ANTI-FALSTAFF
di
Agius
& Francione
Al Brancaccio di Roma va in
scena "Falstaff e le allegre comari di Windsor" di
William Shakespeare per la regia di Gigi Proietti
con il ritorno di Giorgio Albertazzi. Nato in coproduzione fra
Gi.Ga, la Fabbrica '99 e il Teatro Stabile d'Abruzzo, lo spettacolo ha
avuto un enorme successo estivo, battendo ogni record di incasso a Verona
e alla Versiliana.
Il
testo è
antiartistico in nuce(http://antiarte.studiocelentano.it) per la
potenza rivoluzionaria dello sviluppo drammaturgico
che si dipana tra il burlesco e il
fantasioso, in altalena tra il
demoniaco e l’angelico, con materia
e spirito incarnati nel corposo fool
che attraversa tante opere di Shakespeare. Sangue e materia si
fondono nel corpulento, nel tessuto epicureo di Falstaff,
personaggio ridanciano teso tra guerra
e sentimenti. Egli è il simbolo della rivoluzione con
la sua sfrenata cupidigia di vivere e di strappare alla vita tutti
i piaceri possibili, col suo ridere beffardo del cielo, del potere e di
tutte le leggi della società
Nell'adattamento
di Angelo Dalla Giacoma il contesto antiartistico della commedia va intesa
anche come ri-generazione del vecchio in nuove forme sì da dipanare una
sorta di matassa infinita che parte dal
mito nordico di Falstaff per arrivare a giocare
con le allegre comari di Windsor e infine con stralci dall'Enrico IV e dal
Falstaff di Boito (versi finali del libretto di Boito per il Falstaff di
Verdi: "Tutto nel mondo è burla" ecc…)-
"Tutto
il mondo è teatro" stava scritto sul Globe Theatre, il teatro di
Shakespeare. Parafrasando si potrebbe dire: “Tutto il mutamento è
teatro. E ogni teatro, anche quello più classico, è teatro del
mutamento”. Quello che conta è lo spirito di un testo ma le forme
vengono di continuo innovate, reiscenizzate: come si suol dire che uno
spartito musicale pur essendo sempre lo stesso dà esecuzioni diverse, così
accade col teatro.
L’antiarte porta avanti come fondamento dell’estetica lo spirito del
testo, più che le forme specifiche. Dello spirito shakespeariano
Fastaff è l’emblema, questo clown irresistibile, ingannato e
ingannatore, che Proietti mette in scena paradossalmente con enorme
pancia e con sorprendente levità. .Come annota Albertazzi: “Falstaff
con la sua "abbietta umanità" sembra inseguire Shakespeare
almeno in quattro drammi, senza contare la figuretta (Fastolfe) che
compare nella prima parte dell'Enrico IV. Ora incarnato e reale, ora
leggero ed impalpabile il suo spirito si traveste come nella tenda del
soldato Williams notte tempo nel campo di Agincourt, come quando muore
ritornando bambino che stropiccia le lenzuola mentre la fedele Quickly gli
massaggia le gambe già inerti. Shakespeare pensava a Socrate?”.
La
messa in scena di un testo-capolavoro sempre è attività maieutica in
quanto l’adattatore, il
regista, gli attori hanno il
compito per così dire di rimettere in vita il vecchio sotto forma di puer,
al fine di ridare il senso di una rappresentazione che nel tempo attuale
perennemente si rigenera. Autentica
operazione alchimistica di rigenerazione del vetusto facendolo ridiventare
bambino, secondo una
raffigurazione tipica dell’ars regia dove l’operatore viene appunto
raffigurato come un bambino che all’interno di
un athanor
opera per attuare la rigenerazione del metallo vile in oro. E’ quanto
accade qui dove “questo personaggio-mito nato forse come un fool di
contorno e diventato sotto la penna del Bardo (vedi Shylock) un
personaggio assoluto”.
Sulla
stessa linea si muove nella sua regia Proietti che definisce Falstaff il
teatro in sé. Appena compare sulla scena elisabettiana (Enrico IV- prima
parte) Falstaff conquista il pubblico. Ed è la Regina Elisabetta in
persona che dopo quella sera lo rivuole in scena e chiede a Shakespeare di
coinvolgerlo questa volta in una storia d'amore anziché in vicende
militari da miles gloriosus
come nell'Enrico IV. Nasce così "The merry wifes of Windsor"
(1601) ed è il testo messo
in scena al Brancaccio.
Come
può un personaggio da solo essere il teatro? Ciò grazie
a un altro procedimento ancora alchemico, antiartistico: la
contaminatio. Falstaff riunisce
“in sé tutti gli "umori" delle interpretazioni, i vezzi, le
profondità, gli scarti di ritmo, le superficialità, il gonfiore e
l'improvvisa secchezza, la grande verità della sua finzione: è aria. E'
certo: specchio, non della natura si badi, ma dell'arte. E' frammentarietà,
è costruito da pezzi di un tutto che fatica a stare insieme e che si
scolla continuamente, rablesianamente, si partorisce in tanti piccoli
Falstaffini per incollarsi di nuovo all'improvviso”.
E’
l’effetto incarnato di un gioco di specchi , materializzati qui
sulla scena da un enorme macchina speculare, di cui era maestro
Shakespeare che produce un inesauribile moltiplicarsi di figure e di
gesti, in cui si riflette
anche il mondo del lettore e dello spettatore. E’ il gioco del teatro
che si ripete con la reinvenzione antiartistica. Nella regia di Proietti
recita anche la quercia di Herne. La Sveltina, che fa da mezzana tra le
comari e Falstaff, è interpretata da un uomo. E nella interpretazione di
Albertazzi, a tratti improvvisamente, vediamo evocati attori di altre
epoche: Benassi, Salvini, Ricci.
Una
reinvenzione corale del testo efficace, dunque, macchine e scenari
essenziali, simbolici con un
Falstaff-Albertazzi che recita per il puro piacere di farlo, per
divertire se stesso e gli altri. Come ridacchiando annota Proietti:
“Morto Falstaff (che è il teatro) non si può far altro che aspettare
che si replichi, per mangiarselo di nuovo”.