LE NUVOLE DI ARISTOFANE IN ANTIARTE ALLA
MANIERA ZINGARESCA.
di Gennaro Francione
Nell'incantevole scenario del Teatro
di Ostia antica è andato in scena Le nuvole di Aristofane per
la regia di Vincenzo Zingaro.
Sono andato con la mia famiglia
teatrale, Astrid (autrice) e Maya (attrice) per assistere da
drammaturgo alla messa in scena dal vivo di un'opera da me solo
letta e studiata, usata in contaminazione per un testo inedito
Schiamachein ovvero la pollogia di Socrate.
I personaggi fantastici della
commedia Le Nuvole diventano gli accusatori nel processo
realmente svoltosi contro Socrate, chiamato a discolparsi
dall'accusa di aver corrotto la gioventù ateniese. Nella retorica il
culmine della bravura maieutica socratica è la sottile disquisizione
su pollo e polla che fonda in assonanza l'Apollogia finale in cui,
con giochi di parole talora sensati, talora assurdi, l'accusato
difende se stesso preferendo prendere la cicuta che mangiare banane
ciquita. La vita significa, infatti, essere condannato a stare di
qua e subire le angherie quotidiane della bisbetica moglie Santippe.
Ma questa è solo cronaca personale
per far vedere come nascono le opere da quello che già c'è nel
mondo, in una catena di creatività infinita tra gli artisti allo
stesso modo che Socrate il nuvolaro dimostra allo zotico indebitato
Strepsiade che non ci sono dei ma solo nuvole che provocano tuoni e
piogge.
Molto bella la messinscena di
Zingaro, essenziale, ritmata, compatta ed elegante. Zingaro ha vinto
la mania dei registi di toccare i testi per diventare anch'essi un
po' coautori della scrittura teatrale su carta, se non per fare più
corta la messinscena per raggiungere la fatidica ora oltre la quale
la gente si annoia.
La bravura in tal caso è stata
conservare la purezza del testo per come fu scritto, mantenendo la
sua forza dissacrante, più che mai antipolitica e antiaccademica,
per una rappresentazione che in chiave di esecuzione cristallina
mostra tutta la sua modernità. Fantastica la capacità di Aristofane
di rendere accessibili e volgarizzare i concetti dei sofisti e dei
materialisti greci, con metafore plastiche come le nuvole unica
realtà e i grotteschi personaggi chiamati a dimostrare il Discorso
Giusto e quello Ingiusto, in chiave insieme simbolista e assai
plastica.
Il coraggio di Zingaro, che è
diventato anche pura bellezza spettacolare scenica, è stato l'uso
delle maschere antiche, strumento aborrito da molti attori del carro
di Tespi per la copertura del volto e la difficoltà di esprimersi
senza faccia. In pratica con quell'artificio sono solo visibili gli
occhi, la bocca mentre viene demandato alla voce ma soprattutto al
resto del corpo il compito di sopperire alle mancanza di
espressività del volto.
Le maschere, realizzate con
maestria dal Carboni studio, hanno consentito anche di risolvere
brillantemente e senza stonature, il problema degli attori in doppi
personaggi grazie ai semplici mutamenti di voce, senso,
atteggiamento corporale.
Tra gli attori eccelso Fabrizio
Passerini nei panni di Strepsiade.
Molto suggestive e appropriate le
musiche di Giovanni Zappalorto.
Semplice ma di effetto la
scenografia culminata nella macchina che porta in scena Socrate,
assiso su un trono tra le nuvole come una di quelle divinità
olimpiche che lui stesso rinnega.