Selene Pascasi*, 28 novembre 2006
Il caso
italiano L'italiano medio e il clandestino:
diversi solo per un "destino di nascita", ma uguali per diritto
e per coscienza ... è questo il messaggio della Corte di Cassazione?
Con la sentenza n. 30774 del 2006, la Corte di Cassazione, prima
sezione penale, si è pronunciata sulla delicata questione degli immigrati
clandestini, troppo spesso itineranti sul binario di una illegalità
forzata, per via di una oggettiva impossibilità di rispettare le
disposizioni loro rivolte.
E' il caso di Malina, una rumena trovata senza regolari documenti di
soggiorno e accusata di mancata ottemperanza all'ordine di allontanamento
dal territorio italiano: reato previsto e punito dall'articolo 14 del
Testo Unico di regolamentazione della materia rivolta all'immigrazione e
alla condizione dello straniero.
La difesa della donna, nel corso del primo grado di giudizio, aveva
fornito adeguate delucidazioni, al giudice di merito, circa il tenore di
vita di Malina, motivandone e giustificandone l'illecita condotta, alla
luce del comprovato stato di indigenza nel quale versava ormai da tempo.
Il Tribunale di Roma, davanti al quale risultava incardinato il processo,
decideva la causa, assolvendo l'extracomunitaria con la formula
"perché il fatto non sussiste". La motivazione fornita, sta
nella provata ed assoluta impossibilità della imputata, di tornare nel
suo paese d'origine, risultando "sprovvista del denaro occorrente al
rimpatrio, circostanza plausibile essendo emerso che alloggiava presso uno
scalo ferroviario".
Contro la suddetta sentenza ha fatto ricorso la Procura della Corte di
Appello di Roma. Per i magistrati di piazza Cavour, "il mero disagio
economico dipendente dall'ingresso nello Stato, senza disporre di mezzi e
dalla mancanza di occupazione connessa alla situazione di clandestinità
volontariamente posta in essere" non può considerarsi "motivo
di giustificazione che deve avere le connotazioni di necessità
inevitabile".
Ma gli ermellini decidono di rigettare il ricorso così proposto, non
solo per la "rilevata difettosa comunicazione degli atti inerenti
l'espulsione", non comunicati a Malina nella sua lingua, in
violazione di quanto disposto dall'articolo 13 del D.Lgs. 286/98, e
pertanto non ben compresi, ma anche e soprattutto per una motivazione dal
sapore squisitamente dottrinale.
In effetti, la pronuncia della Suprema Corte si snoda tutta intorno
alla inevitabile necessità che avrebbe impedito l'ottemperanza
all'obbligo impartito, facendo riferimento, oltre che ai principi propri
della scienza penale, anche alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 5
depositata in data 13 gennaio 2004.
Si legge nella sentenza appena citata, che, seppur va detto che la ragione
giustificatrice della mancata ottemperanza all'imposto allontanamento
"non può essere costituita dal mero disagio economico di regola
sottostante al fenomeno migratorio" essa può risultare
"integrata da una condizione di assoluta impossidenza dello
straniero, che non gli consenta di recarsi nel termine alla frontiera (in
particolare aerea o marittima) e di acquistare il biglietto di
viaggio".
Ebbene, dall'istruttoria di primo grado, l'oggettiva "impossidenza"
al rimpatrio, aveva trovato pieno riscontro probatorio, sia alla luce
delle dichiarazioni rese dalla stessa imputata, e sia, per parola degli
ermellini, alla luce delle "accertate condizioni di estrema precarietà
abitativa". E' per queste motivazioni, che i Giudici di legittimità
hanno ritenuto di assolvere la clandestina Malina, prendendo così le
distanze da talune posizioni "rigoriste", che paiono auspicare
il legale "risveglio" del trapassato reato di clandestinità.
Per opportuna notizia, si vuole sottolineare che l'atteggiamento assunto
dalla Suprema Corte, con la pronuncia qui commentata, si ravvisa altresì
in un altro caso giudiziale, sempre relativo alla problematica
dell'immigrazione clandestina, e deciso a Sezioni Unite.
Ci riferiamo alla sentenza stilata a chiusura del procedimento mosso a
carico di tal Rackid H., marocchino espulso dal nostro paese per
provvedimento del prefetto di Pesaro e Urbino, stante l'irregolarità del
soggiorno.
L'extracomunitario decide di rivolgersi al tribunale per i minorenni
presso la Corte d'appello di Ancona, chiedendo la sospensione dell'ordine
di allontanamento, per impellenti necessità familiari, che avrebbero reso
necessaria la sua presenza in Italia, almeno per qualche tempo. In
effetti, Rackhid, sposatosi con una connazionale residente regolarmente
nel nostro paese, è diventato papà di una bimba, nata ad Urbino nel 2002
ed iscritta nel medesimo permesso di soggiorno della madre.
A sostegno dell'auspicata sospensione, il marocchino pone le descritte
condizioni personali, con particolare riferimento all'esigenza di
provvedere alla cura della figlia minore, da lui sempre seguita ed
iniziata all'educazione scolastica. In effetti, sottolinea, l'espulsione
dal territorio italiano avrebbe cagionato pregiudizio alla salute
psico-fisica della piccola, d'improvviso privata della figura paterna.
La sua istanza è stata dunque accolta da parte dei giudici minorili, che
autorizzano il soggiorno in Italia dell'uomo, almeno per un triennio,
fatta salva la possibilità di altra proroga.
Contro questa pronuncia, propone ricorso il procuratore competente,
investendo della questione la Corte d'appello di Ancona, la quale, nel
2004, decidendo in maniera difforme dalle prime cure, revoca la decisione
del Tribunale e ordina l'espulsione di Rackhid, imputandone le motivazioni
all'insussistenza di una "situazione di emergenza" tale da
determinare "un pericolo attuale per il minore".
Secondo la Corte, inoltre, che non "valeva il principio del superiore
interesse del minore, poiché esso non poteva essere invocato per
consentire la deroga alla disciplina dell'immigrazione, ma doveva trovare
attuazione solo nel rispetto delle norme che lo regolavano, nell'ambito
delle relazioni familiari".
Il caso arriva, per presa di posizione del marocchino, di fronte alla
Suprema Corte, la quale, con sentenza n. 22216/06, accoglie il ricorso
presentato da Rackhid, proprio in nome del preminente diritto della
piccola a crescere con la figura paterna, diritto che qualifica
espressamente come "interesse specifico e pressante che va tutelato,
anche in deroga delle disposizioni in materia di immigrazione, ancorché
per un periodo determinato".
I Giudici aggiungono che, siccome "sia l'espulsione che il
ricongiungimento familiare svolgono direttamente diritti soggettivi, il
provvedimento del giudice che decide sulla deroga ai divieti che
precluderebbero l'ingresso e la permanenza del familiare non può non
decidere su veri e propri diritti, paralleli e concorrenti seppure non
contrapposti, del minore e del familiare e non su un mero interesse del
solo minore", con ciò non negando "la decisorietà del
provvedimento il quale incide sul diritto del minore ad essere assistito
da un familiare nel concorso delle condizioni richieste dalla legge e,
contemporaneamente, su quello del familiare a fare ingresso in Italia e a
trattenervisi per prestare la dovuta assistenza".
In sintesi, gli ermellini hanno finito per aderire alla posizione assunta
dai primi giudicanti, ritenendo che "l'autorizzazione non è stata
fondata sulla mera constatazione della presenza in Italia di una figlia in
tenera età, bensì sull'accertamento concreto del grave pregiudizio che
alla minore sarebbe derivato dalla perdita improvvisa della figura paterna
per effetto della sua espulsione".
In un clima di tensione politica e di duelli parlamentari, quale quello
attuale, era prevedibile l'ondata di pareri, critiche e perplessità,
conseguente alle due pronunzie finora descritte.
Si annovera, sul fronte delle opposizioni al percorso giurisprudenziale
intrapreso dalla Suprema Corte, il senatore Mantovano (AN), per il quale
si assisterebbe a pronunce di Cassazione inserite in un "solco
consolidato di provvedimenti giudiziari che, da quando è in vigore la
Fini Bossi, provano in vario modo a disapplicarla, se non a sabotarla
apertamente".
Di pari avviso è il senatore Pirovano (Lega Nord), il quale, a protesta
di quanto da lui definito "l'assurdo legislativo applicato da questi
signori con l'ermellino", continua così: "Allora io dico che
sono giustificati anche i reati commessi dagli italiani indigenti. Se uno
ruba in un supermercato oppure ruba una bicicletta o un motorino, perché
non se li può permettere, è considerato esente dal rispettare sia il
codice civile o il codice penale. Questo dovrebbe valere per tutti gli
esseri umani residenti sul territorio nazionale".
Certamente, la parola clandestinità è sintomo di una situazione
difficile, al limite delle forze umane e delle possibilità di un futuro
certo; quando si dice immigrato, talvolta si percepisce nello sguardo
dell'interlocutore un auspicio di eguaglianza, ma talaltra, purtroppo, e
specie nelle realtà locali, si toccano con mano retaggi di razzismo.
In tutto ciò, non può non riconoscersi l'evidente ruolo dei media,
spesso fomentatori di quella etichetta, dal sapore amaro, cucita addosso
agli extracomunitari e di cui questi uomini non riusciranno a spogliarsi
facilmente ... e a poco varranno i gesti di umanità e gli slanci di
solidarietà compiuti da clandestini dei quali non si ricorda neppure il
nome, ma che la scorsa estate hanno dato prova di grande altruismo. Il
riferimento è ai giovani Nasser Othman, che salva la vita a tre ragazzi e
poi viene espulso perché irregolare, e alla honduregna Iris Palacios Cruz,
che sacrifica la sua vita per salvare quella della bimba della quale si
prendeva cura, e della quale oggi resta solo una medaglia alla memoria.
Se non si può negare l'illegalità in cui molti immigrati vivono, non si
può non riflettere sul fatto che, spesso, la nostra esistenza è migliore
e meno precaria della loro, ma solo per una questione di "fortuna di
nascita". I giovani immigrati, che siedono stanchi sui bordi delle
strade e che lavorano incessanti senza tutela alcuna e senza garanzie, non
sono né migliori, né peggiori dell'italiano medio, sono solo meno
fortunati e talvolta più generosi del vicino di casa ... e non può una
mera irregolarità burocratica fare tabula rasa dei diritti fondamentali
di ciascun individuo.
Un tal messaggio, così come lanciato dai giudici di Piazza Cavour,
rincuora e incoraggia ad una riconsiderazione dell'immigrato, con mente
sgombra da pregiudizi o rancori.
*Avvocato, esperta di diritto minorile e di famiglia,
specializzata in diritto penale
PUBBLICATA SU http://www.aprileonline.info/818/gli-immigrati-e-gli-ermellini
che si ringrazia per l'autorizzazione alla pubblicazione.
Là è possibile trovare commenti alla sentenza.