TRIBUNALE DI
ROMA
R.G.
783/2001
Il Tribunale in composizione collegiale, costituito dai magistrati:
dott.
Mario Bresciano – presidente
dott.
Gennaro Francione - giudice
dott.
Laura Scalia - giudice
v.
gli atti del procedimento penale a carico di:
Tizio,
Caio, Sempronio, Mevio
Imputati
Tizio:
a) artt. 81, 110, 319 CP; b) art. 81, 476 e 482 cp; c) art. 48, 81,
479 cp; d) artt. 81, 110, 314, 61 n. 2 cp; e)
artt. 81, 624, 625 n. 7, 61 nn. 2 e 9 c.p. Fatti commessi in Roma fino al
tutto il 1996.
Caio:
f) art. 81, 110, 319 cp; In Roma fino al settembre 1996;
Sempronio:
i) art. 321 cp in relazione all’art. 319 cp; In Roma, nel novembre 1996;
Mevio:
o) art. 321 in relazione all’art. 319 c.p.; In Roma nel gennaio 1996;
premesso in fatto che:
Gli
odierni imputati sono stati rinviati a giudizio, dopo l’udienza
preliminare, per rispondere dei reati sopra indicati e meglio descritti
nei capi d’imputazione.
Vi è stata costituzione di parte civile.
Il processo era oggi fissato per la sola discussione.
All’odierno dibattimento l’imputato, Tizio tramite difensore
munito di procura speciale, ha chiesto la sospensione del processo ai
sensi dell’art. 5, comma 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134;
i
difensori degli altri imputati, privi di procura speciale, hanno chiesto
ugualmente la sospensione del processo ai sensi della norma citata;
considerato in diritto che:
1.
L’art. 5, della legge 12 giugno 2003, n. 134, stabilisce che:
1.
L'imputato, o il suo difensore munito di procura speciale, e il pubblico
ministero, nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in
vigore della presente legge, in cui sia prevista la loro partecipazione,
possono formulare la richiesta di cui all'articolo 444 del codice di
procedura penale, come modificato dalla presente legge, anche nei processi
penali in corso di dibattimento nei quali, alla data di entrata in vigore
della presente legge, risulti decorso il termine previsto dall'articolo
446, comma 1, del codice di procedura penale, e ciò anche quando sia già
stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte del
pubblico ministero o la richiesta sia stata rigettata da parte del
giudice, e sempre che la nuova richiesta non costituisca mera
riproposizione della precedente.
2.
Su richiesta dell'imputato il dibattimento è sospeso per un periodo non
inferiore a quarantacinque giorni per valutare l'opportunità della
richiesta e durante tale periodo sono sospesi i termini di prescrizione e
di custodia cautelare.
3. Le disposizioni dell'articolo 4 si applicano anche ai procedimenti in
corso. Per tali procedimenti la Corte di cassazione può applicare
direttamente le sanzioni sostitutive.”
Questo
Tribunale dubita della legittimità costituzionale della norma per
contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione.
La
norma non appare ragionevole sotto diversi profili in particolare:
a)
in relazione al disposto del comma 1, che consente di formulare la
richiesta anche oltre il termine fissato dall’art. 446, comma 1, CPP;
b)
in relazione al disposto del comma 2, che impone, su richiesta
dell’imputato, una sospensione di 45 giorni, fissando il termine di
decorrenza dalla prima udienza utile successiva alla data di
pubblicazione;
c)
in relazione al disposto del comma 3 che dispone applicarsi le
disposizioni dell’art. 4 della medesima legge anche ai processi in
corso;
2.
In primo luogo, in relazione al contrasto con il principio di
ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. si osserva che l’istituto della
pena concordata è stato introdotto nel codice di rito vigente per
determinare un effetto deflattivo del procedimento penale. In sostanza si
è concesso alle parti di concordare la pena per evitare i costi in
termini di tempo, di risorse umane e finanziarie determinate dalla
complessità dell’udienza preliminare o del dibattimento; in cambio di
tale risparmio, l’imputato gode di uno sconto di un terzo della pena.
Tale
principio è stato affermato anche dalla Corte costituzionale con sentenza
n. 129 del 1993, laddove afferma, con riferimento ai riti speciali, che
“l’interesse dell’imputato a beneficiare dei vantaggi conseguenti a
tali giudizi in tanto rileva, in quanto egli rinunzia al dibattimento e
venga perciò effettivamente adottata una sequenza procedimentale che
consenta di raggiungere l’obiettivo di una rapida definizione del
processo”. Il carattere premiale del rito previsto dall’art. 444 cpp
è stato ancora confermato dall’ordinanza n. 172 del 1998 di codesta
Corte.
Ne
consegue che lo sbarramento previsto dall’art. 446 comma 1 CPP per
l’introduzione del rito ha una sua logica ferrea ed ineludibile,
altrimenti verrebbe meno il principio stesso su cui si fonda il rito
premiale.
Il
legislatore, con la novella del 2003, avrebbe dovuto consentire di
presentare la richiesta lasciando inalterato il limite di cui all’art.
446, comma 1, CPP. Invece non ha operato neppure una distinzione fra i
processi per i quali è stato aperto il dibattimento, ma non è stata
compiuta alcuna attività istruttoria e processi per i quali
l’istruttoria è già avanzata o addirittura è stato dichiarato chiuso
il dibattimento e si è in fase di discussione.
Consentire la riduzione della pena anche a chi non ha fatto
risparmiare alcuna risorsa allo Stato e ai cittadini, dopo che è stata
celebrata l’udienza preliminare o il dibattimento è stato celebrato ed
è stato addirittura dichiarato chiuso ed è addirittura in corso la
discussione, non appare ragionevole e contrasta con i principi che
sottendono l’istituto dell’applicazione della pena concordata.
3. Si ravvisa l’ulteriore
contrasto con l’art. 111 Cost. oltre che, sotto diverso profilo, con
l’art. 3 Cost.
Quest’ultimo,
nella parte relativa alla ragionevole durata del processo, è di recente
introduzione e trae il suo fondamento nei principi enunciati dalla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, ratificata dalla l. 4 agosto 1955, n. 848.
Appare
opportuna qualche riflessione sull’interpretazione dell’art. 111 Cost.
e sugli interessi che esso tutela. Occorre, cioè, chiarire se il
principio della ragionevole durata del processo debba essere riferito solo
all’interesse di ogni singolo imputato – anche nel caso si tratti di
processo con più imputati - oppure si riferisca anche a tutte le altre
parti processuali, oppure
anche agli interessi dello Stato e dei cittadini in generale. E’ ovvio
che se la speditezza processuale va intesa con riferimento al singolo
imputato il quale, a seconda dei casi, ha interesse ad un processo più
lungo nella speranza della prescrizione del reato o più breve, attraverso
riti alternativi, prescindendo dagli interessi delle altre parti di quel
medesimo processo e anche da interessi superiori della cittadinanza a
vedere celebrati tutti i processi con sollecitudine, la richiesta di rito
alternativo effettuata anche in corso di un processo in cui
l’istruttoria dibattimentale sia già iniziata o addirittura terminata,
non incontrerà ostacoli nell’art. 111 della Cost. Se, invece,
l’interpretazione della ragionevole durata va commisurata anche ad altri
interessi, è necessario svolgere alcune considerazioni.
In
primo luogo si osserva che nell’attuale sistema i poteri decisori del
giudice sono stati ampiamente ridotti in favore di quelli delle parti.
Ogni volta che sia disposta la rinnovazione del dibattimento,
l’istruttoria dibattimentale deve ricominciare da capo, salvo nel caso
in cui le parti prestino il consenso alla lettura. Nel caso, perciò, di
un processo con più imputati, di cui solo uno chieda la sospensione del
processo, ai sensi dell’art. 5 comma 2 della legge 134/2003, e
successivamente chieda l’applicazione della pena, il giudice deve,
innanzitutto, stabilire se proseguire il processo nei confronti dei
coimputati, effettuando uno stralcio della posizione del richiedente, che
potrebbe rivelarsi poi inutile, con dispendio di energie e di attività
processuali; se, poi, anziché sospendere il processo anche nei confronti
dei coimputati, lo rinvia in attesa del decorso dei 45 giorni prescritti e
all’udienza successiva l‘interessato richiede l’applicazione della
pena, l’accoglimento dell’istanza renderebbe il giudice incompatibile
a giudicare gli altri coimputati; il rigetto della richiesta lo renderebbe
ugualmente incompatibile a giudicare l’imputato; in entrambi i casi il
processo dovrebbe iniziare ex novo
innanzi ad altro giudice, con rinnovazione dell’istruttoria
dibattimentale. In tal caso non vi sarebbe speditezza processuale né per
l’interessato né per i coimputati, ma, anzi una dilatazione dei tempi
della decisione (tra l’altro già maturi perché l’istruttoria era
esaurita); con la conseguenza che ad una decisione con rito ordinario
ormai certa nel tempo, si sostituisce un’attività interlocutoria di
sospensione che potrebbe concludersi con il rigetto della richiesta di
applicazione della pena e con la necessità di celebrare ex
novo il processo con rito ordinario.
Questo tribunale non ignora che la Corte, con sentenza n. 266 del
1992, ha affermato che “l’applicazione della pena concordata con il
pubblico ministero da uno solo degli imputati di concorso nel medesimo
reato costituisce un procedimento congegnato come pattuizione tra imputato
richiedente e parte pubblica, in ordine al quale è previsto un controllo
giurisdizionale che non include però la valutazione delle posizioni dei
coimputati”. La questione, tuttavia, era stata esaminata solo con
riferimento all’art. 3 della Costituzione ed inoltre, era afferente ad
una disposizione ordinaria e non all’introduzione di una norma
transitoria, come quella oggi denunciata, che mira ad applicare
l’istituto a tutti i procedimenti in corso, anche se in fase
dibattimentale. Sicché è questione nuova e diversa. Inoltre la sentenza
citata era antecedente alla riforma dell’art. 111 della Costituzione.
4. Si
osserva, inoltre che, nel caso di applicazione della pena, la parte civile
costituita vedrebbe crollare le proprie legittime aspettative, dovendo
ricominciare il processo ex novo
sia nei confronti dei coimputati innanzi ad altro giudice sia
separatamente – in sede civile - nei confronti di colui che è stato
ammesso al “patteggiamento”. E’ vero che la Corte ha affrontato il
problema relativo all’esclusione della parte civile nel rito de
quo (v. sent. N. 443/1990), ma è pur vero che si trattava di
decisioni che si riferivano al sistema “ordinario” di applicazione
della pena e non di norma transitoria, come quella in esame che interviene
a disciplinare un giudizio in corso in cui la parte civile sta già
esercitando il proprio diritto con una legittima aspettativa di rapida e
normale decisione. Sicché anche sotto tale aspetto la frustrazione dei
diritti della parte civile e della ragionevole durata – anche per lei
– del processo finisce con il violare i principi di ragionevolezza e di
giusto processo di ragionevole durata stabiliti dagli artt. 3 e 111 della
Costituzione.
5.
Questo Tribunale ritiene che l’interpretazione estensiva dell’art. 111
Cost. sia maggiormente fondata anche alla luce della produzione
legislativa che ha fatto seguito alla modifica della norma costituzionale.
E’ noto, infatti, che l’Italia è stata più volte condannata dalla
Corte europea per l’eccessiva durata dei processi. La condanna prescinde
da eventuali responsabilità dei giudici, ma si fonda sul principio che
ciascun paese deve dotarsi di leggi processuali che consentano una rapida
definizione dei processi. Già da molti anni vi sono paesi, come la
Danimarca e l’Olanda, che sono in grado di definire la maggior parte dei
processi in primo grado nell’arco di tre mesi, esaurendo l’appello nel
successivo trimestre. Ciò è dovuto ad una semplificazione soprattutto
del sistema delle notificazioni, all’esistenza di maggiori obblighi di
diligenza delle parti processuali, ivi compresi gli imputati. E’ chiaro
che in sistemi siffatti la sospensione di un processo anche solo per 45
giorni, ossia oltre un terzo del tempo complessivo di definizione, sarebbe
inaccettabile.
Per
ovviare alle condanne in sede europea in Italia è stata introdotta la
normativa statale (l. 24 marzo 2001, n. 89) che consente alle parti
un’equa riparazione allorché il processo abbia avuto una durata
eccessiva, indipendentemente dalle ragioni che l’abbiano determinata.
L’equa riparazione non spetta solo all’imputato, ma anche alla parte
civile.
Da
ciò si evince che la ragionevole durata del processo non è un diritto
solo dell’imputato, ma anche delle altre parti processuali, ivi compresa
la parte civile, ed assurge, quindi a principio generale.
Assume rilievo, nel sistema, ad esempio, l’art. 477 C.P.P. che
impone tempi rapidissimi per la definizione del dibattimento, stabilendo
che il rinvio del processo dev’essere effettuato al giorno successivo e
che il processo può essere sospeso solo per ragioni “di assoluta
necessità” e “per un termine massimo di dieci giorni”, computate
tutte le dilazioni.
Si
rileva, inoltre, che nel caso di giudizio immediato, è previsto il
termine di 15 giorni per la richiesta di pena concordata, ossia un tempo
che è esattamente un terzo di quello oggi previsto dalla novella, pur
vertendosi in materia analoga.
Se
tale assunto è corretto, deve ritenersi che non corrisponde ai parametri
costituzionali di ragionevolezza (art.3 Cost). e di ragionevole durata
(art. 111 Cost.) la norma che consente di sospendere il processo per 45
giorni e di richiedere l’applicazione della pena anche nei processi in
corso.
6.
Come s’è prima precisato, l’art. 5, comma 2, della legge 12 giugno
2003, n. 134, stabilisce che : “Su richiesta dell’imputato il
dibattimento è sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque
giorni per valutare l’opportunità della richiesta e durante tale
periodo sono sospesi i termini di prescrizione e di custodia cautelare”.
Premesso
che la disposizione s’applica a tutti i processi in corso, perciò
perfino ai processi per in fase di discussione, si rileva che non appare
ragionevole la concessione di un termine decorrente dalla prima udienza
utile. Sotto tale profilo si osserva che ogni cittadino è tenuto a
conoscere le leggi pubblicate. Pertanto ogni imputato è stato posto in
grado, nel momento in cui la legge in esame è stata pubblicata, di
valutare l’opportunità di avvalersi della pena concordata. A maggior
conforto di tale assunto si rileva che ogni imputato è assistito da un
difensore, sicché ha avuto modo di consultarsi con lo stesso per valutare
l’opportunità di avvalersi della pena concordata. La concessione di un
termine di durata notevole, (ossia ben quarantacinque giorni), in rapporto
ai parametri sopra esposti, decorrente dalla prima udienza anziché dalla
vigenza della legge, appare irragionevole. Tale irragionevolezza appare di
tutta evidenza allorché la fase istruttoria sia esaurita o il processo
sia addirittura in fase di discussione, e, quindi, l’imputato ha potuto
valutare tutto il materiale probatorio e rendersi conto della convenienza
eventuale di concordare la pena.
Una
volta accertato che il rapporto esistente tra imputato e difensore
consente ad entrambi di valutare momento per momento le opportunità di
scelte processuali e che, dunque, non v’è lesione del diritto di difesa
ammettere che l’imputato, alla prima udienza utile, debba dichiarare se
intende “patteggiare” o no, anziché chiedere un lungo termine di
riflessione, deve ritenersi che la sospensione obbligatoria per 45 giorni
incida sulla ragionevole durata del processo. Nel bilanciamento tra
l’interesse dell’imputato e l’interesse generale ad una durata
ragionevole - posto che nessun danno deriva all’imputato nel
dichiarazione alla prima udienza utile se intende concordare la pena -
sembra dover prevalere la ragionevole durata del processo.
7. Il
Tribunale prospetta il dubbio di legittimità, per contrasto con gli artt.
3 e 111 della Costituzione, anche dell’art. 1 della legge 12 giugno
2003, n. 134, il quale stabilisce quanto segue:
“Il
comma 1 dell'articolo 444 del codice di procedura penale è sostituito dai
seguenti:
«1. L'imputato e il pubblico
ministero possono chiedere al giudice l'applicazione, nella specie e nella
misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria,
diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa,
tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera
cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria.
1-bis. Sono esclusi
dall'applicazione del comma 1 i procedimenti per i delitti di cui
all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, nonché quelli contro coloro che
siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza,
o recidivi ai sensi dell'articolo 99, quarto comma, del codice penale,
qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria».
Con
la norma in esame si sottrae al giudizio di cognizione piena la
maggioranza assoluta dei reati, molti dei quali di notevole gravità,
trasformando di fatto il rito speciale di applicazione della pena in un
rito generalizzato, in violazione dei principi costituzionali di
ragionevolezza e di formazione della prova in contraddittorio di cui agli
artt. 3 e 111 della Cost., già consacrati nella Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo. L'art. 6, primo comma, primo
periodo della l. 4 agosto 1955, n. 848, di ratifica della convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali,
stabilisce che: “Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata
imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte
di un tribunale indipendente ed imparziale, costituito dalla legge, che
deciderà sia in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni
di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale
elevata contro di lei”.
Il terzo comma del medesimo articolo, in
particolare alla lettera d), sancisce “il diritto di interrogare o fare
interrogare i testimoni a carico ed ottenere la citazione e
l’interrogatorio dei testimoni a discarico a pari condizioni dei
testimoni a carico”. In sostanza l’articolo citato sancisce il
principio del contraddittorio nel processo, poi recepito dall’art. 111,
commi 1, 2 e 4 della Cost. come novellato nel 1999. In altri termini il
principio che regola l’accertamento della responsabilità penale è
fondato su di un giusto processo che preveda una fase di cognizione piena
con un contraddittorio che ponga le parti “in condizioni di parità”,
come espressamente stabilito dal comma 2° della norma costituzionale in
esame. Né sembra ragionevole ritenere che il principio generale possa
essere derogato dal comma 5 dell’art. 111, laddove afferma che “La
legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in
contraddittorio per consenso dell’imputato” e ciò per due ragioni.
In
primo luogo perché la modifica dell’art. 444 CPP consente per un
elevatissimo numero di reati, in sostanza la maggioranza, di concordare la
pena, così introducendo di fatto il principio generale che la
responsabilità penale non va accertata - infatti la sentenza cosiddetta
di patteggiamento non è sentenza di condanna, ma solo a questa equiparata
sotto alcuni aspetti – mentre soltanto per un ristretto numero di reati
si perviene ad un accertamento di responsabilità con cognizione piena.
In
secondo luogo la deroga stabilita dal quinto comma dell’art. 111 non
sembra possa riferirsi ad una sentenza di applicazione di pena, ma solo
intendersi come rinuncia alla formazione della prova in contraddittorio,
in un regolare processo di cognizione, quando l’imputato vi consenta.
Tale interpretazione è fondata sulla circostanza che altrimenti il comma
quinto dell’art. 111 si porrebbe in contrasto con il comma secondo del
medesimo articolo, laddove stabilisce dapprima il principio secondo cui il
contraddittorio tra le parti è la regola generale a fondamento del
processo e poi stabilisce che le parti debbono essere in condizioni di
parità.
A
tal riguardo la sentenza di codesta Corte n. 129 del 1993 già affermava
che il nostro sistema processuale è “imperniato sulla formazione della
prova in dibattimento.”
8. A
ciò si aggiunge che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo, stabilisce che il processo debba essere celebrato
“pubblicamente”.
La
pubblicità del processo è anche un carattere essenziale di uno stato
democratico ed è garanzia di uguaglianza dei cittadini di fronte alla
legge. L’applicazione della pena avviene in camera di consiglio.
Se,
dunque, per un numero ridotto di reati e, in particolare per quelli di
minore gravità può avere una sua logica il procedimento previsto
dall’art. 444 CPP, che non prevede la pubblicità dell’udienza e un
accertamento pieno di responsabilità, trasformare quest’ultimo nel
procedimento di più vasta applicazione, riducendo il rito ordinario di
cognizione piena ad ipotesi minoritaria e relativa solo a reati di massima
gravità, e limitando fortemente i casi in cui il processo è pubblico
sembra contrastare con il principio di ragionevolezza e con principio che
il processo è condotto in contraddittorio e con formazione della prova in
dibattimento mediante un “giusto processo” e con pari dignità di
tutte le parti (artt. 3 e 111 Cost.).
Reati
con pena edittale molto elevata, come il tentato omicidio, la rapina
aggravata o la violenza sessuale aggravata, con il giudizio di
comparazione con le attenuanti e la riduzione prevista per il rito
prescelto possono essere definiti con una sentenza che non è di condanna,
ma solo equiparata a questa, con estromissione della parte civile e
ponendo la parte offesa ai margini del processo che pur la vede vittima.
9. Le
eccezioni oggi proposte sono rilevanti per le seguenti ragioni:
A)
E’ stata richiesta dal difensore, munito di procura speciale, di uno
solo degli imputati la sospensione del processo ai sensi dell’art. 5,
comma 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134; i difensori di altri
imputati, pur privi di procura speciale, hanno chiesto ugualmente la
sospensione, sicché questo giudice non avrebbe alcun potere discrezionale
in ordine alla richiesta.
B)
Il dibattimento è stato chiuso e per l’udienza era prevista solo la
discussione delle parti, dopo un’istruttoria dibattimentale molto
impegnativa.
C)
Vi è parte civile già
costituita.
D)
La norma che prevede la sospensione obbligatoria è strettamente correlata
alla facoltà di richiedere la pena concordata disciplinata dalla norma
transitoria. Sicché appare attualmente rilevante anche l’eccezione che
concerne l’estensione ai processi in corso della facoltà di richiedere
l’applicazione della pena. Ne consegue che, ove si ritenesse
l’irrazionalità dell’impianto normativo almeno con riguardo alla
disposizione transitoria di cui all’art. 5. comma, 1, resterebbe
addirittura assorbita la questione relativa al termine di sospensione.
L'eccezione non è manifestamente infondata per le ragioni sopra esposte.
P.Q.M.
V.
la legge Cost. 9 febbraio 1948, n. 1 e l'art. 23 della Legge 11 marzo 1953
n. 87;
ritenuta
non manifestamente infondata e rilevante ai fini del presente giudizio la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, e
dell’art. 5, commi 1 e 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134 per
contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione nei limiti e nei
termini di cui in motivazione;
sospende il giudizio in corso;
ordina la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale;
dispone che la presente ordinanza sia notificata al Presidente del
Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del
Parlamento.
Roma, 1 luglio 2003
Il Presidente