Inchiesta UE sui CD
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Usa, 28 Stati fanno causa alle grandi case discografiche
"Hanno costituito un cartello per alzare i costi dei dischi"


"Prezzi dei cd troppo alti"
Le major sotto accusa



 

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NEW YORK - Ci hanno pensato 28 Stati americani a farsi portavoce di tutti quegli amanti della musica che ritengono i prezzi dei cd troppo alti. E lo hanno fatto in maniera diretta, senza tanti complimenti: facendo causa a 5 grandi compagnie discografiche (Emi, Warner Brothers, Sony, Universal, Bmg) e a grandi negozi di dischi come MusicLand e Tower Record, portandoli davanti al tribunale di Manhattan con l'accusa di aver costituito un cartello che, subdolamente, fa pagare troppo cara la musica di Madonna, Santana e gli altri big della canzone. E così il terribile Sherman act si abbatte anche sull'industria del divertimento.

Secondo l'accusa degli Stati che si sono costituiti in giudizio le 5 major della canzone impongono con un ricatto ai commercianti dei prezzi fissati ad un livello artificialmente alto. Sotto accusa, dunque, è finita la politica delle multinazionali, quella che in gergo viene chiamata "Map" (Minimum advertised pricing) grazie alla quale le compagnie garantiscono ai negozi sussidi per la pubblicità in cambio di un impegno a non vendere i dischi ad un prezzo al di sotto di quello minimo stabilito dalle industrie.

In questo modo, sempre secondo l'accusa, vengono penalizzati i consumatori che spendono più di quanto stabilirebbe il mercato e i commercianti che, sottoposti al ricatto, non possono abbassare i prezzi. "Questa azione illegale non suona come musica alle nostre orecchie", ha ironizzato il procuratore di New York Eliot Spitzer che insieme ai suoi colleghi ritiene violata la prima sezione dello Sherman Act, la legge che regola l'antitrust americana.

Le compagnie si difendono sostenendo la loro innocenza. La Bmg, attraverso il portavoce Nathaniel Brown, si dice sicura che il "Map" è "legittimo e siamo convinti che la corte arriverà alla stessa conclusione". Anche dalla Emi annunciano una "difesa vigorosa" e ricordano un accordo raggiunto con la Commissione federale del commercio a seguito del quale, Emi ha abbandonato la politica dei prezzi sotto accusa fin dal 19 giugno scorso.

(9 agosto 2000)
 

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L'ipotesi è che le cinque più grandi case discografiche
del mondo si siano accordate per imporre una sorta di cartello


Prezzi Cd, l'Ue
apre un'inchiesta

Lo scorso anno negli Usa iniziativa analoga contro
Emi, Bmg, Warner Music, Sony e Universal


 

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BRUXELLES - Che sul prezzo dei cd le grandi case discografiche si fossero messe d'accordo formando una sorta di cartello, agli americani il sospetto era venuto già un anno fa. Oggi è la Commissione europea ad avere lo stesso dubbio e per risolvero, seguendo l'esempio della Federal trade commission americana, ha aperto un'inchiesta sul mercato discografico: l'ipotesi è la stessa, e cioè che le cinque maggiori case produttrici mondiali di cd - Emi, Bmg (Bertelsmann), Warner Music, Sony e Universal - si siano accordate per tenere i prezzi allo stesso livello.

L'annuncio dell'apertura dell'indagine è stato dato da una portavoce del commissario alla Concorrenza, Mario Monti: "La Commissione europea - ha detto la portavoce Amelia Torres - sta indagando sui rapporti verticali, in altri termini sui contratti fra le maggiori case discografiche mondiali e venditori, per vedere se le case discografiche stiano attuando le stesse o simili pratiche per i prezzi al dettaglio in Europa". Queste "politiche", ha detto ancora, "puntano a tenere i prezzi alti". Vista anche la "conoscenza acquisita dalla Commissione in questo settore" attraverso il caso Emi e Time Warner, ha aggiunto, la "Commissione ha ritenuto adeguato avviare un'inchiesta in Europa".

L'iniziativa, ha rivelato la portavoce, non è stata presa sulla base di ricorsi: "La Commissione ha avuto contatti con associazioni di consumatori". L'inchiesta, avviata "su iniziativa propria della Commissione europea", ha sottolineato la Torres, "è a uno stadio molto, molto iniziale" e la "Commissione sta ancora solo raccogliendo fatti e cifre: non abbiamo nessuna prova che i gruppi siano colpevoli di pratiche anti-concorrenza in Europa". Quello dei cd è un mercato molto importante e "oligopolistico", ha sottolineato dal canto suo il portavoce dell'esecutivo Ue, Jonathan Faull.

Sono state inviate lettere per avere informazioni dai cinque gruppi discografici, a cinque rivenditori online e a 13 "tradizionali" che ora hanno un paio di mesi per rispondere. Sulla base di quelle informazioni e di altri dati raccolti, ha detto la Torres, la Commissione "arriverà alla conclusione se c'è un caso, o meno, da aprire a carico delle società" discografiche. La procedure potrebbe durare "uno e due anni".

(26 gennaio 2001)

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ANTITRUST / LE CASE DISCOGRAFICHE NEL MIRINO
Cd musicali, l'Antitrust indaga sul prezzo
Come si spiega che i Cd costano tutti la stessa cifra? Dopo l'indagine Usa e la multa dell'Italia, se lo chiede il commissario europeo alla concorrenza Mario Monti. Imputati, i big: Emi, Time Warner, Sony, Bertelsmann e Universal

di Luca Piana

Adriano Celentano vale quanto Jennifer Lopez, Fiorella Mannoia come gli U2, i Beatles quanto Lenny Kravitz. Almeno stando ai prezzi di copertina dei loro compact disc, tutti presenti fra i più venduti di queste settimane. La differenza fra i diversi artisti, generi musicali e produttori, nei dischi da alta classifica è infatti compressa in poco più di 2 mila lire: dalle 37.500 lire dei più economici alle 39.900 lire di quelli cari.

Un de Chirico può essere su tela come un Picasso, ma il suo valore è diverso. Nella musica c'è puzza di monopolio, di cartelli per difendere la posizione dominante delle major. Contro le quali si sono scatenati i siti Internet, come Napster, che permettono di scaricare musica gratis dal Web, ma anche le Autorità antitrust. Negli Stati Uniti, nell'Unione europea, in Italia.

L'esistenza di intese di cartello per mantenere elevati i prezzi è più di un sospetto. Anzi, per la Federal Trade Commission (Ftc), l'agenzia federale Usa che regola i commerci, è una certezza. La Ftc ha calcolato in 500 milioni di dollari il costo aggiuntivo sostenuto dai consumatori fra il 1997 e il 2000 a causa di un accordo stretto dalle cinque major che controllano l'85 per cento del mercato discografico americano e mondiale. Sul banco degli imputati Emi, Time Warner, Sony, Bertelsmann e Universal. Nei primi anni Novanta, negli Stati Uniti i prezzi erano crollati, grazie soprattutto alle catene hard discount: a fronte di una media per cd di 14 dollari, i supermercati della musica di una catena come Circuit City vendevano le nuove uscite a 8,95 dollari.

Le major sottoscrissero un accordo in base al quale i negozi tenevano alti i prezzi, in cambio di fondi per la pubblicità. I prezzi tornarono a salire, arrivando a sfiorare in media i 17 dollari. L'indagine della Ftc si è chiusa con una mediazione, l'impegno delle case discografiche a sospendere queste pratiche per sette anni, mentre una coalizione formata da 28 Stati americani ha dato il via a una causa legale chiedendo danni per milioni di dollari. I consumatori, intanto, hanno già ottenuto una vittoria parziale, almeno a giudicare dai prezzi dei cd delle due reginette del pop: "J.Lo", ultimo album di Jennifer Lopez, viene venduto a 13,28 dollari, "Oops! .... I did it again" di Britney Spears a 14,99 dollari.

Prima ancora della Ftc americana, si era mosso l'Antitrust italiano. Nel '97, l'Autorità, allora presieduta da Giuliano Amato, aveva accusato le major di falsare la concorrenza e aveva inflitto loro multe per un totale di 7,6 miliardi, confermate nel novembre scorso dal Consiglio di Stato. Forse, proprio il caso italiano ha contribuito a sollecitare l'attenzione del commissario europeo Mario Monti, che a sua volta indaga per scoprire eventuali accordi sui prezzi. Anche se si muove su un terreno impervio, con le major ormai allertate, Monti ha il tempo dalla propria parte, dato che non ha una scadenza. La speranza è che un'indagine europea produca effetti più tangibili di quelli visti in Italia. Le multe dell'Antitrust non hanno infatti inciso sui prezzi, a dispetto del tentativo di alcuni artisti, come i rapper napoletani 99 Posse, di lanciare i cd più a buon mercato. Gli operatori accusano le major di non aver cambiato la sostanza delle pratiche incriminate. Nel '97, l'Antitrust aveva puntato il dito su diversi fattori: lo stesso prezzo (20 mila lire) praticato ai rivenditori per tutte le hit, il contributo fisso per la promozione (3 mila lire), chiamato ticket-tv, e quello del 6 per cento per il trasporto.

Oggi ai rivenditori i cd da classifica costano fra le 26 mila e le 28 mila lire. «Le case non espongono più separatamente il ticket tv, ma lo hanno incorporato nel prezzo praticato al negoziante», sostiene Arnaldo Albini Colombo, presidente di Vendomusica, l'associazione di rivenditori che aveva dato il via all'indagine Antitrust. Anche il contributo per il trasporto non è scomparso, ma è stato limato dal 6 al 4 per cento dalla sola Universal e al 5 dalla Warner. «La reale incidenza del costo di trasporto è di circa il 2 per cento», aggiunge Albini, preoccupato dai forti sconti che le grandi catene di negozi praticano a proprie spese su album di grande richiamo: «Se trovo cd di fascia alta sottocosto, significa che altri prodotti vengono venduti a prezzi superiori».



Quella dei prezzi è solo una delle barricate che le major hanno alzato in difesa del loro oligopolio. Le altre riguardano Internet, dove le major hanno tentato di disinnescare situazioni esplosive come Napster, entrata nell'orbita del gruppo tedesco Bertelsmann, o Mp3.com, società californiana di musica online nel cui capitale è entrata la Universal. Inoltre hanno lavorato per dare il volto definitivo alla direttiva europea che rafforza la difesa del copyright sul Web. Alcuni ritengono però che tutti questi sforzi non basteranno, e che la facilità di trasferire file musicali renda dirompenti gli effetti della rivoluzione. «Il controllo del vecchio mercato era più semplice, mentre oggi i giovani non comprano più dischi e il grosso della musica sfugge alle major», sostiene Marco Conforti, titolare della Casi Umani, società che rappresenta le etichette di artisti come Elio e le Storie Tese, Neffa e i Sottotono. «A sfide come Napster; le case discografiche hanno risposto alla vecchia maniera, cioè comprandosele, ma ormai la difesa dei produttori non passa più per la protezione esclusiva del copyright», continua il manager. Non vuole essere un'ode al pirataggio, ma un'analisi economica attenta al diverso ruolo dei cantanti: «Cinque anni fa, il 30 per cento dei proventi di un artista arrivava dai dischi, mentre oggi siamo scesi al 10 per cento», spiega Conforti. I nuovi mezzi hanno cambiato il modo di fare e ascoltare musica, sempre più autoprodotta via computer da chi una volta si limitava ad ascoltarla, nonché facilmente trasferibile via Web, con sistemi sempre nuovi capaci di eludere ogni controllo. Le major sono avvertite, e il palazzo della musica tenterà di soffocare le novità. Ma nei suoi sottoscala cova la rivolta.

ha collaborato Patrick Di Maio

01.03.2001

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http://www.espressonline.kataweb.it/ESW_articolo/0,2393,9738,00.html

 

ANATOMIA DEL PREZZO

 

Come nasce un prezzo? Quali sono le variabili che ne fanno la genesi? E come interviene l'Authority garante per la concorrenza e il mercato.

E allora eccolo il cuore della questione: come nasce un prezzo? Si parte con l'acquisto del supporto vergine da un grossista, le rotte sono solitamente quelle asiatiche che passano per la Cina, Hong Kong Thailandia, Malesia e Taiwan: comprando a stock, si arriva a pagare un pezzo non più di 40 centesimi.

Il passo successivo è la stampa del master, cioè l'originale che serve a produrre le copie da immettere sul mercato. Il cd viene poi copertinato, fornito di inlay card (il libretto con i testi delle canzoni, le foto, i ringraziamenti) e confezionato. Il processo industriale di duplicazione su larga scala porta i costi a un euro circa. A questo punto la casa discografica pubblica il cosiddetto "Ppd", il prezzo per il dettagliante: siamo intorno agli 11-13 euro.

Più difficile è indicare con esattezza come sia possibile raggiungere questa cifra, quaranta e passa volte superiore a quella di partenza. A incidere, spiegano le major, sono la distribuzione (22%), i diritti d'autore (9%), la pubblicità (15%), i costi generali di mantenimento della struttura discografica (13%), l'affitto dello studio di registrazione (3%) e naturalmente l'ingaggio dell'artista (19%). Al Ppd va assommato il ticket tv (1,5 euro per un album singolo, 3 euro per uno doppio), che si applica indistintamente a tutti i cd, anche a quelli per i quali non è previsto alcun passaggio promozionale televisivo e che serve a coprire le spese televisive di reclamizzazione del prodotto. Dal '97 il ticket è stato incorporato al prezzo di listino, mentre prima era extra. Un'ulteriore variabile è il contributo per le spese di trasporto (delivery charge). A portare il costo al pubblico del cd tra i 20 e i 22 euro è l'applicazione dell'Iva (20%) e il ricarico del negoziante, fluttuante anch'esso ma compreso tra il 30% e il 40%. Ce n'è abbastanza per capire che affrontando le cifre col bisturi non si viene a capo di niente.

                                      

DAVIDE E GOLIA, L'INTERVENTO DELL'AUTHORITY

Il prezzo viene usato in modo insistente come argomento per spiegare la crisi del settore discografico. Qualcuno, in tempi non lontani, ha provato a mettere sotto la lente d'ingrandimento i meccanismi che regolano il mercato della musica. Il risultato è contenuto nei verbali dell'istruttoria aperta nel '96 dell'Autorità garante per la concorrenza e il mercato (Agcm) contro le cinque multinazionali della musica attive in Italia.

I giudici, dopo mesi di indagini, hanno condannato le majors a pagare una multa salatissima per aver fatto cartello e di fatto stabilito a tavolino i prezzi dei cd. Tecnicamente è stato riconosciuto che Emi Music Italy, Sony Musica Entertainment Spa, Warner Music Italia Spa, Bmg Ricordi Spa e Polygram Italia Srl (oggi Vivendi-Universal) si erano accordate per stabilire una "struttura uniforme dei prezzi di listino da praticare ai rivenditori". L'effetto è stato, sempre secondo l'Authority, quello di "falsare in modo consistente la concorrenza sul mercato discografico italiano". L'istruttoria ha coinvolto anche Fimi, in un primo tempo accusata di aver passato alle major tabulati con i dati disaggregati delle vendite, ma successivi accertamenti hanno dimostrato l'infondatezza di questo presunto ruolo di staffetta.

Oggi Fimi raccoglie i dati di andamento di mercato attraverso una società di revisione nota in tutto il mondo, la Price Waterhouse, che prepara tabulati fornendo solo l'aggregato. Anche questo è un riflesso indiretto della sentenza. Nel '96 dunque, per la prima volta al mondo, le majors discografiche vengono condannate da un autorità di controllo. "In pratica è stato accertato senz'ombra di dubbio che il comportamento delle case discografiche è stato lesivo della concorrenza - spiega Ombretta Main, a capo della Sezione F dell'Autorità garante, quella competente per settore merceologico della discografia -. Da alcuni verbali di riunioni sequestrati dalla Guardia di Finanza traspare in modo chiaro che le cinque multinazionali condividevano informazioni che in un mercato effettivamente concorrenziale sarebbero state invece gelosamente custodite. E se leggendo la sentenza molti di questi accertamenti appaiono evidenti, tutto risulta ancora più chiaro dall'analisi di alcuni documenti dichiarati come omissis nell'edizione "pubblica" del provvedimento".

Quindi un primo elemento certo: i prezzi dovrebbero avere margini di variazione maggiore fra loro. Questo almeno ha stabilito il provvedimento numero 5385 del 9 ottobre '97, con cui l'Authority ha condannato a multe oscillanti da uno a due miliardi di lire le cinque multinazionali della musica. Queste ultime però non hanno mai condiviso le conclusioni dei giudici. E anche se i ricorsi contro la sentenza sono stati respinti sia dal Tar sia dal Consiglio di Stato, ancora oggi, dopo aver pagato, contestano i criteri con cui si è giunti alla decisione. "Quella sentenza - commenta Federico Kujawska, responsabile relazioni esterne di Emi Music Italia - è viziata da un equivoco di fondo: non è stato possibile identificare con chiarezza quale fosse il "mercato rilevante" che si supponeva le multinazionali si spartissero. Peccato che questo sia uno degli elementi cruciali per stabilire se c'è stata o meno una posizione dominante. A dirlo, tra l'altro, è stata l'Authority stessa, che nel suo bollettino settimanale, qualche tempo dopo la sentenza, ha ammesso che restano forti dubbi sul modo in cui si è stabilita la colpevolezza delle majors".

La determinazione delle multinazionali nel ritenere infondata la condanna dell'Authority perché costruita sulla base di prove esclusivamente indiziarie provoca irritazione nei palazzi romani di via Liguria, dove ha sede l'Autorità garante per la concorrenza. "E' quantomeno bizzarro - commenta ancora Ombretta Main - che a più di quattro anni dal procedimento, e dopo che due gradi di giustizia amministrativa ci hanno dato ragione, qualcuno si accanisca ancora a contestare quella sentenza. Tra l'altro, se normalmente organi come Tar e Consiglio di Stato danno solo un giudizio di legittimità, nel caso specifico dei cd sono invece entrate nel merito, stabilendo che il metodo utilizzato per identificare il mercato rilevante è stato scientificamente adeguato".

Chi invec

e non mette in dubbio il risultato del provvedimento dell'Authority è l'Associazione fonografici italiani, che rappresenta 145 case discografiche e circa 600 artisti. "La sentenza che ha multato le major è giusta, la posizione di cartello c'era eccome - spiega Franco Bixio, presidente di Afi -. Oggi però qualcosa è cambiato in meglio, soprattutto nel dialogo tra multinazionali e negozianti".

 http://www.ilnuovo.it/nuovo/foglia/0,1007,111691,00.html

 

 
 http://www.corriere.it/Primo_Piano/Scienze_e_Tecnologie/2006/11_Novembre/08/copyright.shtml

Internet e copyright La pirateria online? «Un bluff» Secondo l'Istituto di Criminologia Australiano, i fenomeno sarebbe soltanto una «iperbole auto-promozionale» STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO 
AUSTRALIA – Le case discografiche, le major del cinema e i produttori di software non abbandonano la lotta contro internet e il peer-to-peer, e sono sempre più numerose le iniziative intraprese dai tutori del copyright di molti Paesi a danno di cittadini accusati di pirateria online. Perché, secondo loro, l’attività di questi pirati della rete danneggia inesorabilmente l’industria e il mercato. 
ARGOMENTI CONTRO – Tuttavia, c’è anche chi non la pensa così e sostiene invece che le statistiche sulla pirateria digitale sono assurde. La voce in questione è quella dell’Istituto di Criminologia Australiano, che ha stilato un rapporto sull’argomento, definendo i dati in possesso dei sostenitori della battaglia anti-pirateria come un’iperbole auto-promozionale. Secondo il documento redatto dall’Istituto, infatti, i detentori del diritto d’autore non spiegano con quali criteri siano riusciti a determinare il volume delle perdite finanziarie attribuite al fenomeno sotto accusa. Le cifre elaborate dalla Business Software Association australiana (Bsaa) nel 2005, per esempio, rivelano che tale perdita (in termini di vendite) ammonterebbe a circa 361 milioni di dollari all’anno: numeri «non verificabili ed epistemologicamente inaffidabili» – secondo il report – che non è legittimo utilizzare in tribunale a sostegno della causa. 
LA DIFESA – Il presidente della Bsaa, Jim Macnamara, si è prontamente espresso a sostegno delle informazioni fornite dalla sua associazione, spiegando che i numeri citati sono stati confermati anche da altri studi. Inoltre, ha aggiunto Macnamara, chi li contesta può dirsi poco convinto, ma non ha titolo per dire che siano dati non verificati. 
Alessandra Carboni
09 novembre 2006