Suicidio pro patria
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Con estremo piacere rispondo all'invito dell'editore Costanzo D'Agostino a scrivere una breve introduzione al Saggio da lui scritto sul trittico di Poesie "Il suicidio della Patria" che vede, come autore uno dei più prestigiosi poeti europei: Visar Zhiti.

Mi sembra doveroso premettere la grande, affettuosa amicizia che lega questo poeta al nostro editore: e non potrebbe che essere così dal momento che, avendo anch'io conosciuto Visar Zhiti, comprendo benissimo il grandissimo sentimento di solidarietà, di ricchezza di valori umani, di purezza intellettuale, che questo grande albanese esprime già sin dal primo contatto.

In un mio saggio di qualche tempo fa avevo inserito questo poeta, per l'esperienza umana e la profondità di pensiero che trovano espressione in una originale forma lirica altamente metaforica ed intuitiva, tra tutti quei grandi personaggi di cui la storia e la letteratura abbondantemente traboccano per aver pagato con la vita o con il carcere duro il coraggio di esprimere idee nuove e dirompenti per le società in cui vivevano ed operavano.

Mi sembra che Costanzo D'Agostino, nel suo saggio "Visar Zhiti, poeta dell'abisso", esprima bene questi concetti e si avvalga, a conferma di quanto espone di una profonda esplorazione del pensiero di uomini ben radicati nell'ambito della cultura universale.

L'editore ed autore del saggio chiede appoggio, infatti, a sostegno dei motivi per cui Visar Zhiti è da considerare veramente grande come poeta, a filosofi, maestri spirituali, psicoanalisti, scienziati di vari campi e a tanti altri uomini illuminati delle più diverse discipline.

Mi sembra che ancora una volta il mondo della cultura sia venuto incontro a chi della cultura ne ha fatto una ragione di vita.

Il giudice-scrittore

Gennaro Francione

 

 

 

IL SUICIDIO DELLA PATRIA

 

Il trittico poetico “Il Suicidio della Patria” dell’albanese Visar Zhiti non trasmette al lettore soltanto drammatici contenuti di realtà sociale dei discendenti dell’antico popolo illirico, ancor oggi accompagnato da un misterioso ed incontrollabile destino avverso e persecutorio, ma riflette anche, nell’inconscia cadenza della sua armonia lirica, l’ombra onnipresente dello spirito universale che permea l’esistenza di ogni cosa. Questa presenza invisibile, sovrastante l’intera architettura poetica, può essere colta nella sua infinita estensione solo attraverso la sensazione intuitiva: è quell’eterea energia che pervade la coscienza del lettore all’esame attento di ogni verso, permettendogli di innalzare la capacità di comprensione e rendendogli possibile percepire riflessi cosmici che portano anche alla trascendenza della morte.

Si legge nella Upanisad:

“Essendosi concentrato su ciò che è al di là dall’udito, al di là dal tatto, di là dal gusto e dall’olfatto, che è indefettibile ed eterno, senza principio e senza fine, più grande del grande, duraturo, l’uomo si salva dalle fauci della morte.”

(Katha Upanisad, III, 15).

Se i poeti lavorano molto per associazioni, utilizzando i diversi strati subconsci del linguaggio, Visar Zhiti, con i suoi versi, ci riporta alla base della conoscenza attraverso il vedere. Egli vede e descrive il “visto” in termini di poesia. Come conferma il mistico yaqui Don Juan* “La mia predilizione è il vedere…perché un uomo di conoscenza può conoscere solo vedendo.”

 

“Avremo un cielo sopra le nostre teste?

L’ha sforacchiato coi proiettili la mia gente

ribelle.

Cadono squarci di cielo

come maledizioni dall’alto e

lanciano fulmini insanguinati di urli”

 

Questo vedere non si riferisce soltanto alla percezione visiva, anche se la comprende, ma diviene quasi un’esperienza non sensoriale della realtà, una fibrillazione mistica. Il poeta albanese sembra interessato principalmente a fare esperienza della realtà e non si preoccupa di fornire al lettore ulteriori dettagli, essendo, questi ultimi, soltanto condizioni provocate dalla relatività della storia, impoverite ancor di più dalle limitazioni imposte dal linguaggio e sentendo, invece, il suo “vedere” come infinito e trascendente tutte le cose.

 

“Pietrificate le nubi bianche di spiriti

di bambini assassinati”

 

Gli spiriti dei morti ascendono verso le pure Anime spirituali, metaforicamente rappresentate da nubi bianche, bloccare nel loro continuo movimento e rese rigide come pietre, non per le condizioni naturali, ma per le scene di terrificante dolore cui passivamente hanno dovuto assistere.

  

* C. Castaneda – Una realtà separata – Roma 1972 (Ubaldini).

 

In un suo libro Helena Petrovna Blavatsky* ci ricorda come “tutti gli uomini hanno la stessa origine e che dato che l’umanità è essenzialmente di una sola e medesima essenza, e dato che quest’essenza è una, infinita, increata ed eterna, sia se la chiamiamo Dio sia se la chiamiamo Natura , niente può colpire una nazione od un uomo senza colpire le altre nazioni e tutti gli altri uomini. Questo è tanto certo ed ovvio, quanto lo è il fatto che un sasso gettato in uno stagno metterà in moto, prima o poi, ogni singola goccia d’acqua in esso contenuta”.

Questo è il messaggio di Visar Zhiti in questi sofferti versi.

Se ne ricava l’espressione più genuina de Sé di questo poeta. Direbbe il padre della Psicosintesi, Roberto Assaggioli*, trattarsi della “prova più evidente che il Sé, quale unità bio-psico-spirituale, è transpersonale , ovvero oltrepassa i confini dell’ordinaria personalità definita del corpo e della mente ed è parte di un più ampio Sé universale come la goccia è parte del mare”.

 

“Che primavera è questa?

Solo per cogliere un mazzo di fiori neri

da deporre sulle recenti tombe?”

 

Ecco il ricorrente ritorno della domanda sul significato della vita, in cui da sempre l’umanità si sente imbrigliata.

Profeti, teologi, filosofi e scienziati di ogni tempo hanno esposto confortanti soluzioni, legando, spesso, il risultato delle loro certezze a quello stato d’essere chiamato “fede”. Ma gli “spiriti di bambini assassinati”, di cui parla Visar Zhiti, potrebbero, obiettivamente, far vacillare le fondamenta stesse su cui ogni “fede” si sorregge e rendono conseguenziale il pervenire alla conclusione:

 

Non c’è più cielo.

 

“E’ fuggito sempre più lontano il Signore ferito

dal piombo pazzo della folla. E’ caduto

sotto i piedi il sogno. Calpestato

si sogna la Patria

sono le teste degli uomini.”

 

Dio sembra contraddire se stesso. E fugge (per un attimo).

Antonio Zichichi*, grande fisico moderno, dedica un intero libro alla dimostrazione dell’esattezza, divina:

“…mai una virgola è stata trovata fuori posto, nel meraviglioso libro della Natura. E’ successo più volte che una lettura superficiale sembrava dovesse portare a conclusioni amare per i credenti. In qualche pagina di questo libro sembrava regnasse una gran confusione…”.

Alla fine però i conti si sono rivelati sempre esatti. La Natura non sbaglia mai. Soprattutto per quanto concerne i comportamenti umani: gli “spiriti di bambini assassinati” sono la conseguenza di dissennate azioni di uomini che pretendono sfrontatamente di sfidare le leggi della Natura.

 

 

 

 

 

 

* H. Blavatsky – La chiave della Teosofia – Roma 1982 (Astrolabio)

* R. Assaggioli – Principi e metodi della psicosintesi terapeutica – Roma 1973 (Astrolabio)

* A. Zichichi – Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo – Milano 1999 (Il Saggiatore

 

 

Il nostro poeta albanese aveva già individuato colpe e responsabilità e ce le aveva anticipate:

 

(Se ne sono andati,

la dittatura ha stravolto la Patria

in un luogo qualsiasi. E

maledetto.

Rinascano i patrioti dell’umanità!)

-conversazione al crepuscolo-

 

Dio, dunque, non contraddice se stesso.

Non possiamo addebitare a Dio colpe che sono solo degli uomini. Il “Signore ferito dal piombo pazzo della folla, fuggito sempre più lontano” altro non è che l’essenza dell’umanità, quella luce divina presente dentro ogni essere umano, che per un attimo era stata sopraffatta dalle tenebre più scure. Ed era stato calpestato anche il sogno albanese, ad esso simbioticamente collegato, di una Patria e di una vita da vivere in pace.

Quei momenti di tenebre avevano recato rilevanti ferite in tanti animi umani ed infinite perdite anche a cose materiali:

 

Neanche i terremoti hanno lasciato

tante macerie!

E il fuoco brucia i tetti della nostra storia. E’

guerra

senza guerra. Soldati smobilitati

e bambini con elmetti

con un kalashnikov in mano

come un giocattolo.

Un giro per la città in carro armato

costa quanto un caffè.

Il contadino tira l’aratro

sulla terra pietrosa con il blindato conquistato.

 

P.D. Ouspensky* in una delle sue più importanti opere, ci spiega che “…Cose cattive possono essere fatte soltanto inconsciamente; tutto quanto chiamiamo male può accadere solo meccanicamente, ed accade sempre meccanicamente, perciò non ha bisogno di consapevolezza.

Poiché non esiste evoluzione meccanica dato che l’evoluzione può essere soltanto conscia, il principio dell’evoluzione è sempre l’evoluzione della consapevolezza. Se la consapevolezza comincia ad evolversi, anche altre cose cominciano a crescere ed ad evolversi. Se la consapevolezza rimane allo stesso livello, ogni altra cosa rimane allo stesso livello.”

P.D. Ouspensky ci rende, dunque, chiara la comprensione della provenienza primordiale dell’energia pregna di consapevolezza dei versi di Visar Zhiti. Essa è tesa a rendere anche il suo popolo più consapevole riguardo gli accadimenti che lo coinvolgono; ecco perché ricorda le ferite, le macerie, il continuo dolore dovuto all’ottusità della menti e all’annebbiamento delle coscienze.

 

 

 

 

 

* P.D. Ouspensky – “La quarta via” – Roma 1974 (Astrolabio)

 

 

E per dare più enfasi al suo intervento irrompe finanche sul domani dei suoi connazionali, delineandone un quadro drammatico:

 

“Cosa seminerai, o padre,

la maledizione di questa terra,

che non ci abbandona?”

 

Con questi versi altamente lirici, il poeta entra in profondità nell’animo del suo popolo raggiungendone la sua più intima fonte.

E’ ad Essa che si rivolge, chiamandola Padre, ricordandone le tradizioni di dedizione all’agricoltura, riportandone alla memoria le continue traversìe storiche, dense di maledizioni generatrici di schiavitù, povertà e sopraffazione da parte di altri popoli.

E riflettendo se stesso nello specchio dell’avverso destino albanese, nell’estremo confronto con una realtà che ancora lo trafigge di orrore, mentre tutt’intorno a lui calma e razionalità si fanno sempre più evanescenti, trae ancora una volta dal più intimo del suo essere parte di quella forza coltivata lungamente durante i tormentosi anni di carcere duro (8 anni tremendi), per tenersi ancora saldamente ancorato nel porto sicuro del suo microcosmo interiore.

 

Perché un castigo così a lungo? E la sposa

della domenica accompagnammo con i blindati,

mentre i vanitosi invitati imbracciarono le armi.

Il velo della sposa come bandiera bianca

 sulla torretta del blindato portò la pace assurda e feroce.

Cos’è mai questo destino?

Cosa stiamo facendo?

Mi trafiggono le piaghe della mia terra.

 

Ecco la ragione in azione. E’ il risveglio totale, piena lucidità, estrema chiarezza: “Cosa stiamo facendo?”

Significa che gli avvenimenti non si stanno determinando da soli. C’è ancora una volta, una precisa responsabilità degli uomini. Di tutti gli uomini. Ed alcuni di essi continuano la secolare manipolazione degli eventi per fini oscuri.

Che, forse, troppo oscuri non sono. Ormai Visar Zhiti non può che dare sfogo alla deflagrazione finale dei troppi pensieri da troppo tempo compressi:

 

Terrorizzato, vogliono separarci

ancora di più

come all’inizio del secolo

così alla fine.

 

A chi giova la frammentazione psicologica del popolo albanese? A costui o a costoro vanno addebitate le responsabilità storiche dei drammatici eventi rappresentati dal poeta, le cui conseguenze simboliche si intravedono attraverso un velo di sposa portato a guisa di bandiera bianca sulla torretta di un blindato.

“Come all’inizio del secolo, così alla fine”.

 

 

 

 

 

E’ “l’ombra”di Jung* ad emergere con la sua possente carica archetipica. “La pace assurda e feroce” altro non è, dunque, che la disperata ricerca dell’orientamento da parte di un intero popolo alla deriva. Naufrago. O reso naufrago.

 

Le onde del terrore si avvicinano alla costa,

il lamento bagna i miei piedi

 penetra nel corpo,

scuotono il cuore, barca speronata

che cala

a picco.

 

Per il dramma del Venerdì santo del 1997, nel canale d’Otranto nessun essere umano troverà mai parole capaci di rappresentare la tragedia consumatasi in pochi attimi, in quello specchio di mare. Il linguaggio umano non è, infatti, attrezzato abbastanza per cimentarsi nella descrizione reale di un evento cosi immane.

 

“In fondo al mare

come nella profondità della terra

sono andati i bambini – angeli

e le donne – sirene di tragedia.

Sopra schiumeggiano

le dimenticanze e l’abbandono.

La nave capovolta insieme alla Patria

si è fatta bara.”

 

Il dramma del naufragio di una piccola carretta del mare, diviene dramma del naufragio di un intero popolo. Questi sono i fatti. Che non possono essere ridimensionati da alcun processo nei confronti di un singolo ufficiale o di un intero equipaggio. Sarebbe troppo limitativo. Questi fatti, accaduti alle soglie del terzo millennio, gravano pesantemente sulle coscienze di intere collettività europee, le quali si reputano civili ma che, non a torto Erich Fromm* definirebbe “alienate”, alias “malate”. Questi fatti possono accadere soltanto presso società abbrutite dalla spasmodica ricerca di un benessere, fittizio ed aleatorio, che nulla ha a che vedere col vero benessere, derivante dalla maturazione spirituale e culturale, senz’altro possibile per l’uomo.

“Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”

(Inferno – Canto XXVI – 119 – 120).

Parole vuote nella società odierna, questa di Dante Alighieri, come nel vuoto si sono, da tempo, smarriti molti insegnamenti cristiani. Nell’odierna guerra di tutti contro tutti, dove la personalità di ognuno è, quotidianamente, barattata in un mercato che tenta di modellare anche i bisogni umani più spirituali, sembra non esserci più spazio per la saggezza. Ed anche il mare, simbolo di libertà e progresso, in questo contesto, può diventate un sepolcro:

 

 

 

 

 

 

 

 

* C. G. Jung – La psicologia dell’inconscio – Roma 1971 (Newton & Compton)

* E. Fromm – Psicoanalisi della società contemporanea – Milano 1987 (Mondatori)

 

Il mare – sepolcro.

Partirono per la costa del sogno

e sprofondarono negli abissi, torbidi

paurosi come

coscienze di mostri.

 

La speranza diviene morte: crollano, in pochi attimi, insegnamenti di una cultura millenaria. “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; poiché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.” (Matteo 7, 7). Una nuova bolgia si apre, invece, nel mondo infernale dei vivi, dove abissi profondi separano chi chiede da chi dovrebbe dare, per cui le coscienze intorpidite di chi si trincera dietro la difesa dei propri privilegi, ormai sono sature di ancestrale paure ed egoismi e si manifestano solo quali ombre dense di ataviche, mostruose rimembranze.

 

Le donne lasciarono vuoto il letto

notturno – conchiglia

grande del destino.Ed i ceri di Pasqua

stelle spente che si spengono sul mare.

 

La morte celebra, ancora una volta, un travolgente trionfo sulla voglia di vivere. E sceglie come data fatale, per la propria incontrastata incoronazione, proprio quella del Venerdì santo. Si ripete il sacrificio dell’agnello pasquale: questa volta non è associato a Gesù Cristo, ma alle donne albanesi cui il destino aveva fatto lasciare il proprio giaciglio sicuro per trascinarle, fraudolentemente, nella torbida alcova dell’abisso marino.

 

I bambini non terminarono i giochi.

I pesci giocheranno con le loro vite

innocenti,

con gli scheletri, di raggi di luce.

Le gole degli urli

strozzò l’acqua della morte,

perciò più non urliamo.

Ma cosa porta il vento, la chioma dell’amore

naufragato?

E le onde portano a riva una bambola orfana,

un libro di favole travolte

in zuffe.

 

Ma il sacrificio delle sole donne non basta: il tributo da pagare è ben più alto. La morte, vincitrice, mette ancora sul piatto degli sconfitti la vita di altri bambini innocenti, che ad essa, inutilmente, si oppongono urlando con la massima energia che permette loro la gola. Gli urli disperati vengono, presto, strozzati dall’acqua della morte. La regola del più forte ha vinto anche questa volta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il “diverso”, perché povero e straniero, ha avuto la giusta punizione alla sua tracotante aspirazione ad uscire fuori dalla povertà e dalla diversità. Ma se giustizia è fatta, tra i giudici di più peso non possono non essere evidenziate le “civili” nazioni europee che hanno permesso, ed ancora oggi permettono, tali verdetti.

Ed ecco, non ultima, la reazione lirica di Visar Zhiti:

 

“Anche allora,

quando la terra fu sommersa,

l’Arca di Noè scampò al diluvio,

solo la mia gente doveva sprofondare nell’abisso

del mondo

senza mondo.”

 

Il poeta continua a rivelare la sua straordinaria capacità di penetrare negli angoli più reconditi del microcosmo albanese, divenendo l’artefice di un processo psicoanalitico capace di trovare soluzioni psicoterapeutiche attraverso la metafora. Per fare ciò deve, forzatamente, divenire “Poeta dell’Abisso”.

In questo caso, dell’abisso albanese.

Ed in questo luogo vi riscopre motivazioni, stimoli, antiche vicissitudini, mistiche visioni: è un ritorno alle origini della sua Anima illirica.

In questa dimensione, non regolata dalla relatività spazio – temporale, scopre, finalmente, la verità: il “continuum” che chiarisce tutto. E adesso, può liberarsi da ogni travaglio interiore:

 

Quanto mare, quante tenebrose profondità,

dove si culla il nostro destino,

abbiamo creato con le lacrime!

 

La casualità di Jaques Monod* si trasforma in destino lacerante, conduttore di perpetue lacrime e creatore di abissi tenebrosi e profondi: fisici, psichici e materiali. Da qui prende origine la coscienza mostruosa dell’uomo, frutto di “processi evolutivi che hanno determinato la trasformazione di esseri anfibi in rettili, per poi divenire mammiferi e infine uomini”.**

Il segno dell’impotenza umana dinanzi agli accadimenti fatali si coniuga con le traversìe della vita individuale, trascinando Visar Zhiti, nell’epilogo:

 

 

In riva al mare,

sotto i marosi del cordoglio più grande,

tiro fuori i cadaveri della mia vita, ad uno

ad uno

i miei giorni naufragati,

pendono le braccia come epilogo bagnato

di bandiere del nulla,

in fila li dispongo sui ciottoli abbandonati

come la pietà.

 

 

*J. Monod – Il caso e la necessità – Milano 1986 (Mondatori)

**R. Levi Montalcini – La galassia mente – Milano 1999 (Baldini & Castaldi)

 

 

Qui il poeta non esita a fare una spietata autoanalisi della propria vita: i cadaveri del canale d’Otranto si associano, inevitabilmente, ai cadaveri individuali degli errori umani ed ai cadaveri “morali” dell’intera umanità, dove la continua decomposizione degli atavici valori universali non ha più, da tempo, lasciato spazio neppure alla pietà umana, abbandonata come spesso vengono abbandonati certi ciottoli.

Verrebbe voglia di rassegnarsi, di lasciare che gli arti si distendano inerti, in un momento di sconforto totale, di disorientamento intellettuale, di confusione interiore. Ma il Sé (transpersonale) del poeta, infine, ricompare, mirabilmente, ad indicare la strada giusta da seguire, essendo questo il cammino prestabilito dall’Ente Superiore per l’intera umanità:

 

Vieni, Mondo

Soffiamo il nostro respiro, senza tardare,

mentre l’alba s’imperla tra gli occhi spenti e

 aperti,

che non si chiuderanno mai più.

Come il mare,

Come la terra,

Come il cielo.

 

 

E’ la coscienza della provvisorietà dell’esistenza umana a prendere il sopravvento ed dare impulso a quella solidarietà che non ha alternative presso gli uomini.

E’ l’intelligenza dell’essenza divina, che permea ogni cosa dell’ universo in quella creazione in atto chiamata  “eterno divenire”, ad illuminare le azioni dell’uomo, anche nei momenti più tenebrosi.

E’ il soffio di Dio, misterioso ma implacabile nella stesura delle sue leggi cosmiche, a generare quelle energie spirituali, indispensabili al cammino futuro dell’umanità.

E’ la sconfitta dell’abisso, esorcizzato e finalmente riconfinato negli angoli più estremi dell’inconscio, per via di questo straordinario poeta albanese. Che a ragione può essere definito: Poeta dell’Abisso”.

 

 

 

 

                                                                                                                   Roma 16 aprile 2000

                                  Costanzo D’Agostino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

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R. ASSAGGIOLI, Principi e metodi della psicosintesi terapeutica, Roma 1973 (Astrolabio).

R. L. MONTALCINI, La galassia mente, Milano 1999 (Baldini & Castoldi).

H. P. BLAVATSKY, La chiave della Teosofia, Roma 1982 (Astrolabio).

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C. G. JUNG, La psicologia dell’inconscio, Roma 1971 (Newton & Compton).

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L. B. GILOT, Il Sè transpersonale, Roma 1992 (Edizioni Ãsram vidyã).

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F. CAPRA, Il Tao della fisica, Milano 1982 (Adelphi).

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