Processo alla Giustizia
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Il giudice-scrittore Nicolò Amato è nato a Messina il 20-1-1933. Dimessosi subito dopo dalla magistratura, attualmente vive a Roma dove svolge l'attività di avvocato,

Intervistato sulla sua nuova attività, ha detto:"Una toga vale l'altra quando si tratta di battersi per uno stato che si serva della forza del diritto e non del diritto della forza".

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Processo alla giustizia(Marsilio - 1994), prefato da Tiziana Maiolo e postfato da Marco Taradash, è un atto di accusa e d'amore contro la giustizia.

"Nicolò Amato conosce il peso della toga di accusa, conosce quello ben più lieve della toga di difesa. Ha visto negli occhi degli uomini e delle donne carcerate l'ingiustizia e il sopruso. Ha visto una giustizia piccola piccola, ha conosciuto ingiustizie piccole e grandi. Sopra a tutto, un eterno insormontabile codice di guerra e soprattutto una guerresca quotidiana gestione della giustizia".

"Amato ha conosciuto bene ciò che accade e brulica sul versante nascosto della giustizia italiana. Si è reso conto che il lato oscuro della nostra giustizia ha finito per prevalere di gran lunga sui fasci di luce che celebrano i trionfi di un certo tipo di amministrazione della giustizia e dell'ordine pubblico.

Sullo sfondo di un'Italia ancora in crisi, in un momento di trasformazione, tra movimenti di piazza, demagogie e tensioni politiche, con questo libro Amato ha gettato e ci ha permesso di gettare, uno sguardo nel buio".

Amato pone in luce principi fondamentali ormai dimenticati come il "filo d'oro" di cui parlano gl'inglesi, cioè il diritto al silenzio dell'imputato, principio che impone all'inquirente il dovere di dimostrare la colpevolezza e giammai dell'accusato l'onere di dimostrarsi innocente.

"La tagliola che il pubblico ministero frappone, senza neppure tanti sotterfugi, si chiama carcere preventivo"(4). Uso della galera a fini confessori per inchiodare se stessi o altri complici; cavilli che portano a confondere "la nobiltà della giustizia con la meschinità del giustizialismo"(5).

Il libro, precisa Amato, "non è e non vuole essere un atto d'accusa contro la magistratura. Tutto al contrario.

Io stesso sono stato per molti anni magistrato del pubblico minlstero. E la mia era stata una scelta ideale, non certo di convenienza...<Il libro> è un atto di amore verso la giustizia"(6).

Taluni giudici non giudicano il crimine, ma lo combattono. Parti tra le parti, hanno perso la loro terzierietà e s'inventano teoremi utili spacciati per verità. A mo' di esempio accanto all'illecito finanziamento dei partiti si aggiunge inevitabilmente corruzione o concussione anche se non ci sono prove.

L'utilitarismo sorregge i giudici che guardano solo all'utilità dei metodi, rispolverano teorie di colpa d'autore per cui si è colpevoli per quel che si è.

Il "furore investigativo forza e deforma la prova... Il sospetto diventa indizio e l'indizio diventa prova.. Non serve il colpevole. Basta un colpevole"(7).

"Sia l'accusato a provare di essere innocente, di non essere un nemico. Nel dubbio, egli è colpevole. L'onere della prova s'inverte.

<...>Il processo non è più l'accertamento se l'imputato è colpevole, ma la presa d'atto, ufficiale, solenne, che egli è colpevole.

<...>L'uomo dietro la sbarra o dentro la gabbia sarà condannato, se sta a quel posto dovrà essere condannato"(8).

Se l'obiettivo del processo è la giustizia col mezzo della verità, ora nello Stato di necessità lo schema non vale più.

"E' come cancellare la scritta "La legge è uguale per tutti", che campeggia nelle aule di giustizia. E sopra il Crocifisso sembra chiudere gli occhi per non vedere"(9).

1)Recensione a L'ultima lambada, a cura di Anna De Laura, su la Rivista del Volontariato, Anno II, . n. 5- Sett.- ott. 1993.

2)Tiziana Maiolo nella retrocopertina.

3)Marco Taradash nella retrocopertina.

4)Dalla "Prefazione di T. Maiolo, p. 5.

5)Ibid., p. 6.

6)Ibid., p. 20.

7)Ibid., p. 49. A proposito della presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva sancita dalla Costituzione, Amato grida: "Imbecille civiltà dei sogni!"(p. 50).

8)Ibid., p. 23.

9)Ibid., p. 17.