Viene qui i rilievo l'art. 5 della legge penale col suo principio
"ignorantia legis non excusat", la cui ferrea impostazione è stata intaccata
dalla decisione della Corte Costituzionale, la quale ne ha dichiarato la parziale
illegittimità, là dove non prevede l'ignoranza inevitabile della legge come fatto
scusante per contrasto con gli artt. 2, 3, 73 3° comma della Costituzionale (1).
Il Pretore di Cingoli, il primo a sollevare la questione, aveva
prospettato un caso che presenta forti analogie con quello da cui è stato mosso questo
scritto, ovvero un'ipotesi di "buona fede" invocata da un privato nell'eseguire
lavori senza licenza edilizia, in quanto sorretto da un'interpretazione del Consiglio di
Stato che avallava il comportamento omissivo.
Nel nostro caso specifico, con l'assunto dell'ignoranza dell'obbligo
fiscale, era lecito anche invocare l'art. 8 D. L. 10 luglio 1982, n. 429 dove recita:
"L'errore sulle norme che disciplinano le imposte sui redditi e sul valore aggiunto
esclude la punibilità quando ha cagionato un errore sui fatti che costituiscono reato a
norma del presente decreto". Si poteva quindi sostenere che la presunta erronea
interpretazione della norma, indotta da giudizi emessi in precedenza dal magistrato per
affari simili, concretandosi in un errore scusabile sui fatti (omessa procedura sull'I. V.
A. perché trattantesi di soggetti non tenuti), generava un'ipotesi di non punibilità.
2. Ma vi è di più. A nostro modo di vedere qui non si tratta neppure
più d'ignoranza della legge penale, ma di veri e propri comportamenti autorizzati dai
giudici di merito più favorevoli, i quali con le loro decisioni, che formano corpo unico
con la norma, autorizzano in pratica certi atti. In paradoxo talora accade che non la
sconoscenza del diritto, ma proprio la specifica cognizione ad opera di tecnici, fa si che
essi adottino comportamenti dettati dalla giurisprudenza dominante nel momento, che si fa
poi prassi nei singoli settori del sociale.
D'altro canto neppure si può ritenere che ove l'interpretazione
primaria più favorevole fosse "sbagliata", si potrebbero invocare gli artt. 5 e
8 surriferiti. Non esistono pronunce dei giudici erronee in sé, essendo esse frutto di un
lavoro collettivo che, nei contrasti, vengono poi sintetizzate dalle pronunce della
Cassazione. Anche se poi esse vengano eventualmente "cassate", è evidente che
nel momento dalle loro pronuncia rappresentano comunque una statuizione autorevole, specie
se emesse da sezioni di giudici specializzati in una determinata materia tecnica.
Noi qui propugnamo il criterio d'inesigibilità (Nichtzumutbarkeit)
elaborato dalla dottrina germanica come "causa ultralegale di esclusione della
colpevolezza", ritenendo che esso trovi applicazione in varie ipotesi espressamente
disciplinate dalla legge e in principi generalissimi che devono reggere l'opera
degl'interpreti, per realizzare la giustizia dei casi concreti sottoposti al loro esame
(2). La Nichtzumutarkeit fonda nella nostra teoria l'altra faccia della Grundnorm nella
costruzione piramidale di Kelsen, rappresentando la Norma- base la pretesa statale, una
sorta di "Tu devi" kantiano eletto a fondamento morale del diritto. Ad essa fa
da contraltare l'Inesigibilità, intesa come limitazione della Grundnorm attraverso la sua
umanizzazione, che si sostanzia nell'impossibilità di pretendere il dovuto sociale oltre
i limiti dell'umano concreto.
Si tratta per entrambe le forme giuridiche di principi astrattissimi
che danno forza all'intero apparato normativo reale, che, diventando quanto mai reali, si
esplicano entrambi attraverso sottoprincipi e leggi concrete, spesso interrelantisi gli
uni alle altri. Il gioco della prevalenza della Grundnorm o dell'equilibrio tra la stessa
e la Nichtzumutarkeit, ha fondato la natura degli Stati, che nella prima ipotesi si sono
istituiti come repressivi e totalitari, nella seconda sono risultati ispirati da criteri
di un diritto democratico e tendente a una giustizia "giusta".
Nel caso in esame di mutamento giurisprudenziale con esegesi più
sfavorevole succedutasi a una più favorevole, dove questa prima fonda comportamenti
ritenuti leciti, ci sembra che la soluzione finale debba essere colta comunque in un
formula assolutoria ampia dal momento che nulla si può pretendere da chi si è comportato
come certi giudici ritenessero dovesse comportarsi. E' questa soluzione legata non certo a
una forma ultralegale di esclusione della colpevolezza, quanto all'esplicitazione del
principio sommo dell'inesigibilità in sottoprincipi, precisamente enunciati negli artt. 1
e 2 del c. p.
Il problema qui sollevato è emerso in una legge prescrittiva di
comportamenti "formali", il che c'illumina come il criterio d'inesigibilità sia
particolarmente da tener presente in normative di pura forma, come le contravvenzioni,
dove neppure la coscienza naturale del singolo è capace di distinguere la criminalità o
meno insita in un dato comportamento. Si tratta di obblighi e divieti indotti
artificiosamente dal legislatore (cd. reati di pura creazione legislativa), il quale,
aiutato dai giudici, più che mai dev'essere chiaro nel dire cosa vuole dai cittadini.
D'altro canto l'art. 1 del cod. penale è di una chiarezza allarmante: "Nessuno può
essere punito per un fatto che non sia espressamente" c'è tutta la luce di una
filosofia antica e consapevole, per la quale certezza del diritto significa chiarezza di
norme e di esegesi.
L'oscillazione della giurisprudenza nel modo sopra detto nasce
evidentemente da norme non chiare. Quando la norma è bifronte, dai giudici succedutisi
nel tempo non si può se non chiedere interpretazioni sempre più favorevoli al reo, con
un criterio parallelo a quello sacrosanto della successione di norme penali diverse nel
tempo.
L'art. 2 al 3° comma così recita: "Se la legge del tempo in cui
fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni
sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".
In via analogica allora l'inventio di una nuova esegesi giurisprudenziale, a fronte di una
precedente più favorevole, non può esplicarsi in danno per l'imputato, soprattutto nei
reati formali dove proprio quelle decisioni antecedenti hanno finito per autorizzare
comportamenti poi vietati dai giudici successivi.
C'è infine da notare che il caso da cui prese origine la questio è
intervenuto in un momento "incoativo" dell'esegesi, vale a dire nelle prime
sentenze di una materia nuova, quando la Cassazione non aveva ancora emesso alcuna
pronuncia, il che implicava ancor un maggior rigore da parte dei giudici succedutisi nel
tempo.
3. Affermare contro le nostre argomentazioni che l'interpretazione non
è fonte di diritto è un non sense, perché i giudicati formano corpo unico con le norme
interpretandone il senso. Non accettare tale linea creerebbe il paradosso che il cittadino
debba conoscere ex art. 5 leggi mal espresse, ovvero gusci semiotici dai sensi oscuri o
molteplici, ma di non dover informarsi e comunque adeguarsi alle interpretazioni nel senso
più favorevole attuate da tecnici istituzionalmente preposti all'esegesi.
Già la Corte Costituzionale, dettando parametri per determinare
l'inevitabilità dell'errore sulla legge penale, ha enunciato i casi in cui la norma sia
non riconoscibile, per assoluta oscurità del testo legislativo, o quelli di grave caos
interpretativo degli organi giudiziari preposti all'interpretazione. In entrambi i casi
non può essere fatto carico al cittadino di una precettistica che viene meno essa stessa
al dovere primario di chiarezza nell'espressione del segno nell'esegesi.
In una prospettiva futuribile, quanto mai imminente, il brocardo
"nemo ius ignorare censetur" appare sorpassato nell'epoca delle comunicazioni di
massa e dell'informatica, che permetterà a ogni operatore del diritto di conoscere la
sentenza emessa da qualunque giudice in ogni parte d'Italia. Ma già ora, per paradosso,
proprio l'eccesso di conoscenza, e non certo la presunta non ignoranza del diritto, fonda
una nuova visione dello ius dove, nel mutamento di giurisprudenza, i giudici successivi
non possono adottare interpretazioni più sfavorevoli rispetto ai precedenti, anche là
dove la norma non è oscura, ma "aperta" e quindi incerta, perché schiuse a
molteplici soluzioni.
Questa nuova metodologia appare più da adottare ove la
professionalizzazione dei giudici spesso sta implicando una specializzazione delle sezioni
in materie particolarmente tecniche (fisco, ecologia, informatica etc.). "L'assoluta,
"illuministica" certezza della legge sempre più si dimostra assai vicino al
mito: la più certa delle leggi ha bisogno di "lettura" ed interpretazioni
sistematiche che (dato il rapidissimo succedersi di "entrate in vigore" di nuove
leggi ed abrogazioni, espresse o tacite, di antiche disposizioni) rinviano, attraverso la
mediazione dei c.d. destinatari della legge, ad ulteriori "seconde" mediazioni:
quelle ad esempio di tecnici, quanto più possibile qualificati, di organi dello Stato
(soprattutto di quelli istituzionalmente destinati ad applicare le sanzioni per le
violazioni di norma ecc). (Sent. 364 Cort. Cost.)
Per concludere una tale interpretazione di metodologie esegetiche ove
mai potesse apparire riduttiva della sfera di libertà del giudice, c'è da notare che il
potere interpretativo va soggetto a canoni rigorosi ispirantisi ai pricipi generali del
nostro ordinamento giuridico, primo fra tutti quello della certezza, che in ipotesi
di successione d'interpretazioni giurisprudenziali, come per le norme, non può non
esplicarsi nel favor rei.
La stessa umiltà con cui il giudice fino ad ora ha adeguato i suoi
criteri esegetici alle pronunce della Suprema Corte dovrebbe caratterizzare anche i
giudici di merito e perché no, anche di legittimità, nell'accettazione di giudizi più
favorevoli rispetto a quelli escogitati dalla propria mente, adeguandosi alle valutazioni
emesse da altri giudici di 1° e 2° sulla stessa materia.
E' questa una conquista del diritto inglese che considera unethical,
non etico, applicare un giudizio differente da precedenti pronunce su casi simili. Questo
serve anche all'esterno per la forma di giustizia, essendo non poche le richieste senza
risposte di utenti di giustazia i quali chiedono perché mai nello stesso Tribunale, sullo
stesso caso, un giudice decide in un modo e un altro in maniera difforme, arrivandosi ad
esempio per 300 dosi di droga detenute ad assolvere o in contrapposizone a irrogare 9 anni
di reclusione.
D'altro canto nell'attuale sistema italiano, istanze di un processo
più equo per una maggiore democrazia, emerse anche dal nuovo codice di procedura penale
nato dall'acquisizione di elementi del rito anglosassone, richiamano all'esigenza di una
revisione metodologica, su tutta la linea, nell'operare dei giudici i quali, al di là
delle false prospettazioni demagogiche, sono nell'interpretazione dei veri creatori della
legge, ovvero legislatori a tutti gli effetti, che vanno ridimensionati quotidianamente
nei loro eccessivi poteri esegetici da una sistema automatico a prova di bomba per
garantire equità e certezza dei diritti(3).
Geometria tanto più urgente vista l'ulteriore frantumazione
decisionale ed esegetica provocata dall'imminente instaurazione del Giudice Unico che
impedisce di garantire all'esterno quell'omogeneità interpretativa equilibratrice in
reati anche gravi come si realizza ancora con la decisione stemperante collegiale.
C'è, quindi, da considerare che la sentenza della Corte Costituzionale
n. 364 va al di là della pur sgretolata "norma di sbarramento" dell'art. 5 c.p.
tipica espressione in concreto della Grundnorm (4). Con quella pronuncia storica essa ha
dettato i principi di una rivoluzione esegetica che è poi un tornare ai principi chiave
(artt. 1 e 2 del codice penale), e che si sostanzia in un recupero dell'interpretazione
più favorevole al reo, allo scopo di dare certezza al diritto, sulla quale solo si può
fondare la credibilità dei giudici e la giustizia paritaria in uno stato di autentica
democrazia(5).
Insomma prima la persona e poi la legge, essendo questa fatta per gli
uomini e non viceversa. Per l'umanizzazione della legge bisogna ridurre la funzione
interpretativa del giudice, in ogni stato e grado del giudizio, ai minimi termini. Questo
ad evitare che i cittadini siano vittime kafkiane di un gergo per iniziati e di un
linguaggio formale, altalenante e schizoide negli esiti, che si gioca sulla loro pelle,
sul loro sangue, sulla loro libertà.
NOTE
1) La questione d'incostituzionalità dell'art. 5 è stata posta in un
caso di lavori di bonifica di un terreno "senza fini edificatorii" con ordinanza
22 luglio '80 dal Pretore di Cingoli in rapporto agli artt. 2 (libertà violata da
situazione anomala creata dall'ordinamento), 3 (esclusione di rilievo alla coscienza
dell'antigiuridicità), 27, 1° comma (impone la possibilità della conoscenza effettiva
della legge penale), 54 e 73 (impongono il rispetto delle leggi e dei pareri pur difformi
dei giudici che le interpretino), 24, 111 e 113 Cost. (principio dell'unitarietà
dell'ordinamento nella difesa dei diritti e interessi legittimi).
La Corte ha deciso contestualmente anche sull'ordinanza analoga del
Pretore di Padova del 14 maggio 1982 che rilevava, nel caso di un un tizio che in un bar
fece suonare un apparecchio radio, mettendogli accanto un flipper, contrasto con gli artt.
2, 3 (la Repubblica invece di rimuovere ostacoli alla libera espressione della persona,
con norma non chiare, li crea), 25, 2° comma (divieto di retroattività e tassatività
della norma penale, escludente colpa in ipotesi d'ignoranza della pena ipotizzabile solo
in ipotesi d'ignoranza della legge, oggettiva e scusabile), 27, 3° comma Cost. (funzione
rieducativa della pena ipotizzabile solo in ipotesi di chiara ribellione ai valori
dell'ordinamento). In pratica i due Pretori si chiedevano come un cittadino medio potesse
districarsi in un dedalo di leggi incomprensibili, quando nemmeno un uomo di legge
riusciva a capire se la legge vieta o consente o impone di fare lavori di bonifica sul
fondo e di tenere accesa radio e flipper. Come ha detto Head Hunter: Tutti dobbiamo ubbidire alle leggi, ma per capirle ci vuole un
avvocato". Anzi talvolta nemmeno un avvocato o un giudice basta! La sentenza favorevole della Corte
Costituzionale, emessa il 23 -24 marzo 1988, reca il n. 364, pubb. su G.U. del 30. 3.'88,
è stata ribadita in una pronuncia più recente del 1995. In precedenza la Corte aveva
respinto con sent. n. 74 del '75 analoghe questioni d'incostituzionalità dell'art. 5 per
contrasto con gli artt. 2 e 25 della Cost.
2) La teoria dell'inesigibilità ha trovato accoglienza in Italia in
dottrina specialmente col Bettiol (Diritto penale, Parte generale, 6a ed.-pag. 413- pag.
1966) e con lo Scarano (La non esigibilità nel diritto penale, Napoli, 1948). Il prima
configura l'inesigibilità come un limite intrinseco al diritto che ammette in determinate
circostanza di essere contraddetto. Il secondo ne trova espresse forme in figure
scriminanti (art. 54, art. 384) e in genere nella cause di esclusione della colpevolezza,
ritenendo possibile la creazione di nuove forme giustificanti con ricorso all'analogia. A
questa seconda teoria, completandola, avviciniamo la nostra tesi escogitata per realizzare
un diritto più giusto. per completezza bibliografica si ricorda che in forma dubitativa
si è espresso sul tema il Vassalli in "Limiti del divieto di analogia in materia
penale", Milano, 1942, pag. 122). Per le ipotesi contrarie vedi anche Antolisei
Manuale di diritto penale, Parte generale, Giuffré Editore, Milano 1969, pag. 335 e segg.
3) Vedi al riguardo G. Francione, Le prove nel nuovo processo penale
(Epistemologia popperiana e nuovo processo penale.Reductio ad minima del libero
convincimento del giudice) - Edizioni D'Agostino DOC - Roma, giugno 1995. Il testo è
l'ampliamento e aggiornamento del saggio La lanterna di Diogene. Rigenerata luce sulle
tracce dei delitti col nuovo codice di procedura penale, già pubblicato sulla rivista
"Il Giudice" e sulla rivista filosofica "Il Contributo" del
Luglio-dicembre '94 n. 3/4.
4) Nella citata sentenza della Corte Costituzionale si ricorda "la
strumentalizzazione che lo Stato autoritario aveva operato del principio dell'assoluta
irrilevanza dell'ignoranza della legge penale (già nel 1930 tale principio, trasferito
dal capitolo dell'imputabilità, nel quale era inserito dal codice del 1879, a quello
dell'obbligatorietà della legge penale, era divenuto 'cardine' del sistema"). Più
oltre si legge: "Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter
trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato" alias, non
risponderà "per comportamenti realizzati nella 'non colpevole' e, pertanto,
inevitabile ignoranza del precetto". Questo rende operante il quadro garantistico ex
art. 27,1° e 3° comma della Cost; ricomprendendo tra "i requisiti subiettivi
minimi... la rimproverabilità della personale violazione normativa", da collegare
sempre a un'"effettiva" (e non solo teorica) capacità di conoscenza dello ius,
compromessa de facto dall'esistenza di più di 300.000 leggi. Che se poi fossero
trentacinquemila(Violante), centociquantamila(Cassese), duecentodiecimila (informatici) il
discorso non cambierebbe poi molto. Il principio di riconoscibilità concreta delle norme
è fatto derivare dagli artt. 73,3° comma e 25,2° comma della Cost.
5)Sent. 282 del 1990; ma vedi anche sent. 487 e 409 del 1985; 215 del
1990; 291 del 1992