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Pentiti e sentenze ribaltate: addio certezza del diritto


di Vincenzo Tessandori 

Piovono sentenze che ribaltano i primi verdetti 
Dal sequestro Melis, ai casi Contrada e Andreotti 
Su inchieste ricche di pentiti e povere di riscontri 
Alla faccia di Beccaria e di ogni certezza del diritto
Vien da domandarsi: Beccaria Cesare, chi era costui? Uno che ricercava la certezza nel diritto, uno al quale sarebbe venuto un accidente se, per dire, un tribunale avesse mandato assolti i rapitori presunti di Silvia Melis dopo che altri giudici li avevano condannati per opposti motivi, almeno in apparenza altrettanto ragionevoli. O irragionevoli. Perché per il Beccaria, ciò che produce effetto sull'umana tendenza a delinquere, o deviare, come si ama dire oggi, non è tanto la durezza della pena quanto la sua certezza. Quella "di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza dell'impunità". Com'ognun sa, lui era un illuminista, assolutamente non forcaiolo nel senso più letterale del termine, contrario alla pena di morte definita "una guerra della nazione contro un cittadino". 

Troppe sentenze somigliano a capitoli del "Libro de arena" di Jorge Luis Borges, troppe volte una condanna, o un'assoluzione, sono sorrette da quell'architrave, di dubbia resistenza, che è la collaborazione, o il pentimento, di qualcuno. Già appare improprio e fuorviante l'uso di un termine comunemente inteso come qualcosa di etico: è assai raro che esista un "pentito", di terrorismo o di mafia. Più logico sarebbe limitarsi ad altre definizioni che non provochino equivoci: collaborante della giustizia, per esempio. E poi, sarebbe opportuno non fidarsi soltanto del pentimento di qualcuno per arrivare alla verità, sia pure quella processuale, che ha per sempre una sua importanza concreta. 

I magistrati assicurano che ogni dichiarazione venga verificata. Non deve essere sempre così, ché, altrimenti, sarebbero inspiegabili certi disastrosi crolli in inchieste che costate patrimoni in denaro e dolore, lacrime e sangue in chi le ha svolte oppure subite. Che conferme hanno trovato, e poi portato in aula gli inquirenti, dei racconti di quegli uomini del disonore che hanno collaborato a rendere concreti i sospetti, per esempio, su Bruno Contrada, ex funzionario del Sisde? Lui è stato condannato a 10 anni, in primo grado, poi assolto, infine rispedito dalla Cassazione davanti ai giudici. Ed è diventato un "caso".

Come altri. Come Giulio Andreotti, senatore a vita. Lo sospettavano e, per la verità, lo sospettano ancora, di aver garantito appoggio esterno alla mafia siciliana. Che la cosa fosse vera lo aveva garantito anche Balduccio Di Maggio, uno di "loro" e, forse anche per questo, attendibile. Lui aveva riferito anche di un episodio suggestivo ma assai difficile da provare: l'incontro in casa di Ignazio Salvo fra il "divo Giulio", Lima e Totò Riina, suggellato dallo scambio di un bacio fra il senatore e colui che indicavano come il capo di Cosa nostra. 

Quelle dichiarazioni del "pentito" avevano scatenato un uragano di sospetti, nebbie, dubbi, interrogativi. Ma non si erano trascinata dietro una prova provata e neppure un riscontro concreto. Cose che avrebbero dovuto trovare gli inquirenti. Risultato: assoluzione al processo di primo grado e incertezza enorme in quello d'Appello, tutt'ora in attesa di giudizio. Situazione capovolta a Perugia, dove la corte d'Appello ha recentemente condannato a 24 anni Andreotti quale mandante dell'omicidio di Mino Pecorelli, professione giornalista, dopo una prima assoluzione. E anche in questo caso i coni d'ombra che testimoni o pentiti si sono lasciati dietro hanno finito per soffocare il lavoro degli inquirenti. 

E quali certezze hanno raccolto i giudici nel processo per l'assassinio di Marta Russo? Che valore ha il racconto di Gabriella Alletto, pentita di aver collaborato? E quali certezze rimangono al cittadino che finisce per sentirsi frastornato dopo i racconti di "pentiti" che non si son mai pentiti davvero, e le assoluzioni, in un recente passato, di Corrado Carnevale, già presidente della Prima sezione penale della Cassazione, o di Francesco Musotto, presidente della provincia di Palermo? E a loro, gli accusati, bastano quelle assoluzioni o avvertono ancora il disagio per il sospetto collettivo? 

E poi, è davvero così poco credibile Stefania Ariosto, prima accusatrice di Cesare Previti e "pentita", lei pure, pare, di aver fatto parte di "quel" certo mondo? O lo è, poco credibile, soltanto perché non è stato possibile trovare i "riscontri" In fondo, i "pentiti" altro non sono che uno strumento della giustizia, forse l'ultimo in ordine di tempo. Soltanto che se ne abusa. E non sempre ci si imbatte in un Patrizio Peci, quello che, con le sue rivelazioni, fece smantellare la colonna torinese delle Brigate Rosse. Naturalmente, anche il suo fu un contratto che aveva un prezzo: l'impunità, o quasi. Come per tanti uomini del disonore. Con la differenza che lui in cambio dette qualcosa di concreto e attuale, non di astratto e passato. Ma si sa, dipende dalla trattativa. E poi, andare in caccia di certezze costa fatica. Forse per questo vien da domandarsi: Beccaria Cesare, chi era costui?

(30 DICEMBRE 2002, ORE 12:00)


 
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