Opera buffa del giovedì santo di De Simone al Quirino di
Roma(aprile 2001).
INTERRELAZIONI
NAPOLETANE. L'OPERA BUFFA DI DE
SIMONE ANALIZZATA ATTRAVERSO L'ANTIARTE DI FRANCIONE.
di
Gigi
Trilemma
Il lavoro di De Simone che qui esaminiamo in chiave antiartistica
si ispira all'opera buffa settecentesca, un genere che si sviluppò
soprattutto nella Napoli del Settecento con autori come Galuppi, Pergolesi,
Paisiello e Cimarosa per
contrastare l'opera seria metastasiana, là dove bandiva rigorosamente la
libera mescolanza di tragico e comico tipica di tanta opera secentesca.
All'idealizzata astrattezza dei personaggi metastasiani l'opera buffa
contrapponeva personaggi reali, concreti, protagonisti di vicende assai più
vicine alla realtà contemporanea, generando un teatro talmente sanguigno
e multiplo che gli enciclopedisti francesi lo esaltarono come la
nuova forma antiaccademica di teatro borghese, da contrapporre ai fasti
aulici della tragédie-lyrique.
Saltando dal Settecento all'Opera Buffa ri-costruita da De Simone
due secoli dopo il testo prende l'avvio da un "giovedì santo"
bloccato nel tempo e nello spazio, immoto e in una perenne attesa di una
domenica di resurrezione che non verrà mai. La procedura rievocativa si
sviluppa "in un labirintico gioco rappresentativo di frammenti
storici, di elementi mitici, ritualistici e tradizionali, di segmenti del
nostro tempo, drammatici corpi di antica dolenza, di rimandi all'attuale
vivere senza memoria, che trova riscontro anche nella realtà
napoletana"(così nel dépliant illustrativo edito da Media Aetas;
vedi anche http://www.mediaetas.it/Opera_Buffa/operb_rif2.htm).
Al lavoro, messo in scena al Teatro Quirino di Roma, ho assistito col mio amico Gennaro Francione, il fondatore
del movimento Antiarte, e insieme ci siamo gettati in questo un piatto
ghiotto, soprattutto lui napoletano con una foga che mi ricordava Totò di
Miseria e nobilità alle prese
con gli spaghetti pigliati dal piatto a piene mani dopo tanta fame....
L'ho visto, lui, giudice e
drammaturgo della schiera degli Ugo Betti,
seguire la rappresentazione con entusiasmo, fazioso (essendo
appunto partenopeo) e complice ad un tempo, per aver egli ambientato nello
stesso '700 napoletano la commedia Alchimia dell'Avaro, ovvero la nuova commedia dell'arte che
trova nel napoletano, inteso come lingua
e gestualità, la sua più naturale espressione.
Attorno a un
personaggio classico, l'Avaro, ruota una compagnia di attori per inscenare
una truffa spettacolare alchemico-escrementizia al fine di sottrargli
soldi e moglie. A guidare la combriccola due maschere nuove, il castrato
fallito Fluminella e l'impresario sporcaccione Marchese di Caccavone, in
combutta con gl'intramontabili Pulcinella e Palummella. Il perfetto
congegno plautino s'interseca con le forme più moderne del teatro
uroborico(teatro sul teatro), del teatro totale e del teatro HIV ovvero di
Horror italo-vesuviano, parodia in partenopeo del teatro gotico inglese.
L'opera inedita viene qui citata per la similitudine di percorsi di
frantumazione e
riassemblaggio compiuti da chi, napoletano, voglia scrivere un'opera
vecchia, ambientata tre secoli addietro mescolando forme e strutture
antiche e moderne, sapientemente amalgamandole nell'unità dello stile,
realizzando l'uroboros antiartistico ovvero la circolarità armonica degli
elementi.
Sicuramente qui parlo di un movimento che non molti conoscono. E
pertanto urge una premessa esplicativa.
La metodologia dell'Antiarte è "innovare
ed esplorare nuovi
linguaggi, partendo dal presupposto che compito dell'artista, avvalendosi
dei nuovi sistemi informatici, ipertestuali e internettiani, è di fare
arte per distruggerla in infinite nuove forme attraverso l'alchimia, la
chimica, la fisica metaforizzate in chiave estetica"(G. Francione, Le
26 tesi dell'Antiarte, http://www.octava.it/antiarte).
Il primo problema antiartistico da affrontare ad opera di chi
scriva un'opera ambientata in altra epoca è quella di attualizzarla.
Questo De Simone fa con sagacia nel linguaggio inteso sia come parola che
come immagine.
Un rottura vistosa dell'elemento cronico è l'uso di manichini
nella parte finale dell'opera che enigmaticamente incombono sull'esito
micidiale della rivoluzione napoletana. Sono manichini dechirichiani, ma
uno spicca, all'estrema destra, dotato di un testone insieme da antico
etrusco e di alieno postmoderno, da solo capace di rompere la quarta
parete e di incombere sul pubblico in tutta la sua umanità di automa
dolente a testimoniare il dramma di un intero popolo.
Quanto al linguaggio verbale lo stesso De Simone annota la forza
combinatoria del suo scrivere. "Ho evitato un linguaggio che potesse
riferirsi esclusivamente all'attualità, o comunque a
un tempo storicamente determinato. La costruzione si avvale di
diversi linguaggi, al fine di realizzare quella indeterminatezza storica,
quel tempo sospeso, quella sfumata connotazione del rituale religioso,in
cui si accolgono passato e presente, realtà e sogno, senza alcun
riferimento a un parlato realistico o naturalistico, vernacolare o in
lingua che sia".
L'antiarte è proprio il contrario dell'hortus
conclusus, vale a dire un
linguaggio rigorosamente riportato a un tempo-spazio determinato,
prediligendo invece l'irrgartenn,
il labirinto vegetale del significante
e del significato in
cui la fusione tra vocaboli di ere diverse porta all'attualizzazione di
una tema o al contrario a un voluto invecchiamento a
seconda dei ritmi dell'opera che si va a dipanare.
La tecnica decisamente antiartistica e fortemente drammaturgica è
la contaminazione tra stili e modalità dell'essere teatrale sia in
rapporto al dialetto napoletano che alla lingua italiana. L'antiarte è
sorella del clinamen epicureo e
utilizza la collisione di atomi semantici per creare strutture drammatiche
nei contenuti e nel verbale.
De Simone utilizza nel primo quadro(la Scuola dei Castrati) un
linguaggio inventato, antireale, "a metà tra un dialetto di
provincia e un napoletano letterario, desunto dallo stile dei libretti
settecenteschi di commedie musicali, o di opere buffe, con frequenti
allusioni alla cosiddetta parlèsia,
ovvero a un gergo tuttora vivo tra gli orchestrali, i posteggiatori e
alcune frange della malavita locale".
Nel secondo quadro(la
Scuola dei Mendicanti e delle Prostitute) fonde la parlata plebea, della
periferia napoletana, al linguaggio di Pietro Trinchera, commediografo
napoletano del secolo XVIII, capace di stilizzare le espressioni popolari,
pur mantenendone la violenta carica espressiva, ricca di metafore e di
sentenze proverbiali.
Altro tipo di contaminazione
antiaccademica è quella di carattere puramente cronotopico come accade
per il dialetto di donna Faustina, che parla come un personaggio borghese
della fine dell'Ottocento, quasi emergente dal teatro di Eduardo
Scarpetta. Uno strumento di fusione chimica antiartistica, vivificante che
creerebbe orrore in un pedante drammaturgo filostorico, tutto preso
dall'esigenza di collocare ogni cosa al suo posto e al suo tempo con
procedura atta a creare non l'animus theatri ma il più legnoso rigor mortis.
Talora la contaminazione desimoniana viene attuata amalgamando il
napoletano con lingue straniere, intese come modalità peculiari
d'intonazione (così nel terzo quadro donna
Carolina parla
iperenapoletano con accento germanico) ovvero come fonti di vocaboli,
slang etc. sul tipo della tarantella complicata, "una commistione di
dialetto e di un gergo anglo-americanese, che si produsse a Napoli
nell'ultimo dopoguerra, allo scopo di creare un forte elemento aggregante
nel mondo delle prostitute, dei contrabbandieri e dei militari
americani".
In altri casi la contaminatio
è frutto di un'improvvisa incursioni
di detti, frasi dotte e raffinate nel gergo sfrenato di un popolano. E' il
caso di Michele "'o pazzo ", alias Michele Marino, personaggio
storico capo dei lazzari durante la rivoluzione napoletana del 1799, e
giustiziato durante l'immediata restaurazione. Egli parla "un
delirante dialetto carnevalesco, pulcinellesco, anche se relazionato
grottescamente a espressioni di Rousseau e Voltaire". Nel quarto
quadro, Lionardo, tra l'altro, cita frasi di Marivaux, desunte da La
disputa e da Gli attori in buona
fede.
Tra le lingue straniere è da ricomprendere anche... l'italiano per
cui nel primo quadro "il principe e il rettore si esprimono con
espressioni barocche, infarcite di moduli dell'italiano odierno. Nel
secondo quadro il principe Clorindo adopera una lingua desunta in gran
parte dalle commedie goldoniane. A tale proposito, il rapporto d'amore tra
Cardella, stilisticamente connotata da un dialetto letterario, e il
principe Clorindo, allude a quella commistione culturale che a Napoli, nel
1700, connotò la produzione musicale della letteratura teatrale e
dell'Opera buffa".
La collocazione dell'opera nel Settecento napoletano inteso come
tempo mitico, tempo dell'inizio del mondo, è un'altra connotazione
antiartistica che realizza e ritiene preminente nella creazione estetica
cogliere quello che Goethe chiamava lo "Spirito del Tempo". Ciò
significa che si lavora sulla sostanza morta, informe, la si sgrossa e
quel che rimane del cadavere-arte passata è il nucleo, lo spunto
essenziale per una nuova riformulazione di ciò che fu nel tempo
dell'attuale. Acchiappato quel nucleo la storia, per così dire, si dipana
da sola.
Nell'ambito di tale Spirito Essenziale più che mai il Settecento
fu un secolo esoterico, dominato a Napoli dal misterioso Principe di San
Severo, grazie alle cui arti, mistificate
in Alchimia dell'Avaro,
si riesce a convincere l'Avaro che trasformerà la sua materia
vile, la cacca in oro. Tutta
l'Opera Buffa di De Simone si dipana come una sacra rappresentazione
operante su materiali vili trasformati in oro prezioso
a partire dall'umano stesso di cui si vanifica la virilità in nome
dell'arte e del bel canto. Il personaggio di
Titta, come soprano evirato, rappresenta il castrato rituale,
"colui che deve morire " e percorrere con la collettività tutte
le tappe del Mistero.
Un tema quello degli evirati cantori che non poteva non affascinare
un amante del Settecento come Francione che ne ha tratto spunto per
narrarne le gesta in Castramerone.
Processo ultramondano agli
eunuchi cantori. Nell'atmosfera
incantata di un luogo fuori dallo spazio, legato alle magie del Principe
di San Severo, misteriosi giudici ammassano migliaia di cantori evirati
per processarli, lasciando che ciascuno di essi dipani, attraverso il
racconto delle proprie esperienze, il
senso stesso della vita e del peccato.
Valgono il successo, il potere, la libertà dei vizi ma forse più
di tutto l'immortalità dell'arte la mutilazione indelebile dell'essere
fisico? Questa la domanda di fondo cui il gruppo, ammassato come in un
tragico coro greco, cerca attraverso una serie di racconti - costruiti
alla maniera di un decamerone giudiziario -
di dare risposta. Ciò che De Simone fa sinteticamente, il romanzo
intesse analiticamente andando a scovare tutti i reconditi accessi di una
pratica tanto diabolica per l'esecuzione quanto divina per gli effetti,
creando degli autentici usignoli rivestiti di corpi umani.
Anche l'elemento musicale dell'Opera Buffa del Giovedì santo
richiama un senso esoterico a partire dallo "Stabat Mater "
eseguito nel Conservatorio nel giorno del giovedì santo. Un rito
enigmatico che si svolge lungo il percorso dei dodici brani musicali,
scanditi come le dodici ore di una notte o le ventiquattro ore di un
Orologio della Passione, che si consuma sul lamento perenne proprio dello
Stabat Mater.
L'antiarte è contaminazione, esaltazione del clinamen
epicureo, ma anche proliferazione il cui primo momento è la
duplicazione dell'essere. L'Antiarte è, infatti, Antifasi, figura che nel
linguaggio della logica di Aristotele implica la medesima predicabilità
di una cosa e del suo opposto rispetto a un oggetto. Ma l'Antiarte è
anche Alchimia. Essa lavora con l'alto e col basso, nella dimensione in
cui l'alto e il basso coincidono. In tal senso lo schema emblematico dell'Antiarte
è da un lato l'opera semiseria o semicomica, fusione del dramma e del
comico difesa dall'opera buffa, dall'altra il Doppelgänger figura
bivalente usata da De Simone a
piene mani.
"Nel labirinto dei quattro quadri, i personaggi assumono
spesso doppia connotazione. Nel secondo quadro Titta prende le vesti del
principe Clorindo, e il maestrino Lionardo, come gemello rituale di Titta,
veste i panni del mendicante Fonzo. Lo
svelamento avviene alla fine del quadro, quando Titta,
disconosciuto dalla madre come figlio del principe, diventa un mendicante,
e Fonzo si veste con abiti principeschi. In tal senso, la coppia
Titta-Lionardo si rappresenta con fasi di alternanza in ascesa e in
discesa, celesti e infere, caratteristiche di alcune divinità antiche e
di santi cattolici di tipo popolare (Castore e Polluce, Santa Cosma e San
Damiano, ecc. ).Ma con caratteristiche ambigue si configura anche il
principe del primo quadro che successivamente prende i connotati del
mendicante Pacicco, per vestirsi, nel terzo quadro degli abiti donneschi
di donna Carolina.Allo stesso modo, Ciannella si mostra di giorno come
vergine monaca, e di notte come prostituta e sacerdotessa di violenti riti
dionisiaci. Conseguentemente, alla fine del secondo quadro, in preda a
furore e invasamento, quasi Agave baccantica, ella uccide il marito
Pacicco nel momento che questi induce il figlio Fonzo a esprimere un
rapporto di incesto con lei".
La moltiplicazione dei corpi-ruoli è un escamotage predicato dall'Antiarte
per vivificare il passato. L'impresa sull'arte passata è medianica e
alchemica da un tempo. Si tratta di ridare vita, o meglio alito, a delle
splendide, meravigliose, mummie. Operazione del tutto antitetica a quella
del principe di San Severo che secondo la leggenda popolare con le sue
manipolazioni demoniache aveva ucciso due creature(ora conservate nella
Cavea della Cappella di san Severo) per sperimentare su di esse un liquido
metallizzante. Nel laboratorio teatrale e antiartistico si tratta al
contrario di riprodurre in vitro l'homunculus, creatura animata dallo
spirito di tempi e spazi del tutto divergenti.
L'operazione è perfettamente riuscita a De Simone, creando una
macchina alchemica ora seria e aurifera, ora semiseria
buffa e cafonesca. La
sua Opera Buffa procede alimentando spazi, personaggi, musica, fonemi di
una vitalità popolaresca e raffinata, inglobata armonicamente nella
sospensione eterna verso una rivoluzione che non arriverà mai. Da qui il
paradosso del Sangue del Popolo che si dipana in scena come un grande
Sogno. E il Sogno è, uroboricamente, la fonte prima dell'Alchimia.