LA BISBETICA
ANTIARTE
di
Agius & Francione
Va in scena al Teatro Romano di Ostia Antica La bisbetica domata
di William Shakespeare con Anna Galiena e Massimo Venturiello, per la
regia di Marco Carniti.
Con quest’opera, composta nel 1592, Shakespeare racconta
le vicende di Petruccio e la sua abilità
nel domare Caterina il
cui essere "bisbetica" è una forma di usbergo contro il mondo
maschile e patriarcale in cui vive. Uno scudo efficace tant’è che il
padre stesso la teme e la vuole maritare prima di sposare l’altra sua
figlia minore, Bianca, ambita da vari corteggiatori, tra cui Licenzio che
inscena una serie di trucchi e travestimenti per avvicinarla e alfine
conquistarla.
Nel ruolo della scatenata Caterina l’attrice
italo-francese Galiena a sostenere l’azione del pretendente, il robusto
e compatto Petruccio, assai bene interpretato da
Venturiello, da cui la bisbetica zitella verrà affamata,
strapazzata, scossa, tenuta desta, piegata, fino a che sarà costretta
all'obbedienza totale.
L’azione si sviluppa leggera tra le mani del regista Carniti con
Caterina alla ricerca inconscia di qualcuno che riesca a
domarla. La bisbetica, come la disegna Galiena in un’intervista,
è “una donna
intraprendente di cui ammiro l'intelligenza e l'arguzia, la capacità di
difendere certezze per non essere sopraffatta dall'altro sesso. Nel corpo
e nello spirito”. Soprattutto per non essere sopraffatta da Shakespeare
famigerato maschilista,
armato a più riprese di mancanza di rispetto per la donna, per i suoi
diritti, per la sua dignità. In effetti La bisbetica è
il racconto di una vecchia storia che va oltre l’autore inglese:
la guerra tra i sessi, tema che rimane nei secoli al di là di tutte le
emancipazioni sociali portate dal femminismo.
La bisbetica domata è
un testo minore di Shakespeare, come testimonia una delle scriventi di
questo pezzo, Astrid Agius, di scuola inglese nel cui ambito l’opera The
Taming of the Shrew(titolo originario) è considerata silly,
cioè ai limiti del banale. Non raggiunge la forza e l’intensità di
altri capolavori come Sogno di una notte di mezz’estate ad
esempio e pone comunque l’eterno problema di attualizzare ciò
che è morto. L’Antiarte (http://antiarte.studiocelentano.it)
rinnega l’idea accademica dell’eternità e compiutezza dei testi
ritenendo invece che anche i cosiddetti capolavori(e la Bisbetica non lo
è)vadano riscritti per adattarli ai tempi, ogni opera trasformandosi in
mero canovaccio, contando quindi non più la forma espressiva - che spesso
non regge al tempo nuovo - ma lo spirito dell’autore.
In
Italia c’è la mania della messa in scena dei classici perché attirano
il pubblico adducendo anche come motivazione che non ci sono nuovi
autori. Quest’ultima asserzione è un falso storico perché ci sono
tanti autori bravissimi ma relegati nell’ombra e ci risulta “una
rinnovazione della commedia dell’arte italiana” trascurata perché
proveniente da autori non conosciuti.
I
teatri di Londra, uno dei centri della cultura mondiale, danno la
possibilità ai registi di
mettere in scena autori nuovi sia nazionali che stranieri. Là dove pure
ce ne sarebbe la possibilità, non c’è la mania di rappresentare
Shakespeare a tutti i costi, che si può vedere ogni giorno per tutto
l’anno a Stratford-upon-Avon.
In
Gran Bretagna i produttori sono pronti ad investire sugli autori nuovi
perché c’è una cultura teatrale non di rimando e basata sul nomen
di autori e attori, ma sviluppata
sin dall’infanzia. Là è facile contare sugli abbonamenti massicci di
un pubblico competente, pronto al vecchio come alle novità.
Questa è cultura, non solo pensare ad incassare soldi; giocare
all’inizio anche in perdita per creare l’utopia di un mondo teatrale
italiano nuovo.
Orbene da noi, se non si dà spazio agli autori sconosciuti,
perché ignoti, se si dà spazio sempre ai Shakespeare ai Pirandello agli
Eduardo, come si potrà mai far venire fuori la nouvelle vague,
quella degli autori in carne ed ossa e non delle Grandi Mummie?
Peraltro anche con queste non si creda che il problema del
teatro italiano sia risolto attingendo ai
testi dei Magnifici Sepolti. Rimane, infatti, di fondo
il problema dell’autore nuovo che adatta il vecchio e, mancando
una vague, può accadere di assistere ad operazioni registiche
frammentarie incapaci di adattamenti d’autore in nuce efficaci ed
unitarie.
Dallo spirito di Shakespeare
l’adattatore della Bisbetica di Ostia ha saputo trarre linfa per
una leggerezza brillante, spruzzando qua e là qualche risata e
relegando la vis comica in avalanche travolgente solo in alcuni
monologhi in slang o duetti dialettali come quello napoletano-ciociaro
gustosissimo e spassoso.
L’adattamento
è assai efficace nel prologo alleggerito
e portato ai tempi moderni, segno della necessità di vivificare i
testi dei Giganti Morti. Trattasi di
un prologo molto particolare: una burla, un gioco: far credere ad
un semplicione che è un signore, e, per lui, far recitare a degli attori
una commedia. L’ubriacone è un tizio del nostro tempo gabbato da un Lui
e da una Lei con tanto di automobile nel fondo
che illumina la scena semibuia coi suoi fari.
Un plauso va alla scenografia di questa Bisbetica. La scena
è a congegno dinamico,
funzionale e surreale ad un
tempo: due torri e scale che s’inseguono tra metamorfosi eischeriane a
generare scintillanti magie spazio-temporali. Una casa, una piazza,
una chiesa, con intrusioni improvvise di macchinari da aperture nel fondo
per far uscire una macchina, una nave, un cannone, un baldacchino.
Ci auguriamo, comunque, che queste bravure di registi e
attori, ma soprattutto che le dovizie di fondi delle megaimprese teatrali
vengano messe a disposizione della Nuova Commedia dell’Arte Italia.
Solo allora il peso del Vecchio
sarà riequilibrato e si celebreranno le Vere Nozze, quella tra la
Bisbetica Antiarte e il Teatro Italiano Ringiovanito.
“Se vedi per strada Goldoni, uccidilo”.