virtù individuale e collettiva. E consiste, secondo Ugo Grozio nel
nutrire per il
prossimo l'amore, il rispetto e la stima che per noi è appropriato
nutrire nei suoi
confronti. Questo senso della giustizia si concretizza nell'appropriata
beneficenza,
nell'uso idoneo di ciò che è nostro, nel votarlo a quegli scopi di
carità o generosità a
cui nella nostra situazione è più adeguato devolverlo. In questo senso
la giustizia
coincide con la solidarietà sociale.
Ma vi è ancora un altro senso in cui si intende la parola giustizia.
Essa per Platone
consiste nella perfetta e rigorosa appropriatezza di comportamento e
condotta e
comprende le virtù della prudenza, della fortezza, della temperanza e della
intelligenza. In questo senso Platone ritiene che la giustizia comprende
in sé ogni
sorta di *virtù*.
Il concetto di giustizia può essere dunque usato in molti modi e in
molti significati. Il
padre dell'economia classica Adam Smith, nella /Teoria dei sentimenti
morali/,
considera la giustizia come una "virtù", la cui osservanza non è
lasciata alla libertà
del volere, "ma può essere imposta con la forza" e la cui violazione rende i
responsabili passibili di risentimento e quindi di punizione.
Per Smith ciò che caratterizza la giustizia è la sua imperatività: ci
sentiamo sottoposti
ad un obbligo ad agire in un certo modo secondo giustizia che invece non
sentiamo
secondo amicizia, carità o generosità. La pratica di queste ultime virtù
è in qualche
misura "facoltativa" mentre ci sentiamo particolarmente vincolati,
costretti, obbligati
ad osservare la giustizia. Sentiamo cioè - dice Smith - che con la massima
appropriatezza e con l'approvazione degli uomini si potrà usare la forza per
costringerli ad osservare le regole della giustizia, ma non per
costringere a seguire i
precetti di carità e generosità.
Come si vede, questa concezione della giustizia contiene in sé
l'elemento del
comando, con la possibilità di imporla con la forza, a differenza delle
altre virtù. Per
coloro che ritengono *il comando - dalla radice ius - *l'essenza della
giustizia, non vi
è identificazione tra giustizia e virtù, ben potendo accadere che si
sarà costretti ad
applicare una legge ingiusta sul piano dell'etica. Poiché l'attuazione
della giustizia è
qualcosa che gli uomini non accetteranno mai gli uni dagli altri, come
giustizia
privata, interviene il magistrato che deve impiegare il potere della
comunità per
imporre la pratica della giustizia.
Senza questa precauzione la società civile diverrebbe teatro di
disordini e di
spargimenti di sangue, ed ognuno si vendicherebbe con le proprie mani ogni
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qualvolta immaginasse di essere stato offeso. Per evitare la confusione che
seguirebbe se ogni uomo si facesse giustizia da sé, il magistrato si
impegna a fare
giustizia a tutti riparando ogni torto.
Alla fine Smith riconosce che la giustizia è *uno strumento *per
risarcire colui che ha
subito un danno. Essa consiste in un sistema di regole: «in tutti gli
stati ben governati,
non solo sono designati giudici per risolvere le controversie fra
individui, ma
vengono prescritte norme per regolare le decisioni dei giudici».
In generale si pensa che le regole che vincolano i giudici coincidano
con quelle della
giustizia naturale: uguaglianza, solidarietà, generosità. Invero esse
non coincidono
sempre. Smith osserva che «talora l'interesse del governo e l'interesse
di particolari
gruppi di uomini che tiranneggiano il governo, fanno allontanare le
leggi positive di
un paese da ciò che la giustizia naturale prescriverebbe». Per Smith,
non vi è sempre
coincidenza tra legge e morale. «In nessun paese le decisioni delle
legge positiva
coincidono esattamente, in ogni caso, con le regole che il senso
naturale di giustizia
detterebbe». Tuttavia, qualunque sia il loro contenuto, i sistemi di
legge positiva
meritano la massima autorità. La giustizia, cioè contiene in sé un
comando che, come
tale, va eseguito sempre e comunque.
Il problema del rapporto tra giustizia e morale si pone costantemente
nella pratica
quotidiana. Quando vi è contraddizione tra la legge e la morale essa non
può essere
risolta dal giudice, poiché i concetti di coscienza e di morale variano
da uomo ad
uomo e quindi da giudice a giudice. Conosco individui che ritengono
eticamente
giusta la violenza sessuale sulle donne ed altri che la ritengono un
delitto gravissimo
da punire con la morte. Questa diversità di opinioni si riflette anche
nell'amministrazione della giustizia.
In nessuno degli antichi moralisti troviamo alcun tentativo di una
particolare
enumerazione delle regole di giustizia naturale. Nelle leggi di Cicerone
e Platone,
dove sarebbe logico attenderci l'elencazione delle regole dell'equità
naturale che
dovrebbero essere imposte dalle leggi positive di ogni paese, non si
trova però nulla
del genere.
Nessuna *società *può esistere senza la giustizia, intesa come
applicazione della legge
positiva che può non coincidere pienamente con i principi dell'etica. La
beneficenza -
dice Smith- è meno essenziale della giustizia alla esistenza della
società. «La società
può esistere senza beneficenza, pur non nello stato più confortevole: ma
il prevalere
dell'ingiustizia la distrugge totalmente».
La giustizia viene considerata da Smith essenzialmente come strumento
diretto a
garantire l'ordine e la sicurezza delle persone. La beneficenza è
l'ornamento che
abbellisce l'edificio, non il fondamento che lo sostiene. La giustizia,
invece, è il
principale pilastro che sorregge l'intero edificio della società. Se
viene rimosso il
pilastro giustizia, la società umana in un attimo si sgretolerà in
singoli atomi. La
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società non può esistere se le leggi della giustizia non vengono osservate a
sufficienza. L'ingiustizia tende necessariamente a distruggere la società.
Il concetto di giustizia inteso come bene supremo dei cittadini venne
elaborato da
Socrate. Nel dialogo con l'amico Critone, che di fronte ad una *condanna
ingiusta*, lo
esortava a fuggire dal carcere con la complicità di giudici corrotti, il
grande filosofo
reagisce esaltando la sacralità della legge e della giustizia che
applica la legge, sia
quando è giusta sia quando cade nell'errore. "Non si deve rispondere ad una
ingiustizia con un'altra ingiustizia, né far del male a nessuno,
qualunque offesa si sia
ricevuta". Dinanzi alla prospettiva offertagli di fuggire dal carcere,
dove attendeva la
condanna a morte, Socrate dice a Critone: "Supponi che mentre stiamo per
fuggire, ci
apparissero le leggi e lo Stato e ci chiedessero: "Di un po', Socrate, a
cosa tendi, per
quanto sta in te, se non a distruggere noi, le Leggi e lo Stato insieme,
compiendo
questa fuga?. Pensi proprio che possa sussistere ancora, senza che veda
sottosopra,
quello Stato le cui leggi siano rese inefficaci, calpestate e inutili da
cittadini privati?
Cosa rimproveri a noi e allo Stato, che tu hai intenzione di
distruggere? Non è forse
innanzitutto grazie a noi che sei nato? Non siamo stati noi a presiedere
al matrimonio
di tuo padre e di tua madre che poi ti generarono? Rispondi, hai da
obiettare qualcosa
contro quelle leggi che regolano i matrimoni? E contro quelle istituite
per provvedere
all'infanzia e all'educazione, quella che tu stesso hai ricevuto?…".
Socrate esorta Critone a rispettare le leggi e la giustizia che le
applica assimilando le
une e l'altra al bene supremo della patria. "Ma se sei così sapiente da
non sapere che
la patria è molto più nobile, più rispettabile e più sacra della madre e
del padre e di
tutti i nostri avi e che è molto stimata sia dal dio che dagli uomini di
sano intelletto,
che bisogna avere rispetto e venerazione, calmarla quando è in collera,
più ancora del
padre, persuaderla dei suoi errori e ubbidire ai suoi comandi e
sopportare ciò che essa
ci ordina di sopportare, maltrattamenti, carcere ... e fare sempre quel
che la patria
comanda oppure, al massimo, cercare di convincerla da che parte è la
giustizia, ma
non opporsi ad essa". Dunque l’accettazione della legge e della
giustizia come beni
supremi da difendere in ogni caso, poiché difendendo loro, difendiamo la
democrazia, la libertà, il progresso, la convivenza. Anche se abbiamo il
diritto di
criticarle per i loro errori.
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*Giustizia e processo*
Socrate ed il suo allievo Platone sapevano che una cosa è la giustizia
intesa come
virtù etica, altra cosa è la giustizia nella quale ci imbattiamo tutti i
giorni con le sue
lungaggini, i suoi errori, le sue astrusità, il suo costo, la sua
imperfezione. E di questo
siamo ben consapevoli anche noi, poiché nulla è cambiato in questi 2.500
anni di
vita: la giustizia è sempre imperfetta, fallace, lenta, ben diversa da
quella cui
aspiriamo.
Nella pratica quotidiana ci rendiamo conto del distacco tra la giustizia
quale è e
quella che dovrebbe essere nelle aspirazioni di tutti. E qui il campo
della nostra
riflessione diviene così ampio che appare necessario limitare la nostra
analisi ad
alcuni aspetti essenziali del problema, quelli che riguardano la
giustizia come
processo inteso come insieme di regole per affermare l'imperio della legge.
Ancora una volta ci viene in aiuto Adam Smith. Egli sostiene che la
giustizia richiede
la determinazione con la massima esattezza delle regole per
amministrarla. Smith
coglie *la diversità tra giustizia e giudizio*, tra giustizia e
processo, affermando come
la prima non possa esistere senza che siano determinate con estrema
precisione le
regole del secondo. Ma le regole della giustizia non possono essere
lasciate al
giudice: devono essere fissate per legge dal Parlamento con la massima
precisione. E
non possono ammettere eccezioni o modifiche se non quelle che sono formulate
altrettanto chiaramente quanto le regole stesse e che in generale
discendono dagli
stessi principi da cui discendono le regole.
Sebbene possa sembrare formalismo pedante e inopportuno ostentare una troppo
stretta adesione alle comuni regole della prudenza, non v'è alcuna
pedanteria
nell’aderire saldamente alle regole della giustizia. Anzi -riconosce
Adam Smith - alle
regole della giustizia è dovuto il più sacro rispetto e «le azioni che
tale virtù esige non
sono mai compiute così appropriatamente come quando il motivo principale per
compierle è un riguardo reverenziale e religioso per le regole generali
che le
impongono».
In altre parole per Smith la giustizia si realizza attraverso un sistema
di regole
inderogabili, poste al giudice nell'applicazione della legge. E sarebbe
improprio
considerare il fine della giustizia come virtù che prevale sulla regola
che quel fine
intende perseguire. Il giudice che applica rigorosamente le regole del
processo e
aderisce con la più ostinata fermezza alle regole generali è il più
lodevole e affidabile
dei giudici. Sebbene il fine delle regole di giustizia cioè del processo
penale, civile o
amministrativo sia impedire di far del male al prossimo o di risarcire
la vittima del
male subito, sarebbe un crimine violarle, anche se potremmo sostenere
con qualche
pretesto che tale particolare violazione non solo sia innocua ma sia
addirittura
necessaria per la giustizia "sostanziale", cioè la giustizia intesa come
etica o come
bene comune.
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Nel momento in cui il giudice pensa di allontanarsi da una adesione
assoluta e
vincolante a ciò che gli inviolabili precetti gli prescrivono, non ci si
può fidare di lui e
non si può più dire a quale grado di colpa e di arbitrio egli possa
giungere.
E sarebbe pericoloso giustificare con ipocrite parole nobilitanti
(interpretazione
evolutiva, giustizia sostanziale) le manipolazioni delle regole da parte
del giudice. Il
rischio sarebbe quello di affidare la scelta del "bene" che si vuole
perseguire con la
giustizia e delle regole ai mutevoli umori degli uomini. Ma la scelta
delle regole del
processo necessario per amministrare giustizia è compito del legislatore
e richiede
l'adesione ad alcuni principi fondamentali che siano rispettosi dei
diritti umani.
Attraverso il processo, l'ordinamento di ogni paese vuole perseguire
contemporaneamente tre obbiettivi: garantire la giustizia, promuovere il
bene comune
e rispettare la certezza del diritto. Abbiamo visto come questi tre
concetti spesso sono
incompatibili tra di loro. Ogni sistema democratico moderno considera
inalienabili
ed insopprimibili alcuni diritti della persona umana e quindi il loro
riconoscimento
nei confronti dell'individuo è irrinunciabile.
C'è chi intende la giustizia come lo strumento attraverso il quale si
persegue il bene
comune, inteso come interesse generale della comunità al cui servizio
devono essere
la certezza del diritto e la stessa giustizia. Ma il problema è la
impossibilità di dare
una definizione unitaria e condivisa da tutti del *bene comune*: per
alcuni è la difesa
dei deboli contro le ingiustizie dei potenti, per altri è il prevalere
della forza sulla
debolezza, per altri il comunismo, per altri il capitalismo, per altri
il liberal-
socialismo, per altri ancora il fascismo. Adattare la giustizia a
ciascuno di questi
differenti modi di concepire il bene comune produce l'arbitrio, il quale
nasce dal
conflitto di opinioni, mentre il diritto non può essere lasciato alla
diversa concezione
dell'assetto della società.
Il *compito del giudice *non è quello di ricercare il bene comune o di
perseguire la
giustizia sociale ma di applicare la legge come comando, qualunque ne sia il
contenuto. Affidare l'interpretazione della legge alla ragione, al bene
comune o alla
coscienza dei singoli o dei gruppi significa assumere parametri molto
incerti che
variano da persona a persona e da gruppo a gruppo. C’è chi pensa sia
grave uccidere
una mosca poiché si turba l'equilibrio naturale e chi giustifica
l'uccisione di milioni di
uomini per il progresso dell'umanità. C'è chi pensa di dover rispettare
i beni degli altri
e chi invece ritiene che se una persona ha molto denaro, sia giusto
sottrargliene una
parte anche con la forza con buona coscienza e per il bene comune. C'è
chi pensa che
sia nell'interesse generale lavorare e pagare le tasse e chi invece
ritiene che la fatica
sia umiliante per gli uomini superiori e che tutto sia loro dovuto per
ragioni di censo
o di razza. Per alcuni il furto è considerato un delitto molto più grave
della
corruzione, che per altri va punita con la pena di morte. E così di seguito.
Si comprende agevolmente come il diverso modo di sentire le cose e di
stabilire i
valori porta a concezioni diverse e spesso diametralmente opposte della
legge e della
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giustizia. Esse variano da soggetto a soggetto e da giudice a giudice,
mentre invece
sentiamo che debbono essere fisse ed immutabili le regole attraverso le
quali si
amministra la giustizia.
Si tratta di un problema di grande rilevanza pratica poiché riguarda un
principio
fondamentale di ogni sistema giuridico quello della immutabilità del comando
espresso dalla legge. Che rende possibile realizzare l'obbiettivo che la
legge è uguale
per tutti. Nessuno può essere più saggio della legge che deve applicare:
"/neminem/
/oportet legibus esse sapientiorem/" sicché deve essere condiviso
l'insegnamento di
Seneca: “/lex iubeat, non disputet/" la legge deve comandare non
discutere. Insomma
non è la saggezza ma l'autorità che fa la legge. Se si fondasse il
diritto sulla saggezza,
sulla ragione, si potrebbe dire, contro qualsiasi legge, anche la più
giusta sul piano
etico, che essa è contro la ragione e trarre da ciò un pretesto per
disapplicarla. Diceva
Tommaso Hobbes, riaffermando il valore della legge come comando; «Io non
stetti
molto a ricercare quale di esse fosse più o meno razionale e giusta,
perché le studiavo
non per discutere con esse, ma per obbedire ad esse, ed in tutte
riconoscevo un
sufficiente motivo per la mia obbedienza e vedevo che il motivo stesso
rimane con il
mutare della legge».
Certo non possiamo non porci l'obiezione di chi si trova di fronte ad
una *legge*
*eticamente ingiusta*, contraria all'interesse generale e protesa verso
la difesa del bene
individuale, di beni corporativi contro il bene comune. E un'ipotesi
ricorrente nella
storia del nostro secolo. Basti pensare alle leggi di Hitler o a quelle
di Stalin per
rendersi conto che molto spesso il contenuto della legge è contro il
senso di giustizia
che è anzitutto libertà e rispetto dei diritti della persona umana.
Ma neppure in questo caso la legge può essere modificata dal giudice
neppure con il
pretesto dell'interpretazione evolutiva della legge in vista del bene
comune. I giudici
debbono essere al servizio della legge e non dell'etica. E nel caso di
conflitto tra legge
ed etica, debbono privilegiare la prima. Poiché la legge è comando, /ius/.
A modificare l'assetto delle leggi ingiuste non può provvedere il
giudice ma il popolo
attraverso i suoi rappresentanti ispirandosi a valori come la giustizia
sociale, il bene
collettivo, la difesa dei più deboli e la solidarietà. Questi valori non
possono perciò
essere il pretesto per lo stravolgimento del diritto da parte di chi è
tenuto ad
applicarlo. Poiché coloro che si rivolgono al giudice lamentando la
lesione del diritto,
non debbono essere sottomessi alla ignota, arbitraria, incerta ragione
di determinate
singole persone, dovendosi ritenere che gli uomini saggi in tutti i
tempi si sono
accordati su certe sicure leggi, regole e sistemi. Un diritto certo ha
lo svantaggio che
singole persone debbano soffrire il rigore della legge, ma la
collettività soffrirebbe
infinitamente di più gli svantaggi di una legge affidata alla arbitraria
e incerta volontà
degli uomini.
A ben riflettere, il fenomeno della cosiddetta giustizia politica, che è
negazione della
giustizia e fonte di gravi pericoli per l'esistenza stessa della
democrazia, è stato
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sempre l'effetto di arbitraria applicazione della legge. Poiché una
stessa norma
incriminatrice riceve diverse contrastanti applicazioni rispetto ai
medesimi casi.
E questo può comportare la distruzione di alcuni soggetti politici e la
salvezza di altri
in nome del perseguimento del bene comune o della giustizia come valore.
Basta 1'
applicazione o disapplicazione dello stesso comando nei confronti di
individui diversi
per provocare conseguenze devastanti per la civile convivenza. Questo
metodo è
inammissibile anche se, in astratto, è rivolto a realizzare superiori
esigenze di
giustizia poiché queste non sono facilmente definibili. Mentre è certo
che viola un
principio fondamentale di tutti gli ordinamenti giuridici: /la legge è
uguale per tutti/.
Invocare la coscienza per giustificare l'applicazione o la violazione di
una legge
significa affermare la inesistenza della legge ed ammettere la
possibilità di violare
ogni norma che non piace con il pretesto che essa urta contro la
coscienza individuale
o collettiva. La negazione della validità di una legge il cui contenuto
non piace è
anche un mezzo per istigare il popolo alla disobbedienza. Volendo
sintetizzare il
concetto di giustizia si può dire con Francesco Bacone che essa è /ius
dicere /e non /ius/
/dare, /applicazione della legge al caso concreto e non creazione del
diritto.
La giustizia è, dunque, in definitiva *un sistema di regole *che
confluiscono nel
processo penale il cui obiettivo primario è quello di applicare
l'ordinamento giuridico
il cui fine dovrebbe essere il bene comune. Per molti cittadini questo
consiste nel
conciliare la difesa della società e dei singoli cittadini con la tutela
dei diritti di
libertà.
Ma non è facile raggiungere questo delicato equilibrio. Spesso si
legifera con norme
liberticide sotto la spinta emotiva della lesione violenta dell'ordine
democratico, o,
viceversa, con norme permissive sotto l'influenza di un'apparente
situazione di
legalità.
In ogni paese democratico il legislatore deve preoccuparsi di creare un
sistema di
leggi stabili che tutelino i valori della convivenza democratica e
quelli degli
individui. Per questo l'attenzione deve essere dedicata anzitutto al
meccanismo di
funzionamento del processo con un insieme di regole che garantiscano il
rispetto dei
diritti fondamentali della persona, qualunque sia la fase politica
contingente, la fede
politica, la razza, e la religione dei cittadini. Da questa esigenza è
nato quell'insieme
di principi che vanno sotto il nome di giusto processo (/fair trial/).
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*Giustizia e impunità*
La giustizia viene sentita dalla coscienza sociale non solo come valore
in sé ma anche
come strumento attraverso il quale un moderno stato democratico
garantisce il diritto
dei singoli e della collettività al rispetto della legge. Ma in una
società giusta, poiché
i soggetti più forti sono garantiti da loro stessi e dalle loro
possibilità, anche di
modificare la legge a loro favore, *la giustizia dovrebbe garantire
soprattutto i*
*soggetti più deboli*, ma questo non avviene.
Dobbiamo riconoscere che non c'è fase storica, non c'è periodo della
vita dell'uomo o
di una comunità in cui non si ponga il dramma della giustizia violata
dagli uomini o
denegata dallo Stato: la Giustizia in questo caso è avvertita come
valore negativo,
come bisogno non realizzato di verità, come bene non protetto, come
ingiustizia.
Questo accade anche in tutto il mondo e nella civile Europa.
/In Belgio ho seguito come consulente delle famiglie la vicenda
sconvolgente delle/
/due bambine Julie e Melisse e di altre decine di bambine rapite,
seviziate, uccise /da
persone che agivano per conto di importanti organizzazioni il cui
compito era di
procurare creature innocenti a potenti e ricchi uomini d’affari,
politici, finanzieri, per
i loro turpi giochi erotici che si concludevano con l’uccisione delle
vittime. Sono
scomparse centinaia di innocenti sventurate creature vittime della
barbarie umana , di
una rete di criminali dediti ad ogni tipo di delitti, ben protetti e ben
introdotti in molti
di quegli ambienti che avrebbero dovuto combatterli. Quella storia
agghiacciante non
offende solo le famiglie delle vittime e la coscienza popolare dei belgi, ma
dell'Europa e di tutta l'umanità.
In questi casi la verità storica si conosce, ma spesso accade che i
pubblici ministeri fanno in modo che essa non venga alla luce e i colpevoli
non siano puniti. L’impunità crea sfiducia nei cittadini; rivolta verso
l’autorità,
crea discredito verso la giustizia, che viene vista come un nemico da
combattere.
Nella pratica quotidiana ci rendiamo conto del distacco tra la giustizia
quale dovrebbe
essere nelle aspirazioni di tutti e quella che è nella pratica di tutti
i giorni. E della
violazione del principio fondamentale di ogni ordinamento, quello della
effettività
della legge è uguale per tutti. I più pessimisti giungono a conclusioni
disperate.
La giustizia intesa come applicazione della legge al caso concreto per
molti giuristi
non corrisponde alla realtà, perché /il giudice come uomo porta in sé la
tendenza alla/
/dissoluzione dell'autorità della quale è investito/. L'esperienza -
essi sostengono - ha
tolto ogni illusione sui rapporti tra i giudici e la legge. La formula
convenzionale che
fa della legge il centro dell'esperienza giuridica, il comando
immutabile dell'autorità
di cui il giudice è l'esecutore, non inganna più nessuno. Noi sappiamo
che è il giudice
che condanna e assolve, non la legge. E per questo la sua opera è tanto
esaltata e
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maledetta come fosse dovuta alla sua volontà (vedi in proposito
Salvatore Satta, /Il/
/Mistero del Processo/).
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*L’imparzialità del giudice*
Si potrebbe essere indotti a chiedersi quali siano state le ragioni che
hanno indotto il
legislatore a fissare con legge il principio della imparzialità del
giudice, che dovrebbe
essere insito nella stessa funzione del giudicare. Questa esigenza nasce
dalla
drammatica esperienza della giustizia politica, che è negazione del
concetto stesso di
giustizia . Essa ci ha offerto non pochi casi di processi non ispirati
all'imparziale
applicazione della legge. Essi hanno suscitato nella pubblica opinione
un grande
allarme sociale. E’ accaduto in Italia ed in Belgio con il processo
Doutroux.
Da ciò deriva come tra tutte le virtù di cui il giudice deve essere dotato –
l’imparzialità, la saggezza, l'onestà, l'equilibrio-, la prima appare la
più importante: è
la fondamentale garanzia dei cittadini contro il rischio della giustizia
politica. Il
problema è eterno. /In tutte le epoche chi governa cerca di assoggettare
i giudici al/
/proprio potere /per garantirne il rafforzamento e la conservazione. I
precedenti da
citare sarebbero moltissimi. Valga per tutti il ricordo della vicenda
drammatica di
*Papiniano e Ulpiano*, che erano i vertici della giurisdizione -
qualcosa di simile alla
Corte di Cassazione - al tempo dell'Imperatore Caracalla. Chiamati
dall'Imperatore a
difenderlo dinanzi al Senato per l'omicidio del fratello Geta, si
rifiutarono entrambi di
scendere nell'agone politico. Essi preferirono essere decapitati
piuttosto che
rinunziare alla loro terzietà e indipendenza rispetto all'imperatore ed
al Senato che
erano espressione del potere esecutivo e legislativo. A questi esempi
dovrebbero
guardare giudici e governanti nella nuova Europa.
E se è vero, dunque, che il giudice è un uomo come gli altri, è vero
anche che a
differenza degli altri deve sapere reprimere le sue passioni e tenere
lontane le
tentazioni di mettersi al servizio del potere, pena l'impossibilità di
svolgere
degnamente la sua funzione.
In questa attività, /il giudice non è l'arbitro conoscitore del bene e
del male/, del
lodevole e del riprovevole, del giusto e dell'ingiusto ma /è solo colui
che applica la/
/legge/, qualunque ne sia il contenuto. E anche se conclude che il
contenuto della legge
è contrario ai principi dell'etica , ha l'obbligo di applicarla.
La giustizia non è un valore in sé, ma uno strumento che consente all'uomo,
attraverso il giudice, di conseguire di volta in volta il bene contenuto
nella legge. Il
quale non sempre è il bene della collettività. “/Non omne quod licet
honestum est/”,
secondo l'insegnamento di Ulpiano. Non tutto ciò che è consacrato dalla
legge è
onesto. Non sempre la legge risponde ai principi dell'etica. E se questo
avviene, se
una legge è eticamente ingiusta, può il giudice violarla per sostituire
ad essa ciò che
egli ritiene il bene comune, la verità , la sua concezione della
libertà? No. Neppure in
questo caso, il giudice può sostituirsi alla volontà della legge. Se lo
farà una sola
volta, se gli sarà consentito di farlo una sola volta, non sarà
possibile vietarglielo in
tutti gli altri casi in cui la sua coscienza e la sua ragione lo
spingeranno a farlo.
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*Page 13*

*Giustizia ed errore*
Bisogna anzitutto partire da un dato. Nell’esame dei diversi casi
giudiziali relativi
all’accertamento di un reato, esistono due verità antitetiche: una
verità reale e una
processuale. Queste due verità non coincidono quasi mai. L’obiettivo
fondamentale
del giudice e dell’inquirente in generale consiste nel fare emergere la
verità storica,
affinché tra questa e il giudizio finale vi sia una perfetta
coincidenza. Questo
risultato, tuttavia, difficilmente viene raggiunto, per una serie di
ragioni sia di ordine
empirico che professionale. L’aspetto drammatico del processo è che il
giudice, nel
conflitto tra le *due verità*, è tenuto a seguire soltanto e
semplicemente quella
processuale, anche quando percepisce che essa contrasta con la verità
reale che non
affiora nel processo. Questa contraddizione può manifestarsi in due
modi: il giudice
può avere la convinzione morale della colpevolezza della persona
imputata nei
confronti della quale però manchino le prove o queste non siano
sufficienti. In questo
caso il giudizio non può che essere di assoluzione. Nel secondo caso, il
giudice può
avere l’intima convinzione dell’innocenza di una persona, ma le prove
processuali –
testimonianze, riconoscimenti, perizie – depongono contro l’imputato per
errori o
incapacità professionale dei periti o per semplice compiacenza verso
tesi accusatorie.
La conseguenza è drammatica: la condanna dell’imputato è «giusta» sul piano
processuale ma ingiusta su quello sostanziale. E la tragedia dell'Enrico
VIII di
Shakespeare, nella quale il duca di Buckingham, condannato a morte per
le accuse
calunniose dei suoi servi, non impreca contro i giudici ma ne accetta il
verdetto:
«Non nutro rancore contro la legge (giustizia) per la mia morte: alla
stregua del
processo essa doveva infliggermela, ma desidero che coloro che mi hanno
accusato
divengano più cristiani...».
E questo accade perché la legge impone che il giudice deve decidere solo
in base alle
emergenze processuali. Anche se intuisce la verità reale, egli ha
l'obbligo di applicare
la legge, quindi di tener conto delle risultanze processuali che molto
spesso portano
lontano dalla verità reale. Rispetto a quest'ultima, le deviazioni sono
dipendenti da
diversi fattori: da errori dei testimoni nella percezione della verità
(si confonde una
persona con un'altra), degli investigatori nella ricerca delle prove,
dei periti nella
ricostruzione di un fatto storico, del giudice nell'esercizio del metodo
deduttivo con il
quale si risale da un fatto certo ad un altro fatto.
Una deviazione assai frequente della verità storica è quella che nasce
da /perizie/
/medico-legali e psichiatriche errate/. Nel caso di un delitto con
autore ignoto e con
molti sospettati, l'affermazione da parte del perito medico legale che
si tratta
dell'opera di un sadico, di un maniaco sessuale che ha certe
caratteristiche fisiche e
psichiche (si presume in alcuni casi di definire l'altezza e la
corporatura dell'ignoto
autore!), unita alla conclusione del perito psichiatrico che la persona
soprattutto è un
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*Page 14*

soggetto che ha quelle caratteristiche descritte dal medico legale,
producono come
conseguenza pericolosa l'errore del giudice.
Nella mia non breve esperienza, non è stato infrequente *l'errore dei
periti*
*psichiatrici d'ufficio *(cioè nominati dal giudice) nell'accertamento
della «capacità di
intendere e/o di volere di un soggetto». Sovente essi hanno affermato
che il soggetto
rientrava in una certa categoria che era proprio quella nella quale il
pubblico
ministero aveva collocato l'autore del delitto. Ma non è stato raro il
caso del privato
che ha assecondato l'orientamento sbagliato della pubblica opinione.
I periti, insomma, compiono spesso il loro lavoro sotto la spinta di
fattori emotivi, di
elementi extrascientifici che li conducono a conclusioni lontane dalla
verità. E questa
è una delle cause più frequenti dell'errore giudiziario. Non mi
riferisco soltanto ai
periti psichiatrici, ma anche a quelli balistici, grafici, ai medici
legali in genere. Le
perizie, specialmente nei grandi processi, sono un dato costante della
ricerca della
verità. A volte allontanano dalla verità, perché compiute da persone che
non sono in
grado di far bene il proprio lavoro - anche se solo raramente si tratta
di persone in
malafede.
Esempio classico: nell'esame ordinato per l'omicidio del giudice Emilio
Alessandrini,
ci fu un perito che affermò con certezza assoluta che l'arma che aveva
sparato il
proiettile mortale contro il giudice, era una certa pistola. Siccome
questa pistola
proveniva da un certo terrorista, che era un uomo che aveva commesso un
altro
omicidio, il giudice disse: «Questo è l'uomo che ha ucciso
Alessandrini». Sennonché,
a distanza di quattro o cinque anni, venne fuori il vero assassino che
confessò,
aggiungendo di aver sparato con un'altra pistola. Altri periti, in
seguito, confermarono
che il primo aveva sbagliato. Da allora mi resi conto che quell'uomo
avrebbe potuto
subire un ergastolo per via di una perizia sbagliata, e che se non fosse
venuto fuori il
vero autore dell'omicidio, quell'errore non sarebbe mai stato scoperto.
Ma il problema è che non sempre vengono fuori i veri autori di un
crimine. Molto
spesso, poi, il giudice non è in grado — un po' per incapacità, un po'
per superbia, un
po' per gli errori altrui - di cogliere l'errore. Di qui le tragedie che
si verificano: il
numero degli errori giudiziari è molto superiore a quello che viene
normalmente
percepito nella realtà.
Io stesso debbo rimproverarmi in proposito. Ad esempio, in relazione
all’omicidio di D’Agostino Antonio, boss mafioso calabrese, rinviai a
giudizio
Domenico Papalia sulla base di due indizi (il fatto che Papalia si
trovasse con la
vittima al momento in cui questa venne raggiunta da numerosi colpi di
pistola ad
opera di uno sconosciuto e la fuga dello stesso Papalia subito dopo
l’agguato). La mia
decisione di rinviarlo a giudizio avvenne mentre Papalia, che era
pregiudicato per
diversi reati di stampo mafioso, rimase latitante. La mia convinzione
era di rinviare a
giudizio, affidando alla Corte d’Assise il compito di approfondire la
posizione
processuale di Papalia. La sentenza di rinvio a giudizio, come affermato
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*Page 15*

ripetutamente della Cassazione non richiede gli stesse elementi di prova
richiesti per
la condanna. Tuttavia, nonostante che gli indizi da me raccolti si siano
indeboliti
nell’istruttoria dibattimentale fino a vanificarsi del tutto grazie ad
alcune perizie
balistiche che dimostravano l’estraneità del Papalia, la Corte d’Assise
in primo e in
secondo grado, con la ratifica della Cassazione, condannò all’ergastolo
il Papalia. Io
riconobbi pubblicamente che il mio errore iniziale si era protratto sino
alla Corte di
Cassazione!
Un'altra causa molto frequente dì errore è costituita dai riconoscimenti
personali: è
molto facile che siano sbagliati. Nell’istruire il caso Moro. ricordo di
aver ascoltato
personalmente cinque o sei testimoni che affermavano con assoluta
certezza di aver
visto in via Fani un terrorista la cui descrizione corrispondeva a
Corrado Alunni.
Quest'ultimo, inevitabilmente, ricevette un mandato di cattura per
concorso nel
sequestro e nell'omicidio di Aldo Moro. Sennonché, per sua fortuna,
presto vennero
fuori i veri autori della strage di via Fani, che esclusero
categoricamente che Alunni
fosse presente; in secondo luogo, non fu difficile appurare che egli, il
giorno del
sequestro, era detenuto. Ecco, questa vicenda rappresenta il classico
esempio di
errore compiuto dal giudice, ma provocato dall'errore altrui: il giudice
è infatti
obbligato a tener conto delle testimonianze di persone della società civile,
disinteressate e che non conoscendosi tra loro facciano il medesimo
riconoscimento
personale nel rispetto delle garanzie stabilite dalla legge, quando per
giunta
affermano qualcosa «con assoluta certezza».
Un altro caso legato all'omicidio di Girolamo Tartaglione: una ragazza
confessò di
essere responsabile dell'assassinio, chiamando in correità altre due
persone. Nel
leggere il testo della confessione di questa ragazza - molto precisa e
dettagliata - mi
resi conto che si trattava di un falso, per un paio di particolari
rivelatori. Non volli
accettare quella «verità» processuale, condivisa invece dal generale
Carlo Alberto
Dalla Chiesa e dal pubblico ministero. Non volli assecondare la tesi
della stampa che
parlava di brillante soluzione del caso Tartaglione. Ero convinto, sulla
base di due
dati oggettivi, che la *verità processuale *emersa fino a quel momento
non fosse
corretta. Riuscii, col tempo, a convincere la donna a ritrattare e ad
affermare che
aveva confessato il falso. Per fortuna, perché poco tempo dopo vennero
fuori i veri
autori dell'omicidio (Valerio Morucci e Adriana Faranda).
Ebbene, questo esempio serve a dimostrare ciò che vado da sempre
ripetendo: la
confessione non è «la madre di tutte le prove», perché può accadere che
anch'essa sia
fonte di errore. Che cosa può consentire di capire quando qualcuno dica
il vero e
quando il falso? La professionalità di un giudice o di un investigatore.
indipendentemente dall'esistenza di altri elementi che possano smentirlo.
Uno dei fattori capaci di provocare l'errore giudiziario è poi la
presenza, nel nostro
ordinamento, del principio del libero convincimento del giudice (sancito
dall'art. 192
del codice di procedura penale). L'esistenza di un fatto può essere
desunta non
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*Page 16*

soltanto dalla prova, ma anche dagli indizi, purché siano gravi, precisi
e concordanti.
In realtà, l'art. 192 afferma una regola il fatto non può essere provato
se non
attraverso la prova legale -che prevede una sola eccezione: la presenza
di indizi che
abbiano le tre caratteristiche sopra accennate.
Ma la realtà del nostro ordinamento è purtroppo diversa: l'eccezione è
diventata
una regola. I procedimenti sono ormai quasi tutti indiziari.
Che cos'è un indizio? Un fatto desunto dall'esistenza di un altro fatto.
In pratica, il
risultato di una deduzione logica. E qui veniamo all'errore, perché
troppo spesso
l'indizio non è altro che un sospetto che si è trasformato in un
indizio, prima di
trasformarsi ulteriormente in prova. Questo è *un grave vizio
dell'ordinamento*
*giudiziario del nostro paese*, capace di portare alle situazioni
processuali assurde e
inaccettabili così frequenti nei tribunali italiani.
Per molti casi clamorosi - piazza Fontana, strage di Bologna, omicidio
Chinnici,
comunque per il 60-70 per cento di fatti di straordinaria gravita - si
sono avute
decisioni contraddittorie a livello di giudici di merito: non dunque in
Cassazione, ma
tra il primo e il secondo grado di giudizio. Sentenze di condanna
rovesciate in
pronunciamenti assolutori, sulla base degli stessi elementi in punto di
fatto. Molto
spesso, un medesimo quadro probatorio è giudicato in maniera differente e
diametralmente opposta da due corti diverse: sugli stessi elementi si
pronunciano in
maniera contraddittoria i giudici di primo e quelli del secondo grado.
Ma questo non
può essere, perché gli elementi di prova devono essere valutati in modo
uniforme da
tutti i giudici. In caso contrario, si potrebbe parlare di un fatto
arbitrario. Certo, in
presenza di ulteriori elementi che completino, migliorino, rettifichino
un certo
quadro, d'accordo sulla possibilità di modificare il verdetto; ma quando
questo quadro
è esattamente lo stesso, /allora vuol /dire che c'è qualcosa che non va
nel sistema delle
prove e degli indizi. Un qualcosa rappresentato proprio dal principio
del libero
convincimento del giudice, in virtù del quale alcuni giudici considerano
certi indizi
ne gravi, ne precisi, ne concordanti: altri giudici, invece, si
pronunciano in senso
opposto. A questo punto, una serie spaventosa di errori giudiziari
diventa inevitabile.
Per quel che mi riguarda, credo purtroppo di aver quanto meno contribuito a
commettere errori giudiziari, nella mia veste di giudice istruttore,
organo monocratico
che - secondo il vecchio rito penale — doveva ricostruire la verità nel
corso della fase
più difficile, quella della verifica delle prove raccolte dalla polizia
o offerte dal
pubblico ministero. Ma, potendo contare su una fortissima personalità,
non mi è mai
capitato di venire influenzato dalla polizia o dal pm. Molto spesso,
anzi, mi è capitato
di ricostruire un fatto in maniera decisamente diversa da quella seguita
dal pubblico
ministero. Perché sono convinto che anche quelle che sembrano verità
elementari e
pacifiche debbano sempre essere verificate.
Esistono rimedi concreti al problema dell'errore giudiziario? A mio
avviso, il vizio è
ineliminabile. Al massimo lo si potrà ridurre, puntando verso due
distinte direzioni.
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Da un lato, la professionalità del giudice, vale a dire la formazione
del magistrato, la
valutazione delle sue capacità, che non consistono soltanto nella
conoscenza tecnica
del diritto, ma anche nel saper ricostruire la verità attraverso la
valutazione critica di
tutte le prove. Una maggiore professionalità che va però richiesta anche
ai periti, per
evitare valutazioni errate capaci di pregiudicare il corretto andamento
processuale e
di generare errori giudiziari.
Dall'altro lato, il *libero convincimento *del giudice: un principio da
rivedere,
prendendo spunto da altri sistemi (per esempio, quello anglosassone) nei
quali la
deduzione logica non ha valore probatorio, che è riservato invece
esclusivamente a un
elenco tassativo, sancito dalla legge. Senza essere esterofili -perché
anche gli
ordinamenti degli altri paesi sono caratterizzati da vizi di diverso
tipo ritengo che la
possibilità di trasformare in prova un semplice indizio — il più delle
volte privo di
qualsiasi rilevanza probatoria — rappresenti un nodo che deve essere
risolto prima
possibile. Il rischio che una persona possa essere arrestata sulla base
di elementi
labili, che poi possono essere valutati o svalutati» secondo l'umore del
giudice di
turno, è una delle circostanze maggiormente deprecabili del nostro
sistema. Un dato
che contribuisce ad affievolire la certezza del diritto. Ma l'errore ha
anche altre radici,
delle quali si discute molto negli ultimi anni. La più importante è
l'interpretazione
della legge contro l'intenzione del legislatore, come conseguenza della
violazione
stessa del principio dell'imparzialità del giudice. L'attività politica
del giudice
all'inevitabile scontrarsi delle ideologie a scapito della verità e
dell'uguaglianza dei
cittadini dinanzi alla legge. L'opinione di Cesare Beccarla circa
l'arbitrio lasciato ai
giudici, dal principio del libero convincimento, di orientarsi
nell'interpretazione delle
leggi recando le loro filosofie sociali e politiche illuminate: «II
sovrano sarà il
legittimo interprete delle leggi, perché è il depositario delle libertà
di tutti, non il
giudice il cui ufficio è solo l'esaminare se il tal uomo abbia fatto, o
non, un'azione
contraria alle leggi. Non v'è cosa più pericolosa di quell'assioma che
bisogna
consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente
delle opinioni.
Questa verità che sembra un paradosso alle menti volgari più percosse da
un picciol
disordine presente che dalle funeste ma remote conseguenze che nascono
da un falso
principio radicato in una nazione, mi sembra dimostrata».
E poi Beccaria traccia il quadro delle storture che derivano da
un'interpretazione
legata alle opinioni soggettive dei giudici: «Le nostre cognizioni e le
nostre idee
hanno una reciproca connessione: quanto più sono complicate, tanto più
numerose
sono le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo ha il suo
punto di vista,
ciascun uomo in differenti tempi ne ha uno diverso. Lo spirito della
legge sarebbe
dunque il risultato di una buona o di una cattiva logica del giudice, di
una facile o
malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni,
dalla debolezza di
chi soffre, dalle relazioni del giudice con l'offeso, e da tutte quelle
minute forse che
cangiano le apparenze di ogni oggetto nell'animo fluttuante dell'uomo.
Quindi
veggiamo la sorte di un cittadino /(colpevole o innocente, N.d.A.)
/cangiarsi spesse
volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite dei miserabili
essere vittime dei
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*Page 18*

falsi raziocini!, o dell'attuale fermento degli umori di un giudice, che
prende per
legittima interpretazione il vago risultato di tutta quella confusa
serie di nozioni che
gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso
tribunale puniti
diversamente in diversi tempi per aver consultato non la costante e
fissa voce della
legge, ma l'errante instabilità delle interpretazioni». Su queste tematiche
dell’ignoranza, dell’errore, della problematica ricerca della verità
rinvio inoltre
all’ampia e complessa trattazione svolta benissimo da Francesco Sidoti
nel suo
volume /La cultura dell’investigazione/.
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*Il giusto processo ed i tribunali speciali*
Il giusto processo, nato in Inghilterra e recepito dalla Costituzione
americana, sta a
significare che ogni imputato ha diritto di ricevere un equo
trattamento, secondo una
procedura intesa a raggiungere un risultato conforme a giustizia. Le
radici del giusto
processo erano nella /Magna Charta /emanata in Inghilterra
nell'undicesimo secolo per
restringere il potere del sovrano di agire /legibus solutus/. Nella
/Magna Charta /si
afferma «Nessun uomo libero sarà da Noi sovrano catturato e/o
imprigionato, o
privato dei suoi beni, oppure esiliato, o in qualunque altro modo
rovinato, ne noi lo
perseguiremo o lasceremo che venga perseguito, salvo che mediante il
legittimo
giudizio (/Lawfull judgement/) dei suoi pari e in conformità della legge
del Regno».
Ricordo l’attualità dei principi del giusto processo in riferimento al
terrorismo
internazionale. Che Osama Bin Laden e i terroristi debbano essere puniti
è fuori
discussione, assieme a finanziatori, protettori, favoreggiatori dovunque
essi siano. Ma
questo deve avvenire evitando di cadere nella trappola della giustizia
sommaria.
A preoccupare è la possibile entrata in funzione dei Tribunali militari
speciali creati
dal Presidente Bush, il 13 Novembre del 2001, per giudicare i terroristi
stranieri con
procedure assai più sbrigative anche della Giustizia militare. Infatti i
Presidenti ed i
giurati di queste corti sarebbero nominati dal Ministro della difesa. I
processi
potranno essere segreti, e quindi senza alcun controllo da parte della
pubblica
opinione per la mancanza di pubblicità. Per la condanna non sarà
necessaria la prova
al di là di ogni ragionevole dubbio, bastando la maggioranza dei 2/3 dei
giurati.
Possono essere giudicati con queste procedure solo i cittadini non
americani che
potranno essere arrestati e portati negli Stati Uniti per essere
sottoposti a processo.
Sicché se un terrorista italiano o spagnolo o francese - e dunque non
americano-
viene arrestato in Italia, dovrebbe essere immediatamente consegnato
agli Stati Uniti,
anche se per lui è prevista la pena di morte. Per la condanna non
saranno necessarie le
normali prove legali. Non è previsto né l’appello né il ricorso alla
Corte Suprema.
Contro questa scelta, si è schierata una parte dell'Amministrazione USA
e i due
maggiori quotidiani americani, il /Washington Post /e il /New York
Times/, che hanno
raccolto la proposta di modifiche più garantiste.
Da notare che le proposte di Tribunali speciali ci riporterebbero al
Medio Evo del
diritto e violerebbe tutti i principi del giusto processo. L'idea del
procedimento
legittimo o giusto /(faìr) /venne trasfusa nelle Costituzioni statali,
rappresentando
l'essenza del /due process of law, /che è stato codificato nella
Costituzione degli USA.
Negli Stati Uniti avremmo per i terroristi una giustizia come
espressione di giudici
organi del Governo americano e non strumento imparziale di applicazione
della
legge. Così come avvenne nell'ordinamento sovietico. Il procuratore generale
dell'Unione Sovietica, Vysinskij, affermò che la giustizia sovietica, e
cioè i giudici
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*Page 20*

sovietici e non solo i Pubblici Ministeri, erano "un organo effettivo
della politica
sovietica". Il giudice sovietico non era dunque l'interprete della
volontà della legge
ma un elemento di quella vasta azione che ha nello Stato il suo soggetto
formale e in
ogni organo dello Stato - compreso il giudice - il suo soggetto sostanziale.
Il giudice espressione del potere esecutivo, qualunque esso sia, anche
il più
democratico, è un giudice-parte: è una mostruosità non solo logica ma
anche morale.
Il rischio è che il giudice si ponga di fatto, con false e strumentali
applicazioni della
legge, al servizio di una parte, in violazione del principio sovrano che
pone il giudice
solo al servizio della legge con la conseguenza che il problema della
tutela del diritto
degli imputati alla imparzialità del giudice diventa non facilmente
solubile poiché
non si riesce a porre un argine alla giustizia scelta da un Presidente
che è tenuto a
rispettare il principio cardine di ogni democrazia della separazione dei
poteri.
Per una giustizia garante dello Stato di diritto e di una imparziale
applicazione della
legge, i paesi civili non possono rinunciare al giusto processo che è
figlio della
libertà. Dal travaglio della libertà sono nati tutti i principi sui
quali il processo equo si
regge: si tratta di principi che i romani avevano individuato e scolpito
in modo
plastico: la imparzialità del giudice, /nulla poena sine judicio, in
dubio pro-reo,/
/audietur et altera pars/, il diritto di difesa sono valori ai quali
corrispondono /moderni/
/principi di certezza del diritto, di legalità, del contraddittorio,
della prova legale, il/
/diritto ad essere assistito da un difensore in ogni stato e grado del
giudizio/.
Questi principi devono essere difesi dall'Europa che sta per nascere e
riprodotti nella
nuova carta costituzionale. Tenendo presente che- non è inutile
ripeterlo- l'esperienza
della storia di questi anni ha dimostrato che la giustizia sommaria, i
Tribunali speciali
militari, la violazione dei diritti di difesa non aiutano a combattere
il terrorismo ma lo
rafforzano. *L'Italia ha vinto nella lotta al terrorismo perché *ha
saputo coniugare la
fermezza con il rispetto dei diritti civili, schierandosi contro i
Tribunali speciali, la
pena di morte e ogni forma di violenza e di pressione contro i
terroristi. E perché ha
cercato di combattere il terrorismo ma anche le cause del terrorismo.
Esistono decine di documenti del terrorismo interno ed internazionale
che dimostrano
come obiettivo dei terroristi sia sempre stato e sia tuttora la
radicalizzazione della
lotta con le istituzioni, la violazione dei diritti umani, il ricorso
alla pena di morte. Ma
quale paura può fare ai terroristi di Al Qaeda la condanna a morte se
essi la
affrontano con sprezzo della vita ogni giorno?
"Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata
in, vigore
prima del fatto commesso". "/Nullum crimen, nulla poena sine legge/". E"
dunque la
legge il pilastro su cui si erge l'intera costruzione del diritto penale
come di ogni altro
ramo del diritto. Solo dopo avere assunto i principi fondamentali della
legge,
possiamo dedicare la nostra attenzione al diritto penale.
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*Page 21*

Nelle democrazie si può proteggere il cittadino dall'oppressione
attraverso le leggi.
Là dove viene meno il vigore delle leggi, non vi può essere ne sicurezza
ne libertà per
nessuno. Diceva Locke “Dove non c'è legge non c’è libertà”. Dove però la
libertà
viene intesa non in senso metafisico, della quale si occupala filosofia
e l'etica, ma in
senso empirico e pratico (come dice Giovanni Sartori in /Democrazia cosa è/)
Rousseau affermava che la libertà "era fondata dalla legge e nella
legge". Nel
discorso sull'Ineguaglianza osservava: "Nessuno di voi è così poco
illuminato da non
sapere che là dove viene meno il vigore delle leggi e l'autorità dei
loro difensori, non
vi può essere ne sicurezza ne libertà per nessuno". E poi affermò "La
libertà segue
sempre la sorte delle leggi, essa regna e perisce con queste; nulla mi è
noto con
maggiore certezza".
Ma chi fa le leggi? Certamente non il popolo, anche se esse sono a
tutela degli
interessi del popolo. Rousseau si chiese: "Come potrà una moltitudine
cieca, che
spesso non sa quel che vuole perché solo di rado sa quel che per lei è
bene, mettere in
esecuzione da sé una impresa di tanta mole e tanto difficile come un
sistema di
legislazione?"
In concreto il problema, per Rousseau, poteva essere risolto legiferando
il meno
possibile. Egli ricordò che gli ateniesi persero la loro democrazia
perché ciascuno vi
proponeva leggi a sua fantasia, mentre invece è la antichità delle leggi
che le rende
sante e venerabili. "Lo Stato ha bisogno di ben poche leggi". Rousseau
concludeva
che "dal momento che la costituzione del Vostro Stato ha assunto una
forma definita
e stabile, le vostre funzioni di legislatore sono terminate".
Il punto è dunque che le leggi di Rousseau sono poche, generalissime,
fondamentali,
antiche e pressoché immutabili Leggi supreme. Nel contratto sociale egli
invoca un
legislatore -un Mosé, un Licurgo, un Numa- e cioè un uomo straordinario
nello Stato
che assolve una funzione particolare e superiore che non ha niente in
comune col
regno umano. Rousseau non pensava affatto ad "un popolo legiferante,
facitore di
leggi". Per lui il popolo doveva essere "giudice e custode delle leggi."
Ma - dice Sartori (ancora in /Democrazia cosa è /)- le leggi non sono
fatte dalla
volontà generale e non sono fatte una volta per sempre, ma sono sempre
da fare. E
aggiunge che non sempre la legge è una normativa caratterizzata da
contenuti di
giustizia. Per millenni si è ritenuto che la legge dovesse incorporare
valori di
giustizia. In realtà la legge è /Ius /dalla radice /iubeo/, comando, il
quale può non avere
contenuti di giustizia. Il fondamento di tutte le leggi vigenti in un
determinato
ordinamento è la Costituzione, che in ogni paese dovrebbe essere garante
di libertà.
Non si può accettare un concetto formalistico di legge costituzionale
che sempre ed in
ogni paese sia garante di libertà Perché la storia ci insegna che così
non è. La
Costituzione di Hitler e quella di Stalin. pur essendo leggi, non hanno
tutelato la
libertà. Ed allora dobbiamo accedere ad una concezione garantista di
Costituzione. Il
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*Page 22*

nesso tra libertà e legge perde così la certezza che lo ha cementato per
millenni. Nulla
vieta che il tiranno eserciti la sua tirannide in nome della legge e
mediante ordini
travestiti da leggi. Anche nei nostri sistemi assistiamo a sviluppi
degenerativi
facilitati dal formalismo giuridico.
Anche quando si tende a inserire nella legge i valori etici ed a
tutelare l'interesse
generale, l'obiettivo spesso non viene raggiunto perché la pletora delle
leggi e la loro
confusione impedisce alle leggi di essere conosciute e comprese dai
destinatari, siano
essi cittadini che come organi dello Stato. "*I nostri legislatori *di
diritto sanno poco o
nulla", conclude Sartori. Eppure, essi governano legiferando. La legge
viene così
sciupata per quattro rispetti: l’inflazione, la cattiva qualità, la
perdita di certezza e la
perdita di generalità. Si tratta di leggi nel nome ma di non leggi nella
sostanza.
Davvero un orrendo pasticcio la cui prima conseguenza è una
proliferazione che
perciò stesso svaluta le leggi. “Ai nostri legislatori la chiarezza
delle leggi e la
coerenza del sistema legale nel suo insieme, importano poco o nulla”. In
verità
neppure i giuristi hanno dato prova di saper fare buone leggi, se si
tiene presente ciò
che è successo con il nuovo processo penale e con le leggi speciali che si
sovrappongono e si contraddicono. La certezza del diritto viene meno
perché il
continuo mutamento dello stato delle leggi rende i comandi poco
affidabili. E' il caso
della concessione continua di condoni che danneggia coloro che hanno
osservato la
legge pagando sanzioni pecuniarie o detentive, penalizzati di fronte a
chi tali sanzioni
si vede condonate dallo Stato.
Le leggi sono sempre più settoriali, parziali e mutevoli favorendo alcuni e
danneggiando altri. Oggi l'edificio della libertà nella legge è
sostenuto dai diritti
umani e cioè dalla sua conformità a quei diritti. Le leggi sul condono
edilizio sono
l'emblema della degenerazione delle leggi intese come comando.
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*Page 23*

*Il giusto processo in Europa*
Il 2000 segna una tappa fondamentale sul futuro e sulle prospettive di
libertà,
sicurezza e giustizia in Europa, che sarà il luogo in cui avviare una
politica comune
nel campo della giustizia e della sicurezza, terzo pilastro dell'Unione
Europea ed
elemento indispensabile per una effettiva cittadinanza comunitaria.
L’Europa del terzo millennio non sarà soltanto l'area dell'Euro ma anche uno
spazio di cittadinanza comune, una vasta regione del mondo dove Ì
cittadini e gli
stranieri regolarmente presenti, circolano liberamente, sono meglio
protetti dalla
criminalità organizzata e beneficiano di una giustizia più efficiente,
grazie ad un
grado più elevato di coordinamento e di integrazione tra gli apparati di
controllo e
giudiziari dei singoli stati.
Il primo nucleo di questo spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia è
rappresentato dall'insieme delle norme e delle decisioni adottate in
questi anni in
attuazione del Trattato Shengen e del Trattato di Amsterdam.
Bisogna sottolineare l'importanza storica del fatto che per la prima volta,
l'elaborazione di indirizzi e principi comuni ai paesi europei in
materia di asilo, lotta
alla criminalità e giustizia; avviene non più in ambito intergovernativo
ma nel quadro
istituzionale della Unione Europea, che ha il dovere di darsi una
strategia, se non
vuole essere travolta dall’ illegalità diffusa, dal terrorismo e dal
mancato rispetto dei
diritti umani.