Nel luogo chiamato "intermedio"(o Limbo) sfilano a
braccia levate gl'ignavi, coloro che in vita hanno col loro fare pareggiato i meriti e i
peccati. Là subiscono l'unica punizione delle alterne vicende atmosferiche, ovvero la
pena del caldo e del freddo, mentre si trovano là in attesa del Corpo futuro nella
resurrezione.
La parte più vibrante, emozionale, sorretta da percussioni
horror, canti, lamenti strazianti è quella infera.
Arda Viraf deve traversare un possente e tenebroso fiume
ricolmo delle lacrime che la gente lascia cadere sui trapassati(Ardara, Cap. 16) ed eccolo
giungere nel regno dell'eterno dolore.
Viene qui fuori la valenza prodromica del testo, non solo
storicamente ma anche a livello antropologico, quando nelle punizioni dell'Arda Viraf si
rileva che la Legge del Contrappasso, lungi dall'essere una produzione precipuamente
medioevale, era invece un vero e proprio archetipo collettivo, sia pure avvertito molto
rudimentalmente negli inferni delle origini.
Basterà citare al riguardo gl'invidiosi torturati con pioli
infissi proprio in quegli occhi che aguzzarono per compiere il loro peccato(Arda Viraf,
Cap. 92). Un goloso, reo anche di vari sacrilegi, soffre la fame e la sete, mentre si
strappa i capelli e la barba, beve sangue e vomita bava senza tregua(Arda Viraf, Cap. 23).
Davanus, il pigrone, l'unica persona il cui nome è menzionato nell'Arda-Viraf, ha tutto
il corpo morso dagli insetti, eccettuato il piede destro perché con esso una volta spinse
una manipolo di fieno davanti a un bue che arava. Chi ha rubato negli affari o ha
abbandonato l'amico al nemico mangia cervello umano da un cranio che tiene nella mano.
La creazione di una tavola morale talora comporta la
personificazione infera dei vizi, come per la condotta degenere concretantesi
particolarmente in atti antireligiosi, nell'avarizia e nell'inospitalità. Assume le forme
di una prostituta nuda e sudicia che, immersa con le ginocchia in avanti e le chiappe
indietro in una flegma ininterrotta, si dibatte in un vento fetido(Arda Viraf, Cap. 17).
Il viaggio di Arda Viraf ci permette di relativizzare l'etica
della religione in qualunque tempo e di qualunque spazio, smascherandola nella sua
presunzione di assoluto. Alle visioni religiose sempre è sottesa la tavola morale della
società o del gruppo sociale o del clan di appartenenza del chiamato. Tanto qui accade
coi sacerdoti che inviano Arda Viraf a scoprire nell'oltremondo le regole che sono
ovviamente quelle dello status quo e non altre.
Il male principale dei tempi di Arda Viraf era la disgregazione
del nucleo familiare, tenuto in grande considerazione, donde l'esigenza di tenerlo
compatto, vista la cura con cui vengono descritti i comportamenti peccaminosi dei
componenti.
I figli che fecero soffrire i genitori senza chiedere perdono
sono immersi nel fango pestilenziale. Là piangono e invocano il padre e la madre, mentre
una falciola acuminata penetra profondamente nelle loro membra(Arda Viraf, Cap. 65).
L'uomo che non ha riconosciuto i propri figli, li vede cadere
ai suoi piedi mentre viene dilaniato da demoni canini(Arda Viraf, Cap. 43).
I momenti più drammatici sono le punizioni delle madri
degeneri.
L'infanticida è condannata a scavare una montagna coi seni e
ha sulla testa una pietra "simile a un cadavere". Ai suoi piedi c'è il bambino
che piange ma non riesce a raggiungerla, come vani sono i tentativi della mamma di
abbracciarlo. Pena simile è prevista per colei che non diede latte al proprio figlio, la
quale ora si dilania il corpo, il volto con un pettine di ferro e invano invoca la fine
del tormento, implorando di dare latte al proprio infante. Una donna che lasciò piangere
il figlio d'incuria e di fame, piange senza posa e divora la pelle dei suoi stessi seni.
La madre che privò del latte il figlio per venderselo è costretta a tenere con le sue
mani i seni su una padella calda e a rivoltolarli da ogni lato(Arda Viraf,Cap.
44,59,78,87,94,95).
Non c'è scampo neppure per le donne assillanti, lussuriose e
traditrici.
Le fedigrafe che hanno abbandonato il marito praticando la
prostituzione e la lussuria sono sospese per i seni, con gli occhi trafitti da chiodi di
legno, mentre bestie orribili divorano i loro corpi. Colei che disprezzò il marito ha la
lingua tirata fino al collo e se ne sta sospesa in aria, ovvero si dilania il petto e il
seno con un pettine di ferro. La donna che tormentò il marito con parole taglienti è
torturata da serpenti aggrappati alla lingua, mentre quella che mangiò carne di nascosto
e l'offrì al suo amante è condannata a mangiare il suo stesso cadavere. L'infame che
tradì l'uomo giusto per andare a letto con un malvagio viene ricoperta con un "coque
de fer" e stesa, a bocca aperta, su un forno caldo. Un serpente entra nel corpo di
una peccatrice che distrusse il matrimonio consanguineo e le fuoriesce dalla bocca(Arda
Viraf, Cap. 24, 26, 62, 69, 82, 83, 85, 86).
Un mondo ricolmo di tormenti sadici,soprattutto a sfondo
sessuale, che anticipa le più orrende visioni dell'inferno dantesco e della letteratura
gotica successiva.
La rassegna terribile, diventa, nella mis en scène al teatro
di Ostia Antica, parola che si fa canto, musica, avalanche dove la minuziosa
descrizione della tortura è amalgamata, tagliata, smussata, dalla massa di
emozioni-vibrazioni che danno senso globale al Grande Tormento.
La sapiente regia è ricorsa al Nagauly, la più antica forma
teatrale usata per la rappresentazione della mitologia iraniana. Nella versione più pura
ci si avvaleva di un cantastorie che conduceva il racconto secondo ritmi molto
movimentati. Una performance quella dei nagal, gli aedi iraniani, tuttora in voga nella
sala da tè orientale: un posto per raduno maschile, dove gli uomini s'incontrano per
fumare, bere il tè e giocare a dadi. Qui, ad Ostia Antica, entrano i Nagal e cominciano
la loro azione fatta di recitato, danza, canto assai marcato e accompagnamento musicale
attuato con strumenti assai scenografici a corda e a percussione quali il daf, il santur,
il tinbac, il tanbur, il daf, il violon e il camunche.
Musica e canti tradizionali sono interpretati da attori e
cantanti iraniani e, eccezionalmente, da Oscidari, un sacerdote zoroastriano che canta in
lingua pahalavi. Le voci di tre attori intervengono a interpretare in italiano quei passi
che il cantastorie Vaiola Torabi recita in originale, intervallando con sapiente dosaggio
quello che alla fine sembra più un concerto che una messinscena teatrale.
Un'opera antica, difficile, concepita già in nuce in chiave
multimediale e popolare, successivamente ripensata, in spirito da antiarte a partire dal
linguaggio verbale, in modo da far percepire al pubblico moderno, elettronico e
internettiano, la magia tecnologica di un descessus ad inferos implausibilmente e
acronicamente ambientato in un teatro dell'antica Roma.