IL SUICIDIO DELLA PATRIA
Il trittico poetico
“Il Suicidio della Patria” dell’albanese Visar Zhiti non trasmette
al lettore soltanto drammatici contenuti di realtà sociale dei
discendenti dell’antico popolo illirico, ancor oggi accompagnato da un
misterioso ed incontrollabile destino avverso e persecutorio, ma riflette
anche, nell’inconscia cadenza della sua armonia lirica, l’ombra
onnipresente dello spirito universale che permea l’esistenza di ogni
cosa. Questa presenza invisibile, sovrastante l’intera architettura
poetica, può essere colta nella sua infinita estensione solo attraverso
la sensazione intuitiva: è quell’eterea energia che pervade la
coscienza del lettore all’esame attento di ogni verso, permettendogli di
innalzare la capacità di comprensione e rendendogli possibile percepire
riflessi cosmici che portano anche alla trascendenza della morte.
Si legge nella Upanisad:
“Essendosi
concentrato su ciò che è al di là dall’udito, al di là dal tatto, di
là dal gusto e dall’olfatto, che è indefettibile ed eterno, senza
principio e senza fine, più grande del grande, duraturo, l’uomo si
salva dalle fauci della morte.”
(Katha Upanisad, III, 15).
Se i poeti lavorano
molto per associazioni, utilizzando i diversi strati subconsci del
linguaggio, Visar Zhiti, con i suoi versi, ci riporta alla base della
conoscenza attraverso il vedere. Egli vede e descrive il “visto” in
termini di poesia. Come conferma il mistico yaqui Don Juan* “La mia
predilizione è il vedere…perché un uomo di conoscenza può conoscere
solo vedendo.”
“Avremo
un cielo sopra le nostre teste?
L’ha
sforacchiato coi proiettili la mia gente
ribelle.
Cadono
squarci di cielo
come
maledizioni dall’alto e
lanciano
fulmini insanguinati di urli”
Questo vedere non si riferisce soltanto alla
percezione visiva, anche se la comprende, ma diviene quasi un’esperienza
non sensoriale della realtà, una fibrillazione mistica. Il poeta albanese
sembra interessato principalmente a fare esperienza della realtà e non si
preoccupa di fornire al lettore ulteriori dettagli, essendo, questi
ultimi, soltanto condizioni provocate dalla relatività della storia,
impoverite ancor di più dalle limitazioni imposte dal linguaggio e
sentendo, invece, il suo “vedere” come infinito e trascendente tutte
le cose.
“Pietrificate
le nubi bianche di spiriti
di
bambini assassinati”
Gli spiriti dei morti
ascendono verso le pure Anime spirituali, metaforicamente rappresentate da
nubi bianche, bloccare nel loro continuo movimento e rese rigide come
pietre, non per le condizioni naturali, ma per le scene di terrificante
dolore cui passivamente hanno dovuto assistere.
* C. Castaneda – Una realtà separata – Roma
1972 (Ubaldini).
In un suo libro Helena
Petrovna Blavatsky* ci ricorda come “tutti gli uomini hanno la stessa
origine e che dato che l’umanità è essenzialmente di una sola e
medesima essenza, e dato che quest’essenza è una, infinita, increata ed
eterna, sia se la chiamiamo Dio sia se la chiamiamo Natura , niente può
colpire una nazione od un uomo senza colpire le altre nazioni e tutti gli
altri uomini. Questo è tanto certo ed ovvio, quanto lo è il fatto che un
sasso gettato in uno stagno metterà in moto, prima o poi, ogni singola
goccia d’acqua in esso contenuta”.
Questo è il messaggio
di Visar Zhiti in questi sofferti versi.
Se ne ricava
l’espressione più genuina de Sé di questo poeta. Direbbe il padre
della Psicosintesi, Roberto Assaggioli*, trattarsi della “prova più
evidente che il Sé, quale unità bio-psico-spirituale, è transpersonale
, ovvero oltrepassa i confini dell’ordinaria personalità definita del
corpo e della mente ed è parte di un più ampio Sé universale come la
goccia è parte del mare”.
“Che
primavera è questa?
Solo per
cogliere un mazzo di fiori neri
da
deporre sulle recenti tombe?”
Ecco il ricorrente
ritorno della domanda sul significato della vita, in cui da sempre
l’umanità si sente imbrigliata.
Profeti, teologi,
filosofi e scienziati di ogni tempo hanno esposto confortanti soluzioni,
legando, spesso, il risultato delle loro certezze a quello stato
d’essere chiamato “fede”. Ma gli “spiriti di bambini
assassinati”, di cui parla Visar Zhiti, potrebbero, obiettivamente, far
vacillare le fondamenta stesse su cui ogni “fede” si sorregge e
rendono conseguenziale il pervenire alla conclusione:
Non c’è
più cielo.
“E’
fuggito sempre più lontano il Signore ferito
dal
piombo pazzo della folla. E’ caduto
sotto i
piedi il sogno. Calpestato
si sogna
la Patria
sono le
teste degli uomini.”
Dio sembra contraddire
se stesso. E fugge (per un attimo).
Antonio Zichichi*,
grande fisico moderno, dedica un intero libro alla dimostrazione
dell’esattezza, divina:
“…mai una virgola
è stata trovata fuori posto, nel meraviglioso libro della Natura. E’
successo più volte che una lettura superficiale sembrava dovesse portare
a conclusioni amare per i credenti. In qualche pagina di questo libro
sembrava regnasse una gran confusione…”.
Alla fine però i conti
si sono rivelati sempre esatti. La Natura non sbaglia mai. Soprattutto per
quanto concerne i comportamenti umani: gli “spiriti di bambini
assassinati” sono la conseguenza di dissennate azioni di uomini che
pretendono sfrontatamente di sfidare le leggi della Natura.
* H. Blavatsky – La chiave della Teosofia –
Roma 1982 (Astrolabio)
* R. Assaggioli – Principi e metodi della
psicosintesi terapeutica – Roma 1973 (Astrolabio)
* A. Zichichi – Perché io credo in Colui che ha
fatto il mondo – Milano 1999 (Il Saggiatore
Il nostro poeta albanese aveva già individuato
colpe e responsabilità e ce le aveva anticipate:
(Se ne
sono andati,
la
dittatura ha stravolto la Patria
in un
luogo qualsiasi. E
maledetto.
Rinascano
i patrioti dell’umanità!)
-conversazione
al crepuscolo-
Dio,
dunque, non contraddice se stesso.
Non
possiamo addebitare a Dio colpe che sono solo degli uomini. Il “Signore
ferito dal piombo pazzo della folla, fuggito sempre più lontano”
altro non è che l’essenza dell’umanità, quella luce divina presente
dentro ogni essere umano, che per un attimo era stata sopraffatta dalle
tenebre più scure. Ed era stato calpestato anche il sogno albanese, ad
esso simbioticamente collegato, di una Patria e di una vita da vivere in
pace.
Quei
momenti di tenebre avevano recato rilevanti ferite in tanti animi umani ed
infinite perdite anche a cose materiali:
Neanche
i terremoti hanno lasciato
tante
macerie!
E
il fuoco brucia i tetti della nostra storia. E’
guerra
senza
guerra. Soldati smobilitati
e
bambini con elmetti
con
un kalashnikov in mano
come
un giocattolo.
Un
giro per la città in carro armato
costa
quanto un caffè.
Il
contadino tira l’aratro
sulla
terra pietrosa con il blindato conquistato.
P.D.
Ouspensky* in una delle sue più importanti opere, ci spiega che “…Cose
cattive possono essere fatte soltanto inconsciamente; tutto quanto
chiamiamo male può accadere solo meccanicamente, ed accade sempre
meccanicamente, perciò non ha bisogno di consapevolezza.
Poiché non
esiste evoluzione meccanica dato che l’evoluzione può essere soltanto
conscia, il principio dell’evoluzione è sempre l’evoluzione della
consapevolezza. Se la consapevolezza comincia ad evolversi, anche altre
cose cominciano a crescere ed ad evolversi. Se la consapevolezza rimane
allo stesso livello, ogni altra cosa rimane allo stesso livello.”
P.D. Ouspensky
ci rende, dunque, chiara la comprensione della provenienza primordiale
dell’energia pregna di consapevolezza dei versi di Visar Zhiti. Essa è
tesa a rendere anche il suo popolo più consapevole riguardo gli
accadimenti che lo coinvolgono; ecco perché ricorda le ferite, le
macerie, il continuo dolore dovuto all’ottusità della menti e
all’annebbiamento delle coscienze.
* P.D. Ouspensky
– “La quarta via” – Roma 1974 (Astrolabio)
E per dare più enfasi al suo intervento
irrompe finanche sul domani dei suoi connazionali, delineandone un quadro
drammatico:
“Cosa
seminerai, o padre,
la
maledizione di questa terra,
che
non ci abbandona?”
Con questi
versi altamente lirici, il poeta entra in profondità nell’animo del suo
popolo raggiungendone la sua più intima fonte.
E’
ad Essa che si rivolge, chiamandola Padre, ricordandone le tradizioni di
dedizione all’agricoltura, riportandone alla memoria le continue traversìe
storiche, dense di maledizioni generatrici di schiavitù, povertà e
sopraffazione da parte di altri popoli.
E
riflettendo se stesso nello specchio dell’avverso destino albanese,
nell’estremo confronto con una realtà che ancora lo trafigge di orrore,
mentre tutt’intorno a lui calma e razionalità si fanno sempre più
evanescenti, trae ancora una volta dal più intimo del suo essere parte di
quella forza coltivata lungamente durante i tormentosi anni di carcere
duro (8 anni tremendi), per tenersi ancora saldamente ancorato nel porto
sicuro del suo microcosmo interiore.
Perché
un castigo così a lungo? E la sposa
della
domenica accompagnammo con i blindati,
mentre
i vanitosi invitati imbracciarono le armi.
Il
velo della sposa come bandiera bianca
sulla
torretta del blindato portò la pace assurda e feroce.
Cos’è
mai questo destino?
Cosa
stiamo facendo?
Mi
trafiggono le piaghe della mia terra.
Ecco
la ragione in azione. E’ il risveglio totale, piena lucidità, estrema
chiarezza: “Cosa stiamo facendo?”
Significa che
gli avvenimenti non si stanno determinando da soli. C’è ancora una
volta, una precisa responsabilità degli uomini. Di tutti gli uomini. Ed
alcuni di essi continuano la secolare manipolazione degli eventi per fini
oscuri.
Che,
forse, troppo oscuri non sono. Ormai Visar Zhiti non può che dare sfogo
alla deflagrazione finale dei troppi pensieri da troppo tempo compressi:
Terrorizzato,
vogliono separarci
ancora
di più
come
all’inizio del secolo
così
alla fine.
A chi giova la
frammentazione psicologica del popolo albanese? A costui o a costoro vanno
addebitate le responsabilità storiche dei drammatici eventi rappresentati
dal poeta, le cui conseguenze simboliche si intravedono attraverso un velo
di sposa portato a guisa di bandiera bianca sulla torretta di un blindato.
“Come
all’inizio del secolo, così alla fine”.
E’ “l’ombra”di
Jung* ad emergere con la sua possente carica archetipica. “La pace
assurda e feroce” altro non è, dunque, che la disperata ricerca
dell’orientamento da parte di un intero popolo alla deriva. Naufrago. O
reso naufrago.
Le onde del terrore si avvicinano alla costa,
il lamento bagna i miei piedi
penetra nel
corpo,
scuotono il cuore, barca speronata
che cala
a picco.
Per il dramma
del Venerdì santo del 1997, nel canale d’Otranto nessun essere umano
troverà mai parole capaci di rappresentare la tragedia consumatasi in
pochi attimi, in quello specchio di mare. Il linguaggio umano non è,
infatti, attrezzato abbastanza per cimentarsi nella descrizione reale di
un evento cosi immane.
“In
fondo al mare
come
nella profondità della terra
sono
andati i bambini – angeli
e
le donne – sirene di tragedia.
Sopra
schiumeggiano
le
dimenticanze e l’abbandono.
La
nave capovolta insieme alla Patria
si
è fatta bara.”
Il dramma del
naufragio di una piccola carretta del mare, diviene dramma del naufragio
di un intero popolo. Questi sono i fatti. Che non possono essere
ridimensionati da alcun processo nei confronti di un singolo ufficiale o
di un intero equipaggio. Sarebbe troppo limitativo. Questi fatti, accaduti
alle soglie del terzo millennio, gravano pesantemente sulle coscienze di
intere collettività europee, le quali si reputano civili ma che, non a
torto Erich Fromm* definirebbe “alienate”, alias “malate”. Questi
fatti possono accadere soltanto presso società abbrutite dalla spasmodica
ricerca di un benessere, fittizio ed aleatorio, che nulla ha a che vedere
col vero benessere, derivante dalla maturazione spirituale e culturale,
senz’altro possibile per l’uomo.
“Fatti
non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”
(Inferno
– Canto XXVI – 119 – 120).
Parole vuote
nella società odierna, questa di Dante Alighieri, come nel vuoto si sono,
da tempo, smarriti molti insegnamenti cristiani. Nell’odierna guerra di
tutti contro tutti, dove la personalità di ognuno è, quotidianamente,
barattata in un mercato che tenta di modellare anche i bisogni umani più
spirituali, sembra non esserci più spazio per la saggezza. Ed anche il
mare, simbolo di libertà e progresso, in questo contesto, può diventate
un sepolcro:
* C. G. Jung – La psicologia
dell’inconscio – Roma 1971 (Newton & Compton)
* E. Fromm – Psicoanalisi della società
contemporanea – Milano 1987 (Mondatori)
Il
mare – sepolcro.
Partirono
per la costa del sogno
e
sprofondarono negli abissi, torbidi
paurosi
come
coscienze
di mostri.
La speranza
diviene morte: crollano, in pochi attimi, insegnamenti di una cultura
millenaria. “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e
vi sarà aperto; poiché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi
bussa sarà aperto.” (Matteo 7, 7). Una nuova bolgia si apre,
invece, nel mondo infernale dei vivi, dove abissi profondi separano chi
chiede da chi dovrebbe dare, per cui le coscienze intorpidite di chi si
trincera dietro la difesa dei propri privilegi, ormai sono sature di
ancestrale paure ed egoismi e si manifestano solo quali ombre dense di
ataviche, mostruose rimembranze.
Le
donne lasciarono vuoto il letto
notturno
– conchiglia
grande
del destino.Ed i ceri di Pasqua
stelle
spente che si spengono sul mare.
La morte
celebra, ancora una volta, un travolgente trionfo sulla voglia di vivere.
E sceglie come data fatale, per la propria incontrastata incoronazione,
proprio quella del Venerdì santo. Si ripete il sacrificio dell’agnello
pasquale: questa volta non è associato a Gesù Cristo, ma alle donne
albanesi cui il destino aveva fatto lasciare il proprio giaciglio sicuro
per trascinarle, fraudolentemente, nella torbida alcova dell’abisso
marino.
I
bambini non terminarono i giochi.
I
pesci giocheranno con le loro vite
innocenti,
con
gli scheletri, di raggi di luce.
Le
gole degli urli
strozzò
l’acqua della morte,
perciò
più non urliamo.
Ma
cosa porta il vento, la chioma dell’amore
naufragato?
E
le onde portano a riva una bambola orfana,
un
libro di favole travolte
in
zuffe.
Ma il
sacrificio delle sole donne non basta: il tributo da pagare è ben più
alto. La morte, vincitrice, mette ancora sul piatto degli sconfitti la
vita di altri bambini innocenti, che ad essa, inutilmente, si oppongono
urlando con la massima energia che permette loro la gola. Gli urli
disperati vengono, presto, strozzati dall’acqua della morte. La regola
del più forte ha vinto anche questa volta.
Il
“diverso”, perché povero e straniero, ha avuto la giusta punizione
alla sua tracotante aspirazione ad uscire fuori dalla povertà e dalla
diversità. Ma se giustizia è fatta, tra i giudici di più peso non
possono non essere evidenziate le “civili” nazioni europee che hanno
permesso, ed ancora oggi permettono, tali verdetti.
Ed ecco, non
ultima, la reazione lirica di Visar Zhiti:
“Anche
allora,
quando
la terra fu sommersa,
l’Arca
di Noè scampò al diluvio,
solo
la mia gente doveva sprofondare nell’abisso
del
mondo
senza
mondo.”
Il poeta
continua a rivelare la sua straordinaria capacità di penetrare negli
angoli più reconditi del microcosmo albanese, divenendo l’artefice di
un processo psicoanalitico capace di trovare soluzioni psicoterapeutiche
attraverso la metafora. Per fare ciò deve, forzatamente, divenire
“Poeta dell’Abisso”.
In questo
caso, dell’abisso albanese.
Ed in questo
luogo vi riscopre motivazioni, stimoli, antiche vicissitudini, mistiche
visioni: è un ritorno alle origini della sua Anima illirica.
In questa
dimensione, non regolata dalla relatività spazio – temporale, scopre,
finalmente, la verità: il “continuum” che chiarisce tutto. E
adesso, può liberarsi da ogni travaglio interiore:
Quanto
mare, quante tenebrose profondità,
dove
si culla il nostro destino,
abbiamo
creato con le lacrime!
La casualità
di Jaques Monod* si trasforma in destino lacerante, conduttore di perpetue
lacrime e creatore di abissi tenebrosi e profondi: fisici, psichici e
materiali. Da qui prende origine la coscienza mostruosa dell’uomo,
frutto di “processi evolutivi che hanno determinato la trasformazione
di esseri anfibi in rettili, per poi divenire mammiferi e infine
uomini”.**
Il segno
dell’impotenza umana dinanzi agli accadimenti fatali si coniuga con le
traversìe della vita individuale, trascinando Visar Zhiti,
nell’epilogo:
In
riva al mare,
sotto
i marosi del cordoglio più grande,
tiro
fuori i cadaveri della mia vita, ad uno
ad
uno
i
miei giorni naufragati,
pendono
le braccia come epilogo bagnato
di
bandiere del nulla,
in
fila li dispongo sui ciottoli abbandonati
come
la pietà.
*J. Monod – Il caso e la necessità –
Milano 1986 (Mondatori)
**R. Levi Montalcini – La galassia
mente – Milano 1999 (Baldini & Castaldi)
Qui il poeta
non esita a fare una spietata autoanalisi della propria vita: i cadaveri
del canale d’Otranto si associano, inevitabilmente, ai cadaveri
individuali degli errori umani ed ai cadaveri “morali” dell’intera
umanità, dove la continua decomposizione degli atavici valori universali
non ha più, da tempo, lasciato spazio neppure alla pietà umana,
abbandonata come spesso vengono abbandonati certi ciottoli.
Verrebbe
voglia di rassegnarsi, di lasciare che gli arti si distendano inerti, in
un momento di sconforto totale, di disorientamento intellettuale, di
confusione interiore. Ma il Sé (transpersonale) del poeta, infine,
ricompare, mirabilmente, ad indicare la strada giusta da seguire, essendo
questo il cammino prestabilito dall’Ente Superiore per l’intera umanità:
Vieni,
Mondo
Soffiamo
il nostro respiro, senza tardare,
mentre
l’alba s’imperla tra gli occhi spenti e
aperti,
che
non si chiuderanno mai più.
Come
il mare,
Come
la terra,
Come
il cielo.
E’ la
coscienza della provvisorietà dell’esistenza umana a prendere il
sopravvento ed dare impulso a quella solidarietà che non ha alternative
presso gli uomini.
E’
l’intelligenza dell’essenza divina, che permea ogni cosa dell’
universo in quella creazione in atto chiamata
“eterno divenire”, ad illuminare le azioni dell’uomo, anche
nei momenti più tenebrosi.
E’ il soffio
di Dio, misterioso ma implacabile nella stesura delle sue leggi cosmiche,
a generare quelle energie spirituali, indispensabili al cammino futuro
dell’umanità.
E’ la
sconfitta dell’abisso, esorcizzato e finalmente riconfinato negli angoli
più estremi dell’inconscio, per via di questo straordinario poeta
albanese. Che a ragione può essere definito: Poeta dell’Abisso”.
Roma 16 aprile 2000
Costanzo D’Agostino
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