LA PRINCIPESSA DELLA CSARDAS
OVVERO DELLA CONTAMINAZIONE DI GENERI E DI CASTE.
di
Agius & Francione
Il Teatro Romano di Ostia Antica, nell'ambito
della programmazione del Teatro di Rom&Estate, ci ha permesso di
assistere in chiave antiartistica alla Principessa della Csardàs
di Emerigo Kàlman con il corpo di ballo, il coro e l'orchestra del
Teatro dell'Operetta Ungherese.
Una delle chiavi d'interpretazione estetica
dell'Antiarte(http://antiarte.studiocelentano.it) è l'opera totale
per attuare una spettacolarizzazione connessa all'attualizzazione del
prodotto artistico in una procedura di forte contaminazione dei generi.
L'operetta, fiorita tra il 1850 e gli anni della
prima guerra mondiale soprattutto a Parigi e a Vienna, è uno
spettacolo di chiara marca antiartistica in quanto prodotto musicale
di carattere leggero e sentimentale con alternanza spettacolarizzata
di parti cantate, parlate e danzate. L'operetta aveva in sé una
connotazione rivoluzionaria rispetto all'opera lirica, sia perché
aveva il coraggio di eliminare alcune pesantezze del "parlato
inutilmente musicato" sostituendolo col parlato puro, sia perché
permetteva di cantare alla maniera dell'opera a voci piccole,
strillanti, cabarettistiche finendo per creare una forma di spettacolo
davvero popolare e democratico. Questa forte contaminazione
popolaresca la si rileva anche dal fatto che in Francia l'operetta,
indissolubilmente legata al clima della Belle Epoque, accolse elementi
e caratteri del vaudeville e dell'opéra-comique; nei
Paesi di lingua tedesca subì l'influenza del Singspiel,
caratterizzato da dialoghi recitati inframezzati da arie e pezzi
d'insieme, con originari caratteri musicali volutamente semplici e
popolareggianti.
Venendo all'operetta messa in scena ad Ostia
Antica ne seguiamo la vicenda solo perché metafora della
contaminazione di generi da noi analizzata. Una famosa canzonettista e
un giovane principe che si innamorano perdutamente, ma la famiglia
regale fa di tutto per separare i due amanti. Ciò perché non si
ammette che un nobile sposi una soubrette, scoprendosi poi che la
stessa madre avversante del principe ha un'origine similare, essendo
una famosa regina del teatro leggero che per dare la scalata al titolo
di principessa ha infilato un matrimonio dietro l'altro. Potrebbe
sembrare una tragedia, ma secondo le leggi dell'operetta vince
l'amore. Tutto è colorato dalla musica insuperabile e con dolci
melodie ci accompagniamo al lieto fine della storia.
Una notazione etimologica. Il termine Csardàs
significa "osteria", dal nome dei famosissimi locali
ungheresi (tuttora attivi anche se diversamente chiamati), dove si
può mangiare, dormire, ballare, divertirsi. Per antonomasia la parola
è passata a significare una danza della citata regione dell'Est-Europa,
costituita essenzialmente da due sezioni contrapposte:
lento-malinconico, e vivace-trascinante. In tempo binario e con un uso
esteso della tonalità minore, è stata utilizzata anche da
compositori classici come Ciajkovskij ne Il Lago dei Cigni.
Chi ha consacrato quel termine è stato proprio
Emerigo Kàlman, un personaggio singolare vissuto a cavallo tra la
fine '800 e il '900, critico musicale del giornale "Pesti Naplò",
autore di canzoni, pezzi pianistici ma soprattutto di operette. Dal
1908 al 1938 visse a Vienna affermandosi come uno degli ultimi grandi
rappresentanti della tradizione dell'operetta viennese. La sua
composizione più famosa è proprio La principessa della Csardàs.
L'operetta, proponendo la sua trama intrigante
coniugata con musiche che riportano alle atmosfere misteriose e
seducenti dell'Est, si rivela uno spettacolo di straordinario impatto
emotivo e dal ritmo coinvolgente. Da una parte la solennità della
musica e dall'altra la leggerezza dei balletti, il tutto in un
fantasioso gioco di colori creato dai costumi di scena.
Una connotazione antiartistica specifica di
questa messinscena di Ostia Antica è stato l'uso frammisto
dell'ungherese e dell'italiano, sia nel parlato che nel cantato, che
ha provocato curiosi effetti linguistici alla Wojtyla con espressioni
del tipo "la moglia", "Caro papà, caro mamma".
Il tutto in un forte accento ungherese che ha creato un italiano
strascicato dalle singolari tonalità slave.
L'Antiarte ha guardato con simpatia a questa
sperimentazione linguistica perché contraria al pedante spirito
accademico di sacralità dei testi, i quali soprattutto nella
drammaturgia devono essere continuamente riformulati per
attualizzarli, renderli comprensibili e comunque nell'ambito di una
ri-creazione perenne del testo ad opera del regista vivente.