TARTUFO
E
L’ANTIARTE DI
AMMIRATA
Di
Agius &
Francione
Questa sera all’ANFITEATRO
DELLA QUERCIA DEL TASSO è di scena la commedia Tartufo
di Molière per la regia di Sergio Ammirata (Interpreti:
Sergio Ammirata, Patrizia Parisi, Enrico Pozzi,Eleonora Bertolotti,
Francesco Madonna, Davide Bennati, Mario De’ Fiori, Stefano Meglio,
Vasco Montez, Maurizio Ranieri, Elisabetta de Vito, Novella Selvaggini,
Cristiano Arni
Assistente alla regia : Alessia Dituri; http://www.anfiteatroquerciadeltasso.com/laplautina.html).
La commedia, originariamente in tre atti, poi in cinque, è
sicuramente la satira più feroce che sia mai stata scritta
contro l'ipocrisia, essendo rivolta a colpire la doppiezza
e il moralismo fanatico ostentato da molti personaggi influenti a
corte ai tempi di Molière, coinvolgendo anche le pratiche religiose ed i
fedeli. L’effetto fu il boicottaggio seguendone una lotta per la
messinscena che durò un lustro, tanto che il pubblico poté applaudire la
commedia solo la sera del 5 febbraio 1669.
I nemici principali di Poquelin erano gl’ipocriti del tempo,
ovvero quelli della Compagnia del Santo Sacramento,
tanto a forti a corte da costringere il re a vietare la pubblica
rappresentazione di questo capolavoro. La commedia piacque a sua maestà,
ma non ad Hardouin di Pèrefixe, arcivescovo di Parigi, che messosi alla
testa della Cabala dei Devoti, riuscì a convincere il sovrano al divieto
di rappresentazione in pubblico.
Cabala dei devoti era l'ironica definizione di una libera
associazione fondata nel 1629 per iniziativa del duca Enrico di Levis.
Raccoglieva laici e religiosi, con lo scopo esterno di sostenere opere
varie di pietà e carità cristiane, ma col segreto intento di costruire
una rete di interessi e uno strumento di intervento a difesa di un
rigoroso integralismo cattolico, contro i progressi filosofici e
scientifici, nonché della libertà di pensiero.
Nel programma della Cabala non poteva mancare la lotta
contro il teatro: luogo di perdizione e demoniaco dove
Molière appariva come il diavolo numero uno, tanto
più ora con la sua commedia politica scagliata contro l’ipocrisia. Il
comico si difese
sostenendo di aver voluto colpire solo i falsi devoti, ma dovette
attendere il 1669 per avere
il consenso del re e
riproporre al pubblico la commedia con il titolo Le Tartuffe o l'imposteur.
Il nome Tartuffe, nel francese antico, indicava sia il tubero sia
la persona
disonesta che, come
dice lo stesso autore, "avendo pochi mezzi e molta ambizione, senza
alcuno dei doni necessari per soddisfarla onestamente, risoluto
tuttavia a saziarla
a qualunque prezzo, sceglie la via dell'ipocrisia" (Lettre sur la
comédie de l'Imposteur).
Tartufo, il protagonista della vicenda, figlio di povera gente, è
appunto un disonesto, un mascalzone che, non avendo i
mezzi per elevarsi, si avvale dell'ipocrisia per raggiungere i suoi
scopi. Ammantato di devozione esemplare riesce ad entrare nella casa di Ormone (un ricco borghese) e
vi si sistema vita natural durante con il favore del suo ospite che lo
considera un modello di virtù. La presenza invadente e melliflua
divide ben presto la famiglia fino a portare Ormone a cacciare il
proprio figlio da casa e a nominare erede universale Tartufo, che, pur
schermendosi, si guarderà bene dal rifiutarlo.
Tra inganni, sotterfugi e colpi di scena alla fine l’impostore
verrà smascherato e lo stesso Ormone ammetterà di essersi coltivato una
"serpe in seno".
Ammirata ha compiuto
sul testo una tipica operazione antiartistica (http://antiarte.studiocelentano.it)
rinnovando l’opera di Molière non solo con rotture della Quarta
Parete e del Cronotopo (per tutte una croce argentata diventa
un’accendino con cui Tartufo accende una sigaretta a
una dama) ma creando una forma efficacissima di teatro nel teatro.
Prendendo spunto dalla lotta che Molière e i suoi Comici dovettero
sopportare per rappresentare la commedia il regista-autore
immagina un carro di comici che “sfidando l'arcivescovo e la cabala
dei devoti mettono a repentaglio le loro stesse esistenze, pur di
rappresentare l'aspra satira dell'ipocrisia, ammantata di religiosità”(così
dalle note di regia).
Il lavoro di mutatio s’innesta anche sul personaggio
chiave: “Mi sono permesso di aggiungere alle due classiche espressioni
del protagonista, che sono solitamente quelle del viscido sorriso
dell'ipocrita e quella dell'untuoso, anche una terza, e cioè quella del
bel tenebroso e una quarta, quella del libertino, del truffaldino,
l'arrogante, il subdolo, spregiudicato, vanitoso, suasivo, arrivista,
magnetico, carismatico, narciso, canaglia, diabolico, genio malefico,
lascivo, santocchio... esattamente sono mille le sfaccettature che
rischiosamente mi sono permesso di aggiungere”.
L’operazione di rifacimento è segno di grande coraggio. Ammirata
ricorda che una sera di tanti anni chiese a un
critico teatrale che lo insegue ancora: "L'eccessiva fedeltà
ad un testo classico non è come una benda sugli occhi?".
L’antiarte
va al di là di quest’aforisma, utilizzando la benda per strozzare il
vecchiume. Il testo classico non è solo la cecità dell’attore e del
regista, ma la morte stessa della rappresentazione, essendo
irriproducibile il background dell’opera che solo può funzionare a
pieno nella sua epoca.
Sempre il copione va rinverdito con ritmi, stili, linguaggi del
tempo reale in cui viene
rappresentato, tanto più trattandosi del comico dove la lingua non fa
ridere in assoluto ma in rapporto ai sensi retrostanti, in un intreccio
inestricabile tra significato e significante che comporta in primis lo
stravolgimento di “battute spente” dell’autore
antico.
In
quest’operazione Ammirata come sempre è maestro, efficacissimo nel
riadattare la battute al nostro tempo. Ma stavolta in assonanza col suo
nome ne ammiriamo ancora di più il suo slancio strenuo, volto
a creare il metateatro
col carro dei comici che ci rivela, in ouroboros, un’altra verità:
l’ipocrisia che dal Tartufo si trasmuta sul Teatro in generale.
Il Teatro è circondato da ipocriti cominciare dai saputoni accademici e dagli artisti falliti ingegnatisi nelle arti più varie
circumnavigando il Sé teatrale autentico, attuale, fatto di sangue e non
di sclerosi, con autori viventi capaci di dar linfa fresca
a carcasse drammaturgiche irrimediabilmente morte.
Finiamo con un grido: “A morte i critici che consacrano
fino alle ossa le vecchie mummie del teatro!”.