Due scherzi antiartistici
di Anton
Cechov,
al Metateatro di Roma.
di Agius
& Francione
Una messa in scena, sobria, intrigante,
montante quella di Gabriela Nicolosi e Mario Grotta i quali si
approfittano dei due atti unici più popolari dello scrittore russo, Una
domanda di matrimonio e L'Orso,
per introdurci all’ultimo tempo della sua vita, quella in cui
combatteva la sua inutile battaglia con la tisi che l’avrebbe portato
via a soli 44 anni.
“Lo spettacolo -
come leggiamo nel dépliant di sala - vuole essere un omaggio al
grande drammaturgo russo che ha dedicato la vita alla scrittura, quasi
ossessionato dal desiderio irrefrenabile di fermare per sempre sulla carta
un personaggio, un momento di vita di quella Russia fine Ottocento in cui
si possono già presagire le avvisaglie della rivoluzione. Un mondo in cui
è protagonista la quotidianità che scorre tra la noia, la volgarità, la
ripetitività di gesti ed azioni da cui solo pochi sembrano sentire
impellente, pur se inattuabile, il desiderio di fuggire”.
L’antiarte
è ri-scrittura all’infinito del testo proprio o altrui, e in questo
caso raggiunge interessanti metadimensioni antropologiche perché le due
commedie s’intrufolano nella vita di Cechov
per disegnarne il flusso creativo inarrestabile
e , insieme, il momento genetico dell’opera d’arte nel
paradossale momento della fine fisica della vita.
Coniunctio alchemica
della fine e dell’inizio, dell’apocalisse personale
e della genesi di un’opera destinata a superare la fine dei
corpi, che si manifesta in
medias res. All’inizio i
personaggi mascherati avanzano in scena in una surreale giardino edenico,
fatto di alberi e carta, per
raccontare pezzi di se stessi. Sono i personaggi che Cechov tratteggia, a
volte veri e propri schizzi, figure
immortali come zio Vanja, o Nina, la protagonista de Il Gabbiano,
oppure la patetica Liubov de Il Giardino dei Ciliegi. E in tutti c'è
un pezzetto dell'autore, un medico che sente di aver in parte tradito la
sua professione per dedicasi all'arte e che tuttavia, come scrittore e
drammaturgo, non può fare a meno di anatomizzare la realtà appunto con
l'occhio attento del medico.
Le figure invadono lo spazio onirico
del poeta malato che si risveglia e si ritrova accanto la moglie Olga,
l'attrice sposata da appena tre anni. A lei rivela
i suoi incubi generati
dal morbo interiore che lo
rode, ovvero la voglia inarrestabile di scrittura. Un racconto lascia
e un altro già gli subentra in testa, la mano di continua corre
alla penna, in un flusso che solo la morte potrà arrestare, un gorgo
creativo nel quale il bacillo di Koch che giorno per giorno lo corrode
diventa metafora del fluxus genetico inarrestabile.
Quando il poeta malato esce di scena con la sua
copertina, sorretto da Olga, il torace scosso da una
tosse continua e fastidiosa, si dipanano veloci
le due pièce, coi personaggi immaginati che s’incarnano in
scena. Una domanda di matrimonio, scritto nel 1888 da Cechov,
appena ventenne, e L'Orso, del 1889, sono due scherzi
giovanili che rappresentano rispettivamente i prodromi e i postumi del
matrimonio, in una chiave grottesca aperta indifferentemente alle risa sbellicate o al
dramma, ove prevalga nella simbiosi di rappresentazione e percezione del
pubblico la graffiante ironia propria
di quest’autore secondo cui la
gente, per migliorare deve vedere com'è
davvero, non come dovrebbe essere. "Nella vita raramente si dicono
cose intelligenti." - confidò una volta Cechov ad un amico -
"Per lo più si mangia, si beve, si bighellona, si dicono
sciocchezze. Ecco che cosa bisogna far vedere in scena. Bisogna scrivere
un lavoro in cui i personaggi entrano, escono, pranzano, parlano del
tempo, giocano a vint (...) perché cosi avviene nella vita reale."
Lo specchio dell’umanità
reale genera orrore e allora
vale davvero il motto shakespeariano per cui di fronte alla tragedia del
mondo ridere o piangere è la medesima cosa.
Per concludere un plauso agli
attori. Magistrali Mario Grotta e Michela Totino nei panni
rispettivamente di Grigorij Stepanovic Smirnòv e Jelena lvanovna Popola,
ondeggianti tra i reclami per
i debiti lasciati dalla buonanima e l’amore che coinvolge creditore e
bella ereditiera.